Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7963 del 20/04/2020

Cassazione civile sez. III, 20/04/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 20/04/2020), n.7963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18619-2016 proposto da:

SIGMA SOCIETA’ ITALIANA GESTIONE MARKETS ALIMENTARI DI

G.C. & C SNC, in persona del legale rappresentante, SMC&CO

SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliate in ROMA, LARGO SOMALIA 67, presso lo studio

dell’avvocato RITA GRADARA, che le rappresenta difende;

– ricorrenti –

contro

P M FRANCHISING SPA, in persona del Consigliere Delegato e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DARACOELI 11, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA DIORIO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ALBERTO FURLANETTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3229/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Le società SMC&CO S.r.l. e SIGMA-Società Italiana Gestione Markets Alimentari di G.C. & co. S.n.c. (d’ora in poi, “SMC” e “SIGMA”) ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 3229/16, del 20 maggio 2016, della Corte di Appello di Roma, che – rigettando il gravame da esse esperito avverso la sentenza n. 21633/12 del Tribunale di Roma – ha così provveduto.

Essa, in particolare, ha respinto la domanda avanzata dalle odierne ricorrenti e finalizzata alla rescissione per lesione dell’accordo transattivo dalle stesse stipulato con la PAM Franchising S.p.a. (d’ora in poi, PAM) e per la declaratoria di nullità dei contratti di affiliazione commerciale, intercorsi tra le medesime parti, per violazione delle norme sulla libera concorrenza, con condanna della PAM alla restituzione delle somme corrisposte a titolo di “fee” di ingresso, royalties ed al risarcimento di danno emergente, lucro cessante e da lesione dell’immagine imprenditoriale (o, in subordine, per la declaratoria di nullità/annullabilità delle clausole relative agli obblighi di approvvigionamento esclusivo a favore del franchisor e di imposizione dei prezzi di rivendita agli affiliati), con condanna, in ogni caso, della convenuta al risarcimento del danno conseguente all’accoglimento della domanda rescissoria.

2. Riferiscono, in punto di fatto, le odierne ricorrenti di aver sottoscritto con Metà SuperNegozi (poi divenuta società PAM) rispettivamente, la SIGMA, il 22 agosto 2002, e la SMC, il 26 luglio 2002 – due contratti di franchising, per l’adesione alla rete dei supermercati con marchio PAM. In occasione della stipulazione venivano rilasciate due fideiussioni – degli importi di Euro 70.000,00, per la SIGMA, e di Euro 190.000,00, per la SMC – a copertura dell’adempimento degli obblighi contrattuali.

Essendosi, tuttavia, il rapporto con la PAM progressivamente deteriorato, anche in ragione di sue doglianze circa la tenuta dei due punti vendita (prodromiche ad un’iniziativa assunta dalla stessa, per la risoluzione dei due contratti di affiliazione commerciale), in data 2 novembre 2004 interveniva tra le parti un accordo transattivo. In base ad esso, previa escussione delle fideiussioni, la società affiliante riconosceva alle affiliate l’importo di Euro 50.723,47 a titolo di compensazione, impegnandosi sia ad acquistare il ramo di azienda costituito dal supermercato sito in (OMISSIS), per l’importo di Euro 300.000,00, nonchè al pagamento di Euro 35.506,18 pari al 50% del corrispettivo per il patto di non concorrenza. Deducono, altresì, le odierne ricorrenti che il suddetto patto di non concorrenza veniva sottoscritto quando l’esposizione debitoria di,SMC e di SIGMA ammontava, rispettivamente, a Euro 75.981,09 e a Euro 87.408,10.

Proposta, su tali basi, la domanda sopra meglio riassunta, il Tribunale capitolino la respingeva integralmente, rilevando – quanto alla richiesta di rescissione per lesione – il difetto della condizione preliminare della possibilità giuridica, giusta la previsione di cui all’art. 1970 c.c.; inoltre, qualificata come “novativa” la transazione intercorsa tra le parti, dichiarava, consequenzialmente, le società attrici prive di interesse rispetto alla domanda di nullità di contratti (quelli di affiliazione) che avevano cessato i propri effetti. Ravvisava, inoltre, il difetto della possibilità giuridica anche in relazione alla domanda di annullamento, di quegli stessi contratti, per contrarietà a norme imperative, essendo detta evenienza causa di nullità e non di annullamento.

