Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7992 del 30/03/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 30/03/2018, (ud. 07/02/2018, dep.30/03/2018),  n. 7992

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n 692/2012, ha confermato la pronuncia del locale Tribunale che, in accoglimento dell’opposizione proposta dalla ASL (OMISSIS), aveva revocato il decreto ingiuntivo con cui, su ricorso dell’avv. A.S., dirigente dell’ufficio legale dell’Azienda sanitaria, era stato ingiunto alla stessa ASL il pagamento di somme a titolo di compensi per la difesa prestata in favore dell’Amministrazione datrice di lavoro.

2. Il Giudice di primo grado aveva osservato che il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 33, consente agli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici di esercitare la professione solo per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente per il quale prestano la propria opera, per cui l’avv. A. non avrebbe potuto patrocinare se stesso, ai sensi dell’art. 86 c.p.c., come invece avvenuto, per cui vi era difetto di procura del ricorso per decreto ingiuntivo.

3. Tale decisione era censurata dall’avv. A., il quale sosteneva che il Tribunale aveva fatto erroneo riferimento all’art. 33, che concerne gli avvocati abilitati al patrocinio dinanzi a giurisdizioni superiori iscritti nell’albo speciale, mentre la norma applicabile nella specie era l’art. 3 dello stesso regio decreto, che concerne gli avvocati iscritti nell’elenco speciale che patrocinano le cause dell’ente dal quale dipendono; sosteneva che tale ultima previsione non gli precludeva la possibilità di patrocinare se stesso e che pertanto non sussisteva il denunziato difetto di procura.

4. La Corte territoriale, pur condividendo il rilievo per cui la norma di riferimento era l’art. 3 e non art. 33 del R.D.L. n. 1578 del 1933, ha osservato:

– che la norma in questione stabilisce l’incompatibilità dell’esercizio della libera professione forense con ogni impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza legale, e dispone che gli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti e le amministrazioni pubbliche possono esercitare la professione forense solamente per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera e sono all’uopo iscritti nell’elenco speciale annesso all’albo;

– che la previsione di incompatibilità discende dal presupposto imprescindibile della esclusività dell’espletamento, da parte degli avvocati dipendenti da enti pubblici, delle attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico e che non può operare alcuna deroga ai limiti di ordine pubblico con cui le sovraordinate disposizioni di legge regolano lo ius postulandi;

– che la pregnanza dell’obbligo di esclusività alle superiori esigenze che esso è destinato a tutelare inducono ad escludere la possibilità di deroga in presenza di fattispecie nelle quali il legale abbia un interesse personale e diretto nella controversia;

– che è condivisibile la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui gli avvocati degli enti pubblici iscritti all’albo degli elenchi speciali previsti dal R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, rivestono contemporaneamente la qualità di professionisti e di impiegati e in tale ultima veste sono assoggettati ai doveri e alle limitazioni derivanti dal rapporto di impiego, compreso l’obbligo di esclusività dell’espletamento delle attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico nelle cause e negli affari dell’ente stesso; pertanto, essi non possono stare in giudizio senza ministero del difensore nelle controversie in cui sono coinvolti a titolo personale.

5. Per la cassazione di tale sentenza l’avv. A.S. ha proposto ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso la Azienda Usl (OMISSIS).

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo l’avv. A.S., denunciando violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, in relazione all’art. 86 c.p.c., svolge la seguente censura:

– nell’ordinamento forense vige il principio della incompatibilità di esercitare la professione di avvocato in posizione di lavoratore subordinato e l’unica eccezione prevista è quella disciplinata dall’art. 3 cit., per cui gli avvocati dipendenti degli enti pubblici possono essere iscritti all’albo speciale annesso all’albo ordinario;

– la norma postula che l’esercizio dell’attività forense in posizione di lavoratore subordinato non garantisce autonomia e indipendenza della funzione, ma tale esigenza non è contraddetta dall’art. 86 c.p.c., che consente la difesa personale della parte quando la stessa abbia le qualità necessarie per esercitare l’ufficio di difensore.

2. Con il secondo motivo denuncia contraddittorietà e illogicità della motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), atteso che, in caso di immedesimazione tra parte e difensore (art. 86 c.p.c.), non è configurabile un rapporto di clientela e non vi è un rapporto di opera professionale, per cui non sussistono in questo caso le ragioni che la Corte di appello ha individuato a base del suo ragionamento.

