Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8025 del 22/04/2020

Cassazione civile sez. I, 22/04/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 22/04/2020), n.8025

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22932/2018 proposto da:

R.A., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Perricone Diego Giuseppe, giusta procura;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, depositato il

12/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2019 dal Cons. Dott. LA TORRE MARIA ENZA.

Fatto

RITENUTO

che:

R.A., cittadino del (OMISSIS), ricorre per la cassazione del Decreto 12 giugno 2018, n. 1158/2018 emesso dal Tribunale di Caltanissetta – Sezione Specializzata in materia di Immigrazione e Protezione Internazionale – che, su impugnazione avverso il diniego dell’istanza di concessione di protezione umanitaria, ha confermato la decisione di rigetto della Commissione Territoriale di Siracusa.

Il Tribunale, premesso “che ai fini dell’esame della domanda di protezione possono valutarsi unicamente le dichiarazioni – timore per la propria incolumità in quanto minacciato dai terroristi appartenenti al gruppo (OMISSIS), i quali volevano vendicare la morte di due loro compagni uccisi nel corso di un attentato ad un personaggio influente sciita, al cui servizio lo stesso ricorrente lavorava come guardia privata – rese dal ricorrente innanzi alla Commissione Territoriale, tra l’altro prive di riscontro probatorio e stereotipate, poco credibili e scarsamente plausibili, mentre nessuna prova costituenda o precostituita è stata allegata”, ha ritenuto non sussistenti i presupposti per il riconoscimento della richiesta protezione, dato che il richiedente, in caso di rientro nel Paese d’origine, non correrebbe il rischio effettivo di subire un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

Accertava inoltre, la mancanza di prova sul rischio di subire una condanna a morte ovvero trattamenti inumani e degradanti, considerando, alla luce delle fonti internazionali consultate, che nella regione d’origine, Punjab, non ricorre alcuna ipotesi di conflitto armato. Infine, per quanto concerne l’istanza di protezione umanitaria, il Tribunale rilevava che nessuna grave o oggettiva situazione personale, tale da integrare una possibile situazione di vulnerabilità ed escludere l’allontanamento dello straniero, è stata allegata, lamentandosi solo in modo generico dell’instabilità politica del Paese d’origine, ritenuta altresì insufficiente, ai fini dell’eventuale riconoscimento della protezione umanitaria, la prova circa lo svolgimento di un’attività lavorativa in Italia.

Il Ministero si costituisce con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il ricorso è affidato a due motivi.

Con il primo si deduce violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il secondo motivo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Entrambi i motivi appaiono inammissibili, riproponendo alla Corte un diverso apprezzamento dei fatti, effettuato con congrua motivazione dal giudice di merito che ha escluso i presupposti per la concessione delle misure richieste.

Va premesso che la valutazione del rischio di trattamenti inumani e degradanti da agente privato da cui lo Stato non è in grado di proteggere il suo cittadino non può prescindere dalla esposizione di una storia individuale credibile, mentre la valutazione del rischio ex art. 14, lett. c), può anche farsi sulla base della provenienza, qualora nel paese di origine sussista una situazione di violenza generalizzata derivante da conflitto armato, di livello talmente elevato da far ritenere che un civile per il solo fatto della presenza sul territorio corra un rischio effettivo di subire minaccia grave alla vita o alla persona, entro i limiti rigorosi indicati dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakitè C-285/12). Si tratta chiaramente di una ipotesi eccezionale legata alla sussistenza non già di una semplice instabilità socio-politica o del rischio di attentati terroristici generalizzati, ma di un vero e proprio conflitto armato che genera violenza indiscriminata.

Sotto questo profilo il Tribunale, previa l’acquisizione di informazioni sul paese di origine (distretto Jhang, Pakistan), di cui ha indicato la fonte (cfr. Cass. 11312/19) e cioè siti EASO 2017 e report Commissione nazionale per il diritto di asilo del 25.8.2017, ha accertato che esso non figura fra quelli nei quali sono stati registrati incidenti mortali, escludendo la situazione di conflitto armato, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12). Secondo Cass. n. 9090/2019, il grado di violenza indiscriminata deve avere raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel paese o nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire tale minaccia. Situazione questa non ricorrente nel caso in esame, come valutato dalla Tribunale di Caltanissetta, che ha motivatamente escluso l’esistenza di conflitto armato in Pakistan, nel senso sopra delineato.

Il Tribunale ha così ha esaminato il caso ed escluso il rischio di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c) e verificata la diminuzione di episodi violenti e vittime nel territorio di provenienza, per cui è stata affermata l’insussistenza di una situazione di pericolo per l’incolumità fisica del richiedente, in caso di rientro.

Peraltro, nella fattispecie, il Tribunale ha accertato l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente (prive di riscontro probatorio e stereotipate, poco credibili e scarsamente plausibili, mentre nessuna prova costituenda o precostituita è stata allegata) a fronte di un racconto che non rispetta i parametri del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. E’ stato affermato, in particolare – e a questo orientamento si intende dare continuità – che “l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona” e che, “nel caso in cui le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso sulla prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. 18229/2019; nello stesso senso, Cass. n. 28862/2018, Cass. n. 16925/2018).

Tale valutazione di merito non è sindacabile in sede di legittimità. In ogni caso, con riferimento al secondo motivo, va osservato che questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere comunque necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Orbene, nel caso di specie, il richiedente ha dedotto nel ricorso per cassazione una situazione di vulnerabilità legata alle generali condizioni socio economiche nel Paese d’origine, senza indicare alcuna circostanza fattuale attinente alla sua condizione personale, salvo il racconto che i giudici di merito hanno coerentemente ritenuto non credibile ed inattendibile (cfr. Cass. n. 28969/2019).

Quanto infine alla attività lavorativa svolta, ritenuta dal Tribunale elemento non sufficiente ex se a integrare una possibile situazione di vulnerabilità ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, in questa sede il ricorrente non ha fornito elementi che consentano una diversa valutazione rispetto a quella del Tribunale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrali spettante alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020

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