Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7993 del 01/04/2010

Cassazione civile sez. III, 01/04/2010, (ud. 04/02/2010, dep. 01/04/2010), n.7993

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore – Presidente –

Dott. CHIARINI M. Margherita – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22946-2005 proposto da:

G.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato

CONTALDI MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

LONGHIN ROBERTO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEI GRACCHI 130, presso lo studio dell’avvocato MACRI’

TERESINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

CANIGLIA PIETRO giusta delega in calce al ricorso notificato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 639/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO, 4^

SEZIONE CIVILE, emessa il 9/2/2005, depositata il 16/04/2005, R.G.N.

2931/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/02/2010 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito l’Avvocato TERESINA MACRI’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 3 gennaio 2001 P.S. conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Torino, G.E., chiedendo che ne venisse accertata la responsabilità professionale in relazione a cure odontoiatriche, asseritamente incongrue, eseguite nell’anno 1999, con conseguente condanna dello stesso al risarcimento dei danni che ne erano derivati.

Resisteva il convenuto, che contestava l’avversa pretesa, chiedendo, e ottenendo, di chiamare in causa Assicurazioni Generali s.p.a., al fine di esserne in ogni caso manlevato.

Esaurita la fase istruttoria, il giudice adito decideva la causa con sentenza di rigetto della domanda attrice.

Su gravame della P., la Corte d’appello di Torino, in data 16 aprile 2005, in riforma della sentenza impugnata, condannava il convenuto a pagare all’attrice, a titolo restitutorio, la somma di Euro 1.974,06, nonchè, a titolo di danno biologico, morale e materiale, connesso a spese mediche future, quella di Euro 1.774,69, oltre rivalutazione, interessi e spese.

Avverso detta pronuncia propone ricorso per cassazione G. E., articolando quattro motivi e notificando l’atto a P. S. e ad Assicurazioni Generali s.p.a..

Solo la prima intimata ha svolto attività difensiva.

Il ricorrente ha altresì depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 Col primo motivo l’impugnante denuncia violazione dell’art. 2697 c.c., art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218, 2043 e 2236 cod. civ., insufficienza e illogicità della motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice di merito valutato negativamente la correttezza dell’operato professionale del dott. G., in relazione a due denti curati dal sanitario, e ciò pur dopo avere dato atto che i consulenti nominati dall’ufficio avevano escluso che vi fosse stata malpratica medica da parte del convenuto. E invero la Corte territoriale, disattendendone le conclusioni, aveva ritenuto accertata l’imperizia con riferimento ai denti 1.2 e 1.7, per omessa individuazione, rispettivamente, del granuloma e della tasca intraossea. L’errore era stato qualificato dal decidente come inadeguata diagnosi iniziale, con conseguente inutilità e dannosità della terapia protesica attuata, in mancanza dei necessari trattamenti preventivi. Tale conclusione, basata su deduzioni soggettive, in contrasto con l’argomentato parere degli esperti, si era tradotta in una motivazione intrinsecamente illogica nonchè nella violazione del principio di disponibilità delle prove. In relazione al mancato trattamento del granuloma del dente 1.2 – giustificata dal sanitario con la inaccessibilità del canale e la rischiosità dell’intervento – i consulenti avevano infatti escluso l’esistenza di postumi invalidanti, in ragione della mancata evoluzione radiologica dell’affezione, concludendo per la conformità della prestazione del convenuto alla perizia e diligenza media di un professionista del settore; del pari la tasca gengivale presente sul dente 1.7 era stata ritenuta preesistente e niente affatto aggravata dall’applicazione della protesi. Peraltro contraddittoriamente il giudice d’appello, dopo avere affermato che la mancata cura della recessione ossea esponeva l’attrice al rischio di perdita dell’elemento dentale, aveva ritenuto carente la prova del danno biologico.

1.2 Col secondo mezzo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., art. 2727 cod. civ., nonchè insufficienza della motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Sostiene che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe risolto il contrasto, peraltro solo apparente, tra le conclusioni della perizia di parte e le conclusioni di quella d’ufficio, facendo ricorso al notorio e a massime di esperienza, in contrasto con gli insegnamenti del Supremo Collegio, secondo cui non è possibile utilizzare tali criteri allorchè siano in gioco processi valutativi che implichino cognizioni particolari, come quelle della scienza odontoiatrica. Nè sarebbero stati addotti elementi gravi, precisi e concordanti idonei a consentire di desumere dal fatto noto (mancato trattamento dei denti 1.2 e 1.7), il fatto ignoto da dimostrare (riacutizzazione del processo infiammatorio e recessione ossea), tenuto conto che il consulente dott. D.R. aveva ritenuto tecnicamente giustificata la decisione di non intervenire con una apicectomia sul granuloma, almeno sino a quando gli esami radiografici non avessero dimostrato l’espansione della lesione, e di non trattare parodontalmente il dente 1.7, verificando con controlli periodici l’eventuale regressione della tasca.

