Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 801 del 16/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 801 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: MIANI CANEVARI FABRIZIO

SENTENZA

sul ricorso 24425-2010 proposto da:
FAVARUOLO FRANCESCO C.F. FVRFNC65C1A024C, domiciliata
in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa
dall’avvocato QUATTROMINI GIULIANA, QUATTROMINI PAOLA,
giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

3390

UNILEVER ITALIA S.R.L. C.F. 008467100150;
– intimata –

Nonché da:

Data pubblicazione: 16/01/2014

UNILEVER ITALIA MANUFACTURING S.R.L.,

già SAGIT

S.R.L., incorporata nella UNILEVER ITALIA S.P.A. C.F.
00846710150, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE
TUPINI 133, presso lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA

D’AYALA GIULIO, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale contro

FAVARUOLO FRANCESCO C.F. FVRFNC65C1A024C;
– intimato –

avverso la sentenza n. 4354/2010 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 05/07/2010 r.g.n. 1710/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. FABRIZIO
N’ANI CANEVARI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per il rigetto di entrambi in subordine alle S.U.

ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GOMEZ

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Francesco Favaruolo ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze della
società SAGIT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligato ad
indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e indumenti intimi
forniti dall’azienda e a presentarsi al lavoro 15/20 minuti prima dell’inizio

passato da un tornello con marcatura del badge poteva entrare nel luogo di
lavoro accedendo al reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di
ingresso. Tali operazioni si ripetevano al termine dell’orario di lavoro per
dismettere gli indumenti indossati.
Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze retributive
dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso per lavoro
straordinario e in via subordinata come compenso per lavoro ordinario.
Costituitosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.I., (già SAGIT s.r.I.)
Il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda; con la sentenza oggi impugnata
la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione, condannando la
società datrice di lavoro al pagamento di C 4.697,56 oltre accessori.
Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla
retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e
svestizione, considerandone il carattere necessario e obbligatorio per
l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del
datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva
essere ravvisata, sul piano della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle
organizzazioni sindacali sul problema del “tempo tuta”, né da accordi aziendali
intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.
La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo
ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due
operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), commisurando quindi il
compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto collettivo
applicabile.

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dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere

Rilevato che la pretesa azionata si riferiva al periodo dal 1996 al 2004,
ha accolto l’eccezione di parziale prescrizione (quinquennale) sollevata da
parte convenuta, tenuto conto della interruzione della prescrizione operata
con lettera di messa in mora ricevuta il 27 luglio 2005. Non poteva invece
essere valutata a tal fine, secondo la Corte di Appello, la richiesta di tentativo

Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava inoltrata alla società datrice
di lavoro.
Avverso questa sentenza Francesco Favaruolo ha proposto ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi. La società Unilever Italia Manufacturing
s.r.l. resiste con controricorso e ricorso incidentale con quattro motivi.
Favaruolo ha depositato memoria ai sensi dell’art.378 cod.proc.civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Ai sensi dell’art. 335 cod.proc.civ. deve essere disposta la riunione
dei ricorsi proposti contro la stessa sentenza.
2.1. Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla
decorrenza della prescrizione, censurata perché non considera valido atto
interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo obbligatorio di
conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro. Con il primo motivo
si denuncia la violazione degli artt. 2943 cod.civ. e 410 cod.proc.civ.,
richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di
interruzione della prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex
art. 410 co.2 cod.proc.civ. alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di
conciliazione.
2.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la
denuncia di violazione dell’art. 2729 cod.proc.civ., si lamenta che la sentenza
impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere una prova presuntiva
dell’inoltro della comunicazione della suddetta richiesta al datore di lavoro
dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente inoltrate
dalla D.P.L. ; e ciò anche perché neppure la società UNILEVER aveva obiettato
di aver ricevuto la comunicazione.

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di conciliazione presentata anteriormente (in data 21 gennaio 2000) alla

2.3. La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo
sotto il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata.
2.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione degli artt. 421 co.2
cod.proc.civ., 115 cod.proc.civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso
soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il tentativo di

lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e
ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la
circostanza, sicché sarebbe stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i
poteri officiosi ex art. 421 cod.proc.civ. per accertare la ricezione della
convocazione da parte della società.
In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale
dell’art.410 co.2 cod.proc.civ., in relazione agli artt.24, 36 e 111 Cost. nella
parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla ricezione da parte
del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L. dell’avvenuta
instaurazione del tentativo di conciliazione anziché alla mera proposizione di
tale richiesta da parte del lavoratore.
3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una
violazione della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli
accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione agli artt. 2099 cod.civ. e 36 Cost.,
nonché delle regole di cui all’art.1362 ss. cod.civ., e difetto di motivazione.
La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato
l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della contrattazione collettiva,
che secondo la parte esclude il pagamento di una retribuzione ulteriore del
tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e togliere gli
indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della
prestazione lavorativa effettiva.
La società, premesso che la determinazione quantitativa della
retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae argomenti a
sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema di durata e
distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al

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conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al datore di

godimento di riposi individuali) nonché dalla clausola del CCNL applicabile che,
imponendo all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che
questo debba rimanere chiuso durante l’orario di lavoro; tale previsione
escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa rientrare nella
prestazione lavorativa.

