Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 8023 del 22/04/2020

Cassazione civile sez. I, 22/04/2020, (ud. 26/11/2019, dep. 22/04/2020), n.8023

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21776/2018 proposto da:

A.T., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Perricone Diego Giuseppe, giusta procura;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, depositato il

04/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

26/11/2019 dal Cons. Dott. LA TORRE MARIA ENZA.

Fatto

RITENUTO

che:

A.T., cittadino del (OMISSIS), ricorre per la cassazione del Decreto 4 giugno 2018, n. 1116/2018, emesso dal Tribunale di Caltanissetta – Sezione Specializzata in materia di Immigrazione e Protezione Internazionale – che, su impugnazione avverso il diniego dell’istanza di concessione protezione internazionale, sub species status di rifugiato e protezione sussidiaria, e protezione umanitaria, ha confermato la decisione di rigetto della Commissione Territoriale di Siracusa.

Il Tribunale, premesso che ai fini dell’esame della domanda di protezione possono valutarsi unicamente le dichiarazioni rese dal ricorrente innanzi alla Commissione Territoriale, risultate scarsamente credibili e inverosimili ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e prive di riscontro probatorio, in quanto la parte non è comparsa all’udienza e non ha inteso rendere alcuna dichiarazione volta a integrare o meglio chiarire i fatti narrati, e nessuna prova, costituenda o costituita, è stata allegata, ha ritenuto che “non ricorrono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato atteso che non è stato prospettato alcun rischio o pericolo di subire forme di persecuzione per motivi di religione”.

In particolare, secondo il Tribunale il ricorrente – di religione sciita – “non è minacciato o perseguitato per il suo credo religioso ma solo perchè ritenuto responsabile della morte di un militante waabita avvenuta in circostanze non del tutto chiarite nel corso dell’audizione”.

Ha, altresì, ritenuto non sussistenti i presupposti per la concessione della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, escludendo, in base alle fonti consultate, la possibilità per il ricorrente del “rischio effettivo di subire un danno grave” ovvero essere esposto ad una situazione di pericolo per la sua incolumità fisica, non ricorrendo alcuna ipotesi di conflitto armato nella regione del Punjab di provenienza del ricorrente.

Infine il Tribunale non ha riconosciuto la ricorrenza dei presupposti per la concessione della protezione umanitaria in quanto “nessuna circostanza o fatto rilevante, tale da integrare una possibile situazione di vulnerabilità, è stato allegato ai fini dell’eventuale riconoscimento della protezione umanitaria”.

Il Ministero si costituisce con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Il ricorso è affidato a tre motivi.

Con il primo motivo si deduce violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver il Tribunale riconosciuto il fumus persecutionis, a causa della religione del ricorrente.

Con il secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 14, lett. b), in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa motivazione su un punto decisivo del giudizio, per non aver il Tribunale considerato il rischio di subire un danno grave per l’appartenenza religiosa del ricorrente ed alla conseguente compromissione dei diritti di libertà che non vengono tutelati dall’ordinamento statuale.

Con il terzo motivo si assume la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver il Tribunale considerato quale causa di vulnerabilità l’appartenenza del ricorrente alla minoranza sciita.

Le censure mosse possono esser trattate unitariamente stante i comuni profili di inammissibilità che presentano.

Va preliminarmente rilevato che il Tribunale ha accertato la scarsa credibilità e inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dal richiedente, e ne ha ricostruito le vicende escludendo la sussistenza di una persecuzione per motivi religiosi, non essendo stato “prospettato alcun rischio o pericolo di subire forme di persecuzione per motivi di religione”. Nella critica al provvedimento impugnato svolta in ricorso non si ritrova alcuna specifica contestazione su quanto illustrato dal Tribunale a sostegno della sua statuizione, con conseguente inammissibilità del ricorso.

Difatti formalmente il ricorrente appare lamentare violazione di norme giuridiche – art. 360 c.p.c., n. 3 – ma deduce, in concreto, errato od omesso esame di fatto decisivo ossia vizio di motivazione, con l’attuale formulazione della norma (art. 360 c.p.c., n. 5), possibile solo in relazione all’omesso esame di un fatto e non anche al suo errato apprezzamento. In ogni caso il ricorrente non individua un fatto rilevante, che il Tribunale avrebbe omesso di esaminare, bensì svolge argomento critico di censura, sulla scorta di propria e diversa valutazione dei dati fattuali presenti in atti, della valutazione data ai medesimi elementi da parte del Tribunale.

Dunque le censure mosse sono inammissibili per la promiscua indicazione di vizi di legittimità in modo generico, trattandosi di una mera proposizione di tesi alternativa e, non già, di prospettazione di effettivo vizio di legittimità.

Si tratta, pertanto, di una inammissibile richiesta di rivisitare il giudizio in fatto reso dal giudice di merito, che ha convincentemente motivato, escludendo il rischio o pericolo di subire forme di persecuzione per motivi di religione, dato che la situazione di persecuzione del richiedente non riguardava il suo credo religioso ma una situazione contingente ed estranea (responsabilità della morte di un militante waabita avvenuta in circostanze non del tutto chiarite nel corso dell’audizione) come tale irrilevante al fine del riconoscimento dello status di rifugiato; l’esclusione, in base alle fonti consultate, del “rischio effettivo di subire un danno grave, non ricorrendo alcuna ipotesi di conflitto armato nella regione il Punjab, di provenienza (con esclusione della protezione sussidiaria); mancata allegazione o prova su circostanze o fatti rilevanti, tali da integrare una possibile situazione di vulnerabilità (ai fini dell’eventuale riconoscimento della protezione umanitaria).

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, liquidate in Euro 2.100,00 oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020

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