Proposto gravame dalle predette società SMC e SIGMA, la Corte di Appello di Roma lo respingeva, sebbene diversamente motivando almeno in parte – il rigetto delle domande.

In particolare, ritenuta la transazione “de qua” di natura non novativa, essa escludeva che la (supposta) nullità dei contratti di affiliazione avesse potuto incidere sulla validità della transazione, visto che l’art. 1972 c.c., comma 1, ne sancisce la nullità solo se afferente ad un contratto nullo per illiceità della causa o del motivo comune ad entrambe le parti, mentre in tutti gli altri casi di nullità dell’intero contratto la relativa declaratoria può essere richiesta – ai sensi del comma 2 cit. articolo – solo a condizione che la parte ignorasse la causa della nullità, nonchè, ove essa investa singole clausole, solo quando di esse risulti l’essenzialità, ex art. 1419 c.c. Orbene, nel caso di specie, proprio l’ultima di tali evenienze sarebbe stata ipotizzata dalle attrici, dolendosi della contrarietà alla normativa antitrust delle clausole di approvvigionamento esclusivo dal franchisor e di imposizione del prezzo di rivendita, ciò che sorvolando sul tema della loro essenzialità – escluderebbe in radice l’operatività dell’art. 1972 c.c., comma 2, visto che le società SMC e SIGMA non avrebbero potuto ignorare l’invalidità di tali clausole in riferimento alla violazione di norme di diritto.

3. Avverso la decisione della Corte romana hanno proposto ricorso per cassazione le società SMC e SIGMA, sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo si deduce – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 1970,1972 e 1976 c.c., oltre che degli art. 1418 e 1325 c.c., nonchè violazione e falsa applicazione della L. 10 ottobre 1990, n. 287, artt. 2 e 3 e dell’art. 101 (già 81) del Trattato sull’Unione Europea (“recte”: del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), ed infine, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), dell’art. 112 c.p.c..

Si censura la sentenza impugnata sul rilievo che la domanda principale da esse proposta fosse quella di rescissione per lesione della transazione, e non quella di nullità, quest’ultima investendo, invece, i due contratti di franchising e presentando carattere autonomo, “anche se consequenziale alla domanda di rescissione per lesione”.

L’errore della Corte di Appello sarebbe consistito, dunque, nel “voler legare l’ipotesi della nullità della transazione con l’ipotesi della nullità del contratto” di affiliazione, trattandosi, invece, di “due aspetti completamente separati”. Il secondo giudice, pertanto, non avrebbe “correttamente esaminato le domande formulate”, che si riferivano alla declaratoria di nullità dei due contratti di franchising nel loro complesso, e solo subordinatamente alla declaratoria di nullità/annullabilità di singole clausole. Che sussistessero, poi, i presupposti per il suo accoglimento è quanto confermerebbe la contrarietà dei contratti “de quibus” a quanto stabilito dalla L. n. 287 del 1990, art. 3 e dall’art. 101 (già 81) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Difatti, se la prima di tali norme vieta “l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”, nonchè – tra l’altro – di “imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”, la seconda stabilisce, per parte propria, che sono “incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno”, ed in particolare “quelli consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione”, sancendo, altresì, che simili “accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno di ritto”.

La contrarietà a dette norme imperative renderebbe illecita la causa dei contratti di affiliazione, rendendo “nulla anche la transazione”.

3.2. Con il secondo motivo è ipotizzata – sempre con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione della L. 6 maggio 2004, n. 129, artt. 3 e 9.