1.3 Col terzo motivo l’impugnante deduce violazione dell’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218, 1337, 2043 e 2236 cod. civ., artt. 115 e 116 cod. proc. civ., nonchè insufficienza e contraddittorietà della motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice di merito contraddittoriamente condannato il convenuto alla restituzione del compenso ricevuto in relazione al dente 1.7, pur dopo avere escluso l’esistenza di postumi invalidanti di natura permanente. Del tutto apoliticamente avrebbe quindi la Corte territoriale affermato che la terapia praticata, in assenza di cura della tasca, era inutile e dannosa. Quanto poi al dente 1.2, la presenza di un residuo radicolare dello stesso, attestata dalla prodotta certificazione dell’Ospedale (OMISSIS), dimostrava solo la mancanza del dente, non certo la dipendenza di tale perdita dalla omessa cura del granuloma, in un contesto probatorio in cui era pacifico che la paziente si era rivolta al dott. G. proprio a seguito della frattura del dente 1.2..

1.4 Col quarto mezzo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 1227, 1218, 1223, 2043, 2056 e 2057 cod. civ., nonchè insufficienza e illogicità della motivazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 cod. proc. civ., per non avere il giudice di merito in alcun modo esplicitato i criteri equitativi in base ai quali aveva proceduto alla liquidazione del danno biologico con riferimento alla perdita del 50% della funzione masticatoria del dente 1.2, quantificando in Euro 516,46 il relativo risarcimento. La Corte avrebbe altresì errato nel ritenere necessaria una specifica eccezione di parte per valutare, ex art. 1227 cod. civ., l’eventuale contributo concausale del fatto colposo del creditore, laddove il dott. G. aveva contestato integralmente la propria responsabilità. Quanto poi ai danni materiali asseritamente subiti dalla P., nella loro quantificazione la Corte aveva erroneamente applicato il disposto dell’art. 1223 cod. civ., non avendo considerato che la somma pagata dalla paziente costituiva il corrispettivo della cura non già di tre, ma di otto denti.

2 Va anzitutto esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta da P.S., per essersi il ricorrente limitato a chiedere, in violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, la cassazione della sentenza impugnata, ma non la modifica parziale o totale della stessa, e per non avere inoltre formulato motivi specifici.

2.1 L’eccezione è destituita di ogni fondamento per le ragioni che seguono.

La sanzione dell’inammissibilità colpisce il ricorso per cassazione privo di motivi che rientrino nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e cioè di motivi aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, con esatta individuazione, quindi, del capo di pronunzia oggetto di ricorso ed esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le allegate carenze motivazionali (confr. Cass. civ., 5, 3 agosto 2007, n. 17125).

Sulla base di tali criteri, si ritiene inammissibile il ricorso che non precisi la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non reputandosi al riguardo neppure sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna argomentazione, in quanto inidonea a porre la Corte di legittimità in grado di assolvere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunciata violazione, mentre, qualora venga allegata l’erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, la censura è ammissibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. civ., 3, 5 giugno 2007, n. 13066).

Nella fattispecie il ricorrente ha lamentato specifiche violazioni di legge e bene individuati vizi dell’iter argomentativo del giudice a quo.

Tanto basta perchè la proposta impugnazione superi il preventivo vaglio di ammissibilità.

3.1 Si prestano a essere esaminati congiuntamente per la loro evidente connessione, il primo e il secondo motivo di ricorso.

Essi sono infondati.

Il giudice di merito ha motivato il suo convincimento preliminarmente rilevando che l’onere probatorio a carico del professionista, a fronte di un’azione risarcitoria da responsabilità contrattuale, deve avere ad oggetto la correttezza del proprio operato professionale.

Con specifico riferimento al profilo di maggiore pregnanza della pretesa responsabilità del G., e cioè l’asserita scorrettezza della diagnosi formulata per omessa individuazione della lesione periapicale sul dente 1.2 e della tasca intraossea sul dente 1.7, il decidente, dato atto delle opinioni espresse al riguardo dall’esperto nominato in sede penale, dai consulenti di parte e da quelli officiati in prime cure, ha ritenuto incongrue le cure praticate dal convenuto, in assenza di idoneo trattamento preventivo delle patologie riscontrate: conseguenza logicamente inevitabile dell’omissione era stata invero la riacutizzazione del processo infiammatorio ricollegabile alla presenza del granuloma e la recessione ossea, in corrispondenza della tasca, con rischio di perdita degli elementi dentali 1.2. e 1.7..