in ordine all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle
regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi che la Corte di Appello
avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma imperativa che
vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a pause fisiologiche,
mentre l’accordo sindacale prevedeva per la fruizione delle pause proprio
l’arco temporale intercorrente tra “l’avviamento e messa a regime della linea
produttiva” (corrispondente all’inizio del turno) e la “predisposizione turno
seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di
fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al
personale un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto dal
paradigma legale.
3.3. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione degli artt.414 e
432 cod.proc.civ., 1226 e 2697 cod.civ.. in relazione all’art. 360 nn.3 e 5
cod.proc.civ., si censura la determinazione, ai fini dell’accoglimento della
domanda, della durata delle operazioni di vestizione e svestizione. Tale
statuizione, ad avviso della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una
determinazione obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente
documentazione delle allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi
dimostrazione della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto
di lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed
altre vicende sospensive della prestazione.
3.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione di plurime norme di
diritto, sostenendosi che secondo la disciplina di legge deve intendersi per
orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di
quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in

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3.2. Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione

cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e
i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a
questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.L.G.S.
66/2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in
cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle

potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva
prestazione.
Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore
(specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti
adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare
nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore;
inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate
oggettivamente dal datore di lavoro, perché il personale poteva effettuarle in
un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento
precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto
personali da parte dei dipendenti.
I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti
prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento
questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si
tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano
comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma
contrattuale.
4.1. Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo
luogo le censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo,
secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo
occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con riferimento
sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione
collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati
congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

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sue attività o delle sue funzioni” , per sostenere che nella fattispecie non

4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in
relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo
cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione
assidua e continuativa”, il principio secondo cui tale disposizione non preclude
che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro

dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione,
ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed
obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile
1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n.
19273, Cass. 10 settembre 2010 n.19358 (che riguarda una fattispecie
analoga); v. anche Cass. 7 giugno 2012 n.9215. E’ stato anche precisato (v.
Cass. 25 giugno 2009 nn.14919 e 15492) che i principi così enunciati non
possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.L.G.S. . 8 aprile
2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale
all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il
lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della
sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità
dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per
l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di
un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della
definizione testé riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa
giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un
certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro,
occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente
presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per
poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com . eur., 9
settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).
Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n.19358/2010)
consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa

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effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta

direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa
a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della
disciplina d’impresa (art. 2104 comma 2 cod.civ. ) ed autonomamente esigibili
dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in
difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal

alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione
aggiuntiva.
Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato
che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali
prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile
con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal
limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti
sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili
all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.
4.3. la sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina
contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’ orario di lavoro quello
impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta fondata su
una compiuta ricognizione della disciplina collettiva richiamata, nella quale
non si rinviene alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla
ricorrente incidentale, e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di
motivazione che di violazione delle regole ermeneutiche negoziali; in
particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che non può
essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria”
della prestazione) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato
desumere in ordine alle modalità della stessa prestazione.
5. Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perché la
determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente
della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa
e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione
il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei

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lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato

poteri che gli attribuisce la norma processuale dell’art.432 cod.proc.civ. , con
apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente
motivato. Appare del resto del tutto infondato il rilievo in ordine alla mancata
valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo assolutamente
generico) posto che il parametro di misura del compenso è riferito ad un

6.1. Il ricorso principale non merita accoglimento. Con il primo motivo
il ricorrente invoca inutilmente a sostegno della propria tesi ( secondo cui
l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 2° co. cod.proc.civ.
dovrebbe essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di
conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla
successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro) la
giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del
licenziamento.
Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche
nella formulazione dell’art.31 I.n.183/2010 (“la comunicazione della richiesta
di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e
sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni
successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa
riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della
prescrizione consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia
del titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del
compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla
legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni
soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del
titolare, e senza possibilità di applicare alla decadenza le norme relative
all’interruzione della prescrizione.
Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1
giugno 2006 n.13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli
effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della interruzione
della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con riferimento ai

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periodo complessivo di diverse annualità.

termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione
del licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito
dell’istanza di espletamento della procedura di conciliazione (contenente
l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla
sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a

(v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006
n.14087).
Invece, solo con la comunicazione al creditore della richiesta di
espletamento del tentativo di conciliazione si verifica l’effetto di interruzione
della prescrizione con effetto permanente fino al termine di venti giorni
successivi alla conclusione della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre
2008 n.27882, 16 marzo 2009 n.6336).
Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di
diritto- che va qui riaffermato- escludendo l’interruzione della prescrizione in
assenza di prova della suddetta comunicazione alla società datrice di lavoro.
6.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere
disattesi perché la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle
presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo
logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata
all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o
meno del ragionamento presuntivo può essere criticata in sede di legittimità
solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma tale censura non può limitarsi
ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di
merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del
ragionamento decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione
di un elemento indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa
dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass. 21
ottobre 2003 n.15737, 11 maggio 2007 n.10847).
6.3. Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato,
essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del

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comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione

giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al
superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata
sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la
parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal
senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure

trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di
espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente
acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.
Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 410 secondo comma cod.proc.civ.,
prospettata per la violazione degli artt. 24, 36 111 Cost. in relazione alla prova
dell’atto interruttivo della prescrizione.
7. Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti. In considerazione
della reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare
interamente tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese del
presente giudizio.
Così deciso in Roma il 26 novembre 2013
esidentLestensor

prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta

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