E’ censurata la sentenza impugnata laddove ha escluso l’applicazione – ai contratti di affiliazione commerciale del 26 luglio e 22 agosto 2002 – della disciplina recata dalle norme di legge suddette, pervenendo a tale conclusione sul rilievo che gli stessi fossero stati risolti il 13 ottobre 2004, ovvero prima che spirasse (il 25 maggio 2005) il termine di un anno che la stessa L. n. 129 del 2004, con l’art. 9, assegnava alle parti di un contratto di franchising, concluso prima della sua entrata in vigore, per l’adeguamento alla disciplina da essa recata. Si rileva, per contro, che con l’entrata in vigore della legge “de qua” i contratti risultavano nulli per contrarietà ad essa, se è vero che, secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 4 citata legge, il contratto di affiliazione commerciale deve inoltre espressamente indicare: a) l’ammontare degli investimenti e delle eventuali spese di ingresso che l’affiliato deve sostenere prima dell’inizio dell’attività; b) le modalità di calcolo e di pagamento delle royalties, e l’eventuale indicazione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato; c) l’ambito di eventuale esclusiva territoriale sia in relazione ad altri affiliati, sia in relazione a canali ed unità di vendita direttamente gestiti dall’affiliante; d) la specifica del know-how fornito dall’affiliante all’affiliato; e) le eventuali modalità di riconoscimento dell’apporto di know-how da parte dell’affiliato; f) le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione; g) le condizioni di rinnovo, risoluzione o eventuale cessione del contratto stesso”.

3.3. Con il terzo motivo è ipotizzata – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), – violazione e falsa applicazione degli artt. 1447 e 1448 c.c., nonchè violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c.

Si contesta la decisione della Corte capitolina laddove ha escluso la rescindibilità del contratto di transazione, negando che potesse operare sia l’art. 1447 c.c., sul rilievo che quello ipotizzato dagli stessi ricorrenti fosse il pericolo di un danno patrimoniale (mentre la norma individua come presupposto dell’azione l’esistenza di un “pericolo di danno grave alla persona”), sia l’art. 1448 c.c., valutando la condotta della PAM non come un approfittamento dello stato in cui versavano SMC e SIGMA, ma come un tentativo di “risollevarne le sorti”.

Orbene, in relazione al primo profilo si evidenzia la necessità che l’art. 1447 c.c. sia letto “in senso più ampio possibile e in coordinato con quanto disposto dall’art. 1448 c.c., ove non vi è alcun riferimento alla qualità dei soggetti”. In ogni caso, poichè lo “stato di pericolo” al quale fa riferimento la prima di tali norme non è altro che una “species” del più ampio “genus” costituito dallo “stato di bisogno” contemplato dalla seconda, ciò renderebbe possibile l’applicazione di quest’ultima in difetto dei presupposti per l’operatività dell’altra. Nella specie, poi, nel valutare le condizioni per l’applicazione dell’art. 1448 c.c., la sentenza impugnata si sarebbe soffermata solo su una delle tre condizioni – quella dell’approfittamento dello stato di bisogno – che debbono simultaneamente ricorrere per l’applicazione dell’art. 1448 c.c., trascurando quelle dello “stato di bisogno” e della “lesione “ultra dimidium””.

Che nel caso in esame vi fosse stato approfittamento è quanto emergerebbe da un semplice raffronto tra le cifre spettanti alle società affiliate al momento della risoluzione e quelle riportate nell’atto di transazione: difatti, se l’esposizione debitoria complessiva delle stesse era di Euro 163.389,00, le due fideiussioni escusse ammontavano a Euro 260.000,00, mentre l’importo di Euro 300.000,00 ricavato dalla vendita del ramo di azienda (peraltro avvenuta al di sotto del suo effettivo valore) veniva posto in compensazione con i debiti di SMC e SIGMA, alle quali, dunque, a fronte di detti importi, venivano riconosciute solo le somme di Euro 50.723,47 e di Euro 30.506,18, pari al 50% del patto di non concorrenza. D’altra parte, la consapevolezza dello stato di bisogno, in capo a PAM, emergerebbe dalla sua stessa comparsa di risposta, laddove si afferma che nel contratto di franchising furono inserite clausole più favorevoli alle affiliate proprio perchè l’affilante era “consapevole della situazione di carenza di liquidità” delle stesse.