3.2 A fronte di tale apparato motivazionale, osserva il collegio che è anzitutto corretto e condivisibile il criterio di riparto degli oneri probatori adottato dal giudice a quo in relazione alla fattispecie dedotta in giudizio, con conseguente insussistenza delle violazioni di legge denunciate al riguardo dal ricorrente.

Si ricorda in proposito che questa Corte, qualificata come contrattuale la responsabilità del medico nei confronti del paziente per danni derivati dall’esercizio di attività di carattere sanitario, ha risolto i problemi connessi all’individuazione dei reciproci oneri probatori lungo le direttrici segnate nella sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533.

Hanno ivi affermato le sezioni unite che, rimasta inadempiuta una obbligazione, il creditore il quale agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza, dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ulteriormente precisandosi, in tale prospettiva, che eguale criterio di riparto deve ritenersi applicabile anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, posto che allora al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione, ad esempio, di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza), mentre graverà, ancora una volta, sul debitore l’onere di dimostrare il contrario (Cass. civ., sez. unite, 30 ottobre 2001, n. 13533).

In altri, successivi arresti le sezioni unite hanno poi ulteriormente approfondito la problematica della prova del nesso di causalità. A tal fine, ripercorsa l’evoluzione della teoria delle obbligazioni, con la progressiva erosione della legittimazione teorica e dell’utilità pratica della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, hanno affermato che l’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento – coincidenti con quelle tradizionalmente definite di mezzi, in cui è la condotta del debitore ad essere dedotta in obbligazione, essendo la diligenza tendenzialmente considerata quale criterio determinativo del contenuto del vincolo e il risultato caratterizzato da aleatorietà, siccome dipendente anche da altri fattori esterni – non è qualunque inadempimento, ma solo quello astrattamente efficiente alla produzione del danno. Con l’ulteriore e decisiva conseguenza che, una volta dimostrato il contratto (o contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia, con l’allegazione di inadempienze specifiche, idonee a provocarli, grava sulla controparte dimostrare o che l’inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur essendovi stato, non ha determinato il danno lamentato (Cass. civ. sez. un. 11 gennaio 2008 n. 577).

In contesti siffatti lo sforzo probatorio dell’attore può non spingersi oltre la deduzione di qualificate inadempienze in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia può essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non ha avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno.

3.3 Ciò posto, ritiene il collegio che, mentre la Corte territoriale si è correttamente uniformata a tali principi, le critiche del ricorrente, attraverso la surrettizia evocazione del vizio di violazione di legge, mirano in realtà a denunciare pretesi contrasti disarticolanti tra emergenze fattuali e conseguenze giuridiche adottate, e cioè vizi motivazionali in realtà inesistenti.

Le censure ruotano invero sulla difformità della valutazione del giudice di merito rispetto a quella dei consulenti nominati nel primo grado del giudizio, senza considerare che la decisione di fare ricorso alla consulenza tecnica, quale strumento più funzionale ed efficace per l’accertamento dei fatti essenziali del giudizio, non vincola certo il giudice all’apprezzamento espresso dal consulente:

il giudicante, infatti, ben può seguire un avviso difforme, rispetto a quello dell’esperto, qualora nel suo libero apprezzamento ritenga le conclusioni dell’ausiliario non adeguate, salvo, evidentemente, l’obbligo di enunciare le ragioni del proprio dissenso.

Ora, il giudice di appello ha chiarito che la protesizzazione, in mancanza di cure preventive del granuloma e della tasca intraossea, era stata terapia inutile e dannosa, richiamando, a supporto di tale suo convincimento, e la documentazione versata in atti, e l’opinione espressa dagli altri esperti che si erano occupati del caso, e i rilievi degli stessi c.t.u. nominati in primo grado, i quali avevano confermato la presenza di lesioni ossee a carico degli elementi dentali 1.7 e 1.2 e avevano escluso l’esecuzione di trattamenti canalari preventivi.

L’impegno motivazionale del decidente, ampio ed esaustivo, non può peraltro essere tacciato di implausibilità o di contraddittorietà, per il dirimente rilievo che dopo le cure del G. persistettero processi infiammatori nonchè dolori ai denti e alle gengive, prova inconfutabile del non felice esito delle terapie praticate.

3.4 Insussistente è poi, il denunziato contrasto tra il rilevato rischio di perdita dell’elemento dentale 1.7 e la ritenuta mancanza di prova del danno biologico con riferimento allo stesso dente, attenendo il primo rilievo allo scrutinio sull’inadempimento colpevole del professionista; il secondo alla individuazione di un pregiudizio risarcibile.

In realtà i motivi, deducendo in termini puramente assertivi vizi motivazionali, tendono a introdurre una revisione del merito del convincimento del giudice di appello, preclusa in sede di legittimità.

