Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8024 del 22/04/2020

Cassazione civile sez. I, 22/04/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 22/04/2020), n.8024

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21779/2018 proposto da:

A.I., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Perricone Diego Giuseppe, giusta procura;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, depositato il

04/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2019 dal Cons. Dott. LA TORRE MARIA ENZA.

Fatto

RITENUTO

che:

A.I., cittadino del (OMISSIS), giunto in Italia nel 2016 a seguito del rigetto della domanda di protezione presentata in Francia ed al conseguente provvedimento di espulsione, ricorre per la cassazione del decreto n. 1117/2018 del 4 giugno 2018 emesso dal Tribunale di Caltanissetta – Sezione Specializzata in materia di Immigrazione e Protezione Internazionale – che, su impugnazione avverso il diniego dell’istanza di concessione di protezione internazionale, sub species protezione sussidiaria, ed in subordine protezione umanitaria, ha confermato la decisione di rigetto della Commissione Territoriale di Siracusa.

Il Tribunale, rilevata la mancata allegazione di prove e l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente (che non ha integrato, o meglio chiarito, i fatti narrati dinnanzi alla Commissione territoriale, scarsamente plausibili e verosimili – violenza sessuale subita e registrata in un video, con conseguente minaccia della sua diffusione – rilasciando, invece, dichiarazioni a proposito della sua attuale situazione lavorativa in Italia), ha ritenuto che non sussistesse il rischio di subire un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, in caso di rientro nel paese d’origine.

Nè è stata data la prova del rischio di subire una condanna a morte, ovvero di subire trattamenti inumani e degradanti, considerando, alla luce delle fonti internazionali consultate, che nella regione d’origine, il Punjab (Pakistan), non ricorre alcuna ipotesi di conflitto armato.

Infine per quanto concerne l’istanza di protezione umanitaria, il Tribunale ha verificato che non è stata lamentata alcuna condizione personale di effettiva privazione dei diritti umani nè allegata alcuna circostanza o fatto rilevante, tale da integrare una situazione di vulnerabilità, non essendo a tal fine sufficiente lo svolgimento di un’attività lavorativa, in Italia.

Il Ministero è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il ricorso è affidato a tre motivi.

Con il primo si deduce violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il secondo motivo si lamenta violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il terzo si lamenta la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

I motivi sono inammissibili, riproponendo alla Corte un diverso apprezzamento dei fatti, effettuato coerentemente dal giudice di merito che, con congrua motivazione, ha escluso i presupposti per la concessione delle misure richieste.

Va premesso che la valutazione del rischio di trattamenti inumani e degradanti da agente privato da cui lo Stato non è in grado di proteggere il suo cittadino non può prescindere dalla esposizione di una storia individuale credibile, mentre la valutazione del rischio ex art. 14, lett. c), può anche farsi sulla base della provenienza, qualora nel paese di origine sussista una situazione di violenza generalizzata derivante da conflitto armato, di livello talmente elevato da far ritenere che un civile per il solo fatto della presenza sul territorio corra un rischio effettivo di subire minaccia grave alla vita o alla persona, entro i limiti rigorosi indicati dalla CGUE nelle sentenze del 17 febbraio 2009 (Elgafaji, C-465/07) e del 30 gennaio 2014, (Diakitè C-285/12). Si tratta chiaramente di una ipotesi eccezionale legata alla sussistenza non già di una semplice instabilità socio-politica o del rischio di attentati terroristici generalizzati, ma di un vero e proprio conflitto armato che genera violenza indiscriminata.

Sotto questo profilo il Tribunale, previa l’acquisizione di informazioni sul paese di origine (regione del Punjab), di cui ha indicato la fonte (cfr. Cass. 11312/19) e cioè siti EASO 2017 e report Commissione nazionale per il diritto di asilo del 25.8.2017, ha esaminato il caso ed escluso il rischio ex art. 14, lett. c). Il Tribunale ha altresì accertato che lo stesso richiedente non ha lamentato condizioni personali di effettiva deprivazione dei diritti umani, condizione questa indefettibile della protezione umanitaria.

Peraltro nella fattispecie il Tribunale ha accertato l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dal richiedente, a fronte di un racconto che non rispetta i parametri del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3. E’ stato affermato, in particolare – e a questo orientamento si intende dare continuità – che “l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona” e che, “nel caso in cui le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso sulla prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. 18229/2019; nello stesso senso, Cass. n. 28862/2018, Cass. n. 16925/2018).

Quanto infine alla attività lavorativa svolta, ritenuta dal Tribunale elemento non sufficiente ex se a integrare una possibile situazione di vulnerabilità ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, in questa sede il ricorrente non ha fornito elementi che consentano una diversa valutazione rispetto a quella del Tribunale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile. Nulla sulle spese in mancanza di costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020

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