Infine, si nega recisamente che PAM abbia operato come “benefattrice” delle odierne ricorrenti (ovvero, che essa abbia tentato di risollevarne le sorti), ciò che sarebbe stato facilmente verificabile attraverso l’esame della documentazione prodotta in giudizio dalle stesse ed attestante l’imposizione di continue vendite sottocosto, ed in particolare le perizie redatte – su incarico di uno degli altri franchisse di PAM – dal Rag. Gi. e dall’Ing. R..

4. Ha proposto controricorso la società PAM, per chiedere che l’avversaria impugnazione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Preliminarmente, in punto di fatto, la controricorrente precisa che – prima della stipula della transazione – era intervenuta, in data 13 ottobre 2004, risoluzione consensuale (e non unilaterale) dei contratti di affiliazione, giacchè avvenuta in forza di atti sottoscritti congiuntamente dalle parti.

Quanto, poi, al primo motivo di ricorso se ne deduce l’infondatezza, sul rilievo che la Corte di Appello non si sarebbe affatto pronunciata sulla nullità della transazione, piuttosto che su quella dei contratti di franchising (come lamentato dalle ricorrenti), ma avrebbe – oltre ad osservare il principio che impone al giudice di rilevare, eventualmente anche d’ufficio, la nullità del contratto, pure in caso di azione per la rescissione dello stesso – soltanto seguito l’impostazione data da SMC e SIGMA nel proprio atto di appello. Nello stesso, infatti, si chiedeva la declaratoria di rescissione della transazione “perchè contratto in stato di pericolo e per la lesione “ultra dimidium” derivante agli attori dalla operatività del contratto impugnato”, tale ultimo identificandosi proprio in quello di affiliazione commerciale precedentemente intervenuto con la PAM. Dunque, sarebbero stati gli stessi ricorrenti a porre in correlazione le diverse fattispecie contrattuali.

In ordine al secondo motivo, oltre a ritenere condivisibile la valutazione della Corte capitolina circa la non operatività della L. n. 129 del 2004, essendo stati i contratti di franchising risolti prima che scadesse il termine per adeguarli alla disciplina introdotta da tale legge, la PAM rileva che, a tutto voler concedere, l’operatività della disciplina dalla stessa recata avrebbe reso i contratti solo annullabili, evenienza priva di influenza sul contratto di transazione, visto che l’art. 1972 c.c. contempla la sola ipotesi della nullità del titolo del contratto di transazione.

Infine, in relazione al terzo motivo, premesso che quello fatto valere sarebbe, in realtà, più un vizio di motivazione, che non una violazione di legge, si ribadisce, in ogni caso, che a norma dell’art. 1970 c.c. “la transazione non può essere impugnata per causa di lesione, in quanto la considerazione dei reciproci sacrifici e vantaggi derivanti dal contratto ha carattere soggettivo, essendo rimessa all’autonomia negoziale delle parti” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 22 aprile 1999, n. 3984).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. In via preliminare, deve ritenersi superato ogni dubbio relativo alla procedibilità del ricorso in esame.

6.1. Sul punto, deve premettersi che la notifica, alle odierne ricorrenti, della sentenza dalle stesse poi impugnata è avvenuta telematicamente, sicchè il loro legale, nel proporre il presente ricorso, non doveva limitarsi ad attestare – come ha fatto – la conformità della copia analogica (“id est”, cartacea) all’originale digitale del provvedimento. L’attestazione, infatti, avrebbe dovuto investire pena l’improcedibilità del ricorso – anche la relata di notificazione ed il messaggio “PEC”, formalità, quest’ultima, “necessaria, perchè solo di lì si evince il giorno e ora in cui si è perfezionata la notifica per il destinatario” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6, ord. 22 dicembre 2017, n. 30765, Rv. 647029-01).