4.1 Prive di pregio sono altresì le critiche svolte nel terzo e nel quarto motivo che, riguardando l’entità delle somme al cui pagamento in favore della ricorrente è stato condannato il convenuto, possono essere scrutinati insieme.

In ordine al quantum debeatur, il decidente, mentre ha ritenuto indimostrato il danno biologico, con riferimento al dente 1.7 (sussistendo ampie possibilità di porre rimedio alla mancanza di cure della tasca), ha valutato positivamente la prova del danno biologico consistente nell’indebolimento permanente della funzione masticatoria, nella misura dello 0,50%, per effetto della caduta dell’incisivo 1.2. Ha aggiunto che nella fattispecie non era stato prospettato, nè eccepito, il concorso causale del creditore, e quindi la non debenza del ristoro dei danni che questi avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza (art. 1227 c.c., comma 2), laddove la giurisprudenza riteneva che esso dovesse essere oggetto di una eccezione in senso stretto (confr. Cass. n. 5127 del 2004).

In tale contesto, reputato corretto un valore a punto di L. 2.000.000, il decidente ha valutato il danno biologico relativo al dente 1.2 in L. 1.000.000, e quindi in Euro 516,46 mentre, quanto al danno morale lo ha ritenuto, in via equitativa, pari alla metà del danno biologico, e cioè ad Euro 258,23.

Scomputate dal corrispettivo pagato dalla P. le somme corrispondenti alle cure ben praticate, come desumibili dalla documentazione in atti, ha poi quantificato il danno patrimoniale in Euro 1.766,18, importo al quale ha infine aggiunto gli esborsi per spese mediche future, equitativamente liquidate in Euro 1.000,00, e quelli per spese mediche sostenute in vista dell’instaurazione del presente giudizio, pari a Euro 207,88.

4.2 Ora, come già innanzi precisato, con riferimento al dente 1.7, la decisione del giudice impugnata appare assolutamente in linea con la ritenuta, mera inutilità della terapia praticata dal G. (improduttiva, peraltro, di danni ulteriori e comunque non emendabili), di modo che le critiche formulate al riguardo dal ricorrente non hanno alcuna consistenza.

Invece le censure al giudizio in ordine alle cause che hanno provocato la caduta del dente 1.2, e quindi l’indebolimento della funzione masticatoria si risolvono in contestazioni alla ricostruzione dei fatti di causa accolta dalla Corte d’appello, ricostruzione che, sorretta da motivazione adeguata, completa ed esaustiva, è incensurabile in sede di legittimità.

Ciò vale, in special modo, per la lettura del certificato dell’Ospedale (OMISSIS) versato in atti: l’attestazione della mancanza del dente ivi contenuta è stata invero dal decidente collegata all’omessa cura del granuloma. Ora, la plausibilità di siffatta deduzione non può ragionevolmente essere insidiata dalla considerazione che la P. ebbe a rivolersi al G. proprio in conseguenza della frattura del dente 1.2. E’ sufficiente all’uopo rilevare che la presenza di un mero residuo radicolare è indicativa della definitiva perdita dell’elemento e dunque di un esito peggiorativo della situazione patologica esistente al momento dell’inizio della terapia, alla quale le cure del sanitario avrebbero dovuto porre (e non posero invece) riparo.

5.1 Neppure colgono nel segno le critiche alla liquidazione equitativa del danno, oggetto, in particolare, del quarto motivo. La Corte territoriale ha invero dato conto in maniera addirittura analitica dei criteri adottati al riguardo: la relativa quantificazione, in quanto congrua, rispetto al caso concreto, non palesemente sproporzionata per eccesso e ben motivata, è conseguentemente insindacabile in sede di legittimità (confr. Cass. civ. 3, 8 novembre 2007, n. 23304).

5.2 Non giova poi all’impugnante il richiamo al principio della rilevabilità d’ufficio del fatto colposo del creditore nella produzione dell’evento dannoso.

La censura, facendo leva sul disposto dell’art. 1227 cod. civ., comma 2 è, a ben vedere, eccentrica rispetto alle argomentate ragioni della decisione impugnata, basata, in parte qua, sulla natura di eccezione in senso stretto del rilievo dell’aggravamento del danno derivante dal comportamento colposo successivo del danneggiato, e cioè sulla previsione del comma 2 della medesima disposizione.

5.3 Infine le critiche ai criteri di calcolo del danno patrimoniale – identificato nei compensi corrisposti al G. per cure mediche mal praticate – si risolvono, ancora una volta nella sollecitazione alla rivalutazione del materiale istruttorio, preclusa in sede di legittimità.

In tale contesto il ricorso deve essere integralmente rigettato.

La peculiarità della fattispecie consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2010

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