3. Il ricorso è destituito di fondamento.

4. Premesso che anche il secondo motivo, formalmente prospettato come vizio di motivazione, verte sulla medesima questione di diritto di cui al primo motivo, in quanto anch’esso è diretto a contestare l’interpretazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, posta a base della sentenza impugnata e non verte su questioni di fatto, deve rilevarsi preliminarmente che il ricorso presenta profili di inammissibilità in quanto, senza prendere in esame l’interpretazione della norma posta a base del decisum, ne oppone una diversa senza argomentare le ragioni per le quali quella indicata dalla Corte territoriale sarebbe errata (cfr. Cass. n. 287 del 2016, n. 25419 del 2014, n. 16760 del 2015, n. 16038 del 2013; conformi: Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 1063 del 2005; Cass. n. 8106 del 2006). Invero, la sentenza di appello ha evidenziato che l’obbligo di esclusività è correlato alle superiori esigenze che esso è destinato a tutelare quando si tratti del difensore di un’Amministrazione o di un Ente pubblico e tale esigenza di ordine superiore esclude la possibilità di deroga in presenza di fattispecie nelle quali il legale abbia un interesse personale e diretto nella causa. A tale ordine argomentativo, il ricorso oppone una diversa lettura della norma, senza censurare quella indicata nella sentenza impugnata.

5. In ogni caso, è conforme a diritto la soluzione indicata dalla Corte territoriale.

6. Secondo quanto prevede il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, commi 2 e 4 (nel testo vigente ratione temporis), l’esercizio della professione di avvocato “…è anche incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle Provincie, dei Comuni, delle Istituzioni pubbliche di beneficenza, della Banca d’Italia, della Lista civile, del Gran Magistero degli Ordini cavallereschi, del Senato, della Camera dei deputati ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o Istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni” (secondo comma); sono eccettuati dalla disposizione del comma 2… “b) gli avvocati ed i procuratori degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso comma 2, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera. Essi sono iscritti nell’elenco speciale annesso all’albo”.

7. Questa Corte ha già affermato (e tale principio va ribadito in questa sede) che gli avvocati dipendenti da enti pubblici possono essere iscritti nell’elenco speciale annesso all’Albo ordinario presso il Consiglio dell’Ordine locale (R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, comma 4, lett. “b”, conv. nella L. n. 36 del 1934 e modificato dalla L. n. 1949 del 1939), solo sul presupposto imprescindibile della “esclusività” dell’espletamento, da parte loro, dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico, presso il quale prestano la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso (Cass., sez. un., 23 giugno 1995, n. 7084). Inoltre, con riguardo all’attività di questi professionisti abilitati unicamente al patrocinio per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera, il rilascio della procura ha effetto esclusivamente per la durata del sottostante rapporto di pubblico impiego e viene meno col cessare di questo senza alcuna ultrattività (Cass. 26 maggio 1992 n. 6290; Cass. S.U. n. 7084 del 1995; Cass. S.U. n. 418 del 2000).

8. Dunque, l’art. 3 della citata legge professionale pone un’incompatibilità all’esercizio della professione con qualunque impiego retribuito, cui fa eccezione, per gli avvocati degli uffici legali degli enti pubblici, il solo patrocinio delle cause ed degli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera; a tal fine, tali avvocati sono iscritti nell’elenco speciale annesso all’albo. Considerato che la previsione di cui dell’art. 3 cit., comma 4, costituisce una deroga alla regola generale, dettata dai commi precedenti, la stessa è di stretta interpretazione e non è suscettibile di interpretazione estensiva.

9. Gli avvocati degli enti pubblici, iscritti negli elenchi speciali, sono da considerare nello stesso tempo professionisti ed impiegati, nel senso che, nello svolgimento del loro lavoro professionale hanno garantita una posizione di indipendenza e sono sottoposti al controllo dei Consigli dell’Ordine professionale, mentre, per gli altri profili del rapporto di impiego, sono assoggettati ai doveri ed alle limitazioni derivanti dal rapporto stesso (Corte Cost. 28 luglio 1988 n. 928). In tale contesto, va ricompreso l’obbligo dell’esclusività dell’espletamento, da parte loro, dell’attività di assistenza, rappresentanza e difesa dell’ente pubblico, presso il quale prestano la propria opera, nelle cause e negli affari dell’ente stesso (Consiglio di Stato, Sez. 4, sent. 372 del 2001 e Sez. 6, 25 maggio 2000, n. 3023 e Cass. civ. sez. un., 23 giugno 1995, n. 7084).

10. Deve pertanto concludersi che, sulla base delle prescrizioni poste dalla legge professionale, per gli avvocati degli enti pubblici, iscritti negli elenchi speciali, lo ius postulandi è ristretto alla tassativa ipotesi dell’esercizio professionale per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale gli stessi prestano la loro opera e non è consentita alcuna interpretazione estensiva.

11. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

12. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

 

PMQ

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2018

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