Anche la prova di resistenza – ovvero (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 10 luglio 2013, n. 17066, Rv. 628539-01) l’accertamento che la notifica del ricorso (nella specie, risalente al 22 luglio 2016) sia avvenuta entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza (nella specie, data 20 maggio 2016) – è negativa.

Nondimeno, sul punto, trova applicazione quanto precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 25 marzo 2019, n. 8312, in particolare il punto “sub” b) del p. 34)), ovvero che in caso di “sentenza impugnata sottoscritta con firma autografa ed inserita nel fascicolo informatico” vale il principio secondo cui “l’equiparazione della copia all’originale consegue comunque dalla non contestazione o dall’asseverazione” (che intervenga entro l’udienza pubblica o l’adunanza camerale).

Il citato arresto delle Sezioni Unite ha, inoltre chiarito che l’applicazione dei “suindicati principi” vale, “a maggior ragione, con riguardo al requisito del deposito della relata attestante la notificazione telematica decisione impugnata” (fr. p. 35, punto 2), ovvero con riferimento alla fattispecie che viene qui in rilievo.

Nella specie nessuna contestazione risulta formulata, donde allora il superamento del dubbio.

7. Ciò detto, il ricorso va rigettato.

7.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato, sebbene la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.;

7.1.1. Nello scrutinare il presente motivo, risulta necessario prendere le mosse dall’esatta qualificazione dell’accordo intervenuto, in data 2 novembre 2004, tra le società odierne ricorrenti e la società PAM.

In particolare, la qualificazione dello stesso in termini di transazione “conservativa”, piuttosto che “novativa”, assume rilievo determinante ai fini di stabilire se ricorrano le condizioni per l’applicazione dell’art. 1972 c.c., norma della quale il motivo qui in esame ipotizza la violazione.

Sul punto non appare inutile una breve “excursus” di carattere storico.

Come noto, l’art. 1965 c.c., nel definire – al comma 1 – il contratto di transazione, ha introdotto una previsione sostanzialmente corrispondente a quella dell’art. 1764 c.c. del 1865, quantunque connotata da maggiore sinteticità, visto che il riferimento alle “reciproche concessioni” tiene il posto dell’indicazione di quelle condotte – consistenti nel “dare”, “promettere” o “ritenere”, ciascuna delle parti transigenti, “qualche cosa” – che, nel sistema dell’abrogato codice civile, identificava uno degli elementi connotanti, ancora oggi, la presente fattispecie contrattuale (ovvero, il cd. “aliquid datum, aliquid retentum”). Del resto, nella stessa Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, veniva sottolineata la sostanziale continuità tra la disciplina introdotta nel 1942 e quella previgente, affermandosi che la nozione tradizionale del contratto di transazione, “fondata sull’elemento funzionale della composizione della lite e sull’elemento strutturale delle reciproche concessioni”, è “sostanzialmente rimasta immutata” (così, testualmente, il p. 772).

Una novità, invece, è costituita dall’art. 1965 c.c., comma 2 quantunque la già citata Relazione chiarisca che il codice del 1942, nello stabilire che “le reciproche concessioni possono riguardare rapporti diversi da quello controverso” – dando vita, così, ad una fattispecie contrattuale che una parte della dottrina definisce come transazione “complessa”, o “mista”, in contrapposizione a quella “semplice” – ha inteso, in realtà, solo consacrare “legislativamente la prevalente tendenza dottrinale” di quel tempo (peraltro affermatasi anche “nella giurisprudenza” coeva), individuando, però, “un limite solo per il caso in cui il rapporto creato mediante il negozio transattivo importa estinzione per novazione del rapporto controverso”. Ricorrendo, infatti, tale ipotesi “l’inadempimento di una delle parti non può far rivivere rapporti definitivamente estinti, se non quando la volontà di entrambe abbia subordinato all’effettivo adempimento l’estinzione medesima” (cfr. il p. 773).

Orbene, da quanto precede emerge che, quantunque non recepita in una specifica previsione normativa, nella stessa “mens legis” dei codificatori del 1942 era “in nuce” la distinzione – che sarebbe stata fatta propria anche dalla giurisprudenza di questa Corte – tra transazione “conservativa” e “novativa”.

Su di essa, come detto, è necessario soffermarsi.

7.1.2. Identificati, infatti, gli elementi caratteristici – e, per così dire, “unificanti” – del contratto di transazione nella “res litigiosa” (ad integrare la quale, peraltro, “non occorre che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, pur se ancora da definire nei più precisi termini di una lite, e non esteriorizzata in una rigorosa formulazione”; così in motivazione, da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 4 maggio 2016, n. 8917, Rv. 639880-01; in senso conforme Cass. Sez. Lav., sent. 10 aprile 2006, n. 8301, Rv. 589205-01; Cass. Sez. 3, sent. 16 luglio 2003, n. 11142, Rv. 565142-01; Cass. Sez. Lav., sent. 11 marzo 1983, n. 1846; Rv. 426678-01) e nel “nuovo regolamento di interessi, che, mediante le reciproche concessioni, viene a sostituirsi a quello precedente cui si riconnetteva la lite o il pericolo di lite” (così, del pari in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. n. 8917 del 2016, cit.; in senso conforme, Cass. Sez. 2, sent. 7 maggio 1997, n. 3969, Rv. 504114-01; Cass. Sez. 3, sent. 4 settembre 1990, n. 9114, Rv. 469171-01), risulta evidente che – come osservato, del resto, da una parte della dottrina – il contratto di transazione è, di per sè, connotato da una certa portata innovativa. Del resto, è proprio su questo piano che la fattispecie contrattuale di cui all’art. 1965 c.c. viene distinta dal cd. “negozio di accertamento”, giacchè, diversamente dalla transazione, “che postula una reciprocità di concessioni tra le parti in modo che ciascuna di esse subisca un sacrificio, e della rinuncia, che postula l’esistenza di un diritto acquisito e la volontà abdicativa volta e dismettere il diritto medesimo, il negozio di accertamento ha la funzione di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente con effetto preclusivo di ogni ulteriori contestazione al riguardo; esso non costituisce fonte autonoma degli effetti giuridici da esso previsti, ma rende definitive ed immutabili situazioni effettuali già in stato di obiettiva incertezza, vincolando le parti ad attribuire al rapporto precedente gli effetti che risultano dall’accertamento, e precludendo loro ogni pretesa, ragione od azione in contrasto con esso” (tra le alte, Cass. sez. 1, sent. 10 gennaio 1983, Rv. 424983-01).

Nondimeno, quantunque l’accordo transattivo, come si notava, sia connotato da una certa portata innovativa, la differenza tra la transazione “novativa” e quella “conservativa” è stata ravvisata come ancora di recente sottolineato da questa Corte – nel fatto che, nella prima, “è necessario che l’accordo raggiunto dalle parti disciplini per intero il nuovo rapporto negoziale”, e ciò “perchè la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un diverso rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente, con nuove ed autonome situazioni giuridiche”, sicchè di “tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l'”animus novandi”, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova, e l'”aliquid novi”, inteso come mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto” (da ultimo, Cass. Sez. 1, ord. 13 marzo 2019, n. 7194, Rv. 653632-02), il tutto, ovviamente, sempre nella prospettiva di eliminare la “res litigiosa”.

Resta, tuttavia, inteso che il requisito del cd. “animus novandi” può anche risultare in modo non esplicito, visto che “l’efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall’accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti debbano ritenersi sostanzialmente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che, al di fuori dell’ipotesi in cui sussista un’espressa manifestazione di volontà in tal senso, il suo accertamento richiede una verifica in ordine all’intento delle parti di addivenire, nella composizione del rapporto litigioso, alla costituzione di un nuovo rapporto, fonte di nuove ed autonome situazioni, destinate a sostituirsi a quelle preesistenti” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 11 novembre 2016, n. 23604, Rv. 642407-01; in senso conforme, “ex multis”, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2011, n. 15444, Rv. 618562).

Per contro, la transazione è “conservativa” quando le parti danno vita ad un “accordo con il quale le parti si limitano ad apportare modifiche solo quantitative ad una situazione già in atto e a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni, consistenti (anche) in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un “quid medium” tra le prospettazioni iniziali” (Cass. Sez. Lav., sent. 14 giugno 2006, n. 13717, Rv. 590340-01).

7.1.3. Ciò detto, la distinzione tra le due fattispecie – transazione “novativa” e “conservativa” – assume rilievo dirimente, come sopra accennato, ai fini dell’applicazione dell’art. 1972 c.c.

Premesso, invero, che il medesimo art. 1972, comma 1 nel contemplare l’ipotesi della nullità della transazione relativa a “contratto illecito”, sancisce “la nullità della transazione soltanto se questa ha ad oggetto un contratto nullo per illiceità della causa o del motivo comune ad entrambe le parti e non quando si tratta di contratto nullo per mancanza di uno dei requisiti previsti dall’art. 1325 c.c.” (così Cass. Sez. 2, sent. 27 agosto 1994, n. 7553, Rv. 487781-01), è stato anche chiarito che tale disposizione “prevede l’ipotesi in cui la transazione non abbia avuto a oggetto il titolo”, integrando la cosiddetta “transazione novativa”, bensì soltanto “la sua esecuzione ovvero gli effetti da esso derivanti (transazione non novativa)”, con la conseguenza che “la nullità del titolo (rimasto in vita) travolge rendendo nulla anche la transazione, seppure le parti abbiano trattato della nullità” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 10 luglio 2014, n. 15841, Rv. 631672-01).

Per contro, “il comma 2 della norma citata – che disciplina, invece il caso in cui la composizione della lite abbia riguardato il titolo (transazione cd. novativa) – ne prevede l’annullabilità (e non la nullità), che può essere chiesta “solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo””, sicchè, in sostanza, “la transazione novativa ovvero quella che interviene sul titolo è annullabile, ma il vizio del negozio può essere fatto valere soltanto dalla parte che sia in errore sulla nullità del titolo” (così Cass. Sez. 2, sent. n. 15841 del 2014, cit.).

In definitiva, l’applicazione dell’art. 1972 c.c., comma 2, alla sola transazione cd. “novativa” trova la ragione d’essere nel fatto che “la nullità, l’inesistenza o comunque l’esaurimento del preesistente titolo rimasto invece incontroverso e fuori della transazione (cosiddetta transazione “non novativa”)”, determinano, “indipendentemente da ogni impugnativa, automaticamente l’inutilità della transazione” (Cass. Sez. 3, sent. 10 luglio 1998, n. 6703, Rv. 517065-01), e ciò in quanto, come già osservato dalla prevalente dottrina, nella transazione “conservativa”, l’accordo transattivo regola congiuntamente alla fonte preesistente – e non in sostituzione di esso – il rapporto tra le parti, sicchè le vicende ad essa relative sono destinate ad influire sulla sorte del contratto di cui all’art. 1965 c.c.

L’applicazione, per contro, dell’art. 1972 c.c., comma 1 è, invece, una conseguenza del fatto che in caso di transazione “conservativa”, l’accordo transattivo non potrebbe consentire al titolo illecito – che resta, come detto, fonte concorrente del rapporto – di produrre effetti giuridici.

7.1.4. Occorre, a questo punto, fare applicazione dei principi appena illustrati al caso “de quo”.

Che nella presente fattispecie – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, che ha qualificato l’accordo transattivo del 2 novembre 2004, corrente “inter partes”, come conservativo – ricorra, invece, una transazione “novativa” (donde, allora, la necessità della correzione, sul punto, della sentenza impugnata), è conclusione che si impone alla luce delle seguenti considerazioni.

Si è visto, infatti, che “l’efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall’accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti debbano ritenersi sostanzialmente diverse da quelle preesistenti”, sicchè le parti, “nella composizione del rapporto litigioso”, danno vita “alla costituzione di un nuovo rapporto, fonte di nuove ed autonome situazioni, destinate a sostituirsi a quelle preesistenti” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. n. 23604 del 2016, cit.).

Che tale sia l’evenienza ipotizzabile nel caso di specie è quanto attesta la circostanza – evidenziata anche dalla controricorrente – che prima, immeditatamente prima della stipula della transazione, si fosse fatto luogo, in data 13 ottobre 2004, alla risoluzione consensuale (e non unilaterale) dei contratti di affiliazione societaria, essendo la risoluzione avvenuta in forza di atti sottoscritti congiuntamente dalle parti. L’accordo transattivo, dunque, dava vita a nuovi impegni obbligatori, originati proprio dalla necessità di regolamentare la situazione derivante dal mutuo scioglimento dei contratti di affiliazione e comportanti una disciplina complessiva delle pretese nascenti da quella pregressa relazione negoziale, in funzione di eliminazione della la “res litigiosa”, da indentificarsi – secondo le indicazioni provenienti sempre dalla giurisprudenza di questa Corte non nel rapporto o nella situazione giuridica cui si riferisce la discorde valutazione delle parti, ma nella “lite cui questa ha dato luogo o può dar luogo, e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 1 aprile 2010, n. 7999, Rv. 612448-01).

Ciò posto, la qualificazione dell’accorso transattivo del 2 novembre 2004 come “novativo” ha come conseguenza, alla luce della giurisprudenza sopra richiamata, non solo l’esclusione “in radice” dell’operatività dell’art. 1972 c.c., comma 1 (applicabile alla sola transazione conservativa), ma anche l’impossibilità di applicare, nel presente caso, il comma 2 medesimo articolo.

La disposizione da esso recata, difatti, sebbene astrattamente operante nel “caso in cui la composizione della lite abbia riguardato il titolo”, ovvero nell’ipotesi di transazione cd. “novativa”, prevede tuttavia, come si è visto, “l’annullabilità (e non la nullità)” di tale accordo, “che può essere chiesta “solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo””, sicchè, in sostanza, “la transazione novativa ovvero quella che interviene sul titolo è annullabile, ma il vizio del negozio può essere fatto valere soltanto dalla parte che sia in errore sulla nullità del titolo” (così Cass. Sez. 2, sent. n. 15841 del 2014, cit.).

Orbene, poichè, nella specie, la dedotta nullità dei contratti di franchising deriverebbe – in ipotesi – dall’inosservanza di normativa interna e comunitaria, di natura imperativa e posta a tutela della concorrenza, per ciò solo deve escludersi che le società “affiliate”, odierne ricorrenti, possano affermare di essere “in errore” sulla causa di nullità. Invero, visto che la previsione di cui all’art. 1972 c.c., comma 2, – secondo quanto rilevato da parte di una certa dottrina costituisce una deroga al principio generale che esclude l’annullamento della transazione per errore di diritto (art. 1969 c.c.), attribuendo, per giunta, rilevanza, in via del tutto eccezionale, all’errore sui presupposti del contratto, la possibilità, da tale disposizione riconosciuta, di annullare la transazione “novativa” per nullità del titolo, presuppone, evidentemente, l’esistenza di un legittimo affidamento da tutelare in capo alla parte eccipiente (giacchè va rammentato che tale vizio non è rilevabile d’ufficio; cfr. Cass. Sez. 1, sent. 30 marzo 1984, n. 2082, Rv. 434133-01).

In conclusione, le ricorrenti non possono giovarsi dell’applicazione dell’art. 1972 c.c. donde la non fondatezza del primo motivo di ricorso.

7.2. Anche il secondo motivo non è fondato.

7.2.1. Sul punto, risultano esenti da errore le affermazioni contenute nella sentenza impugnata, che ha escluso l’applicazione ai due contratti di affiliazione commerciale del 26 luglio e 22 agosto 2002 – della disciplina recata dalla L. 6 maggio 2004, n. 129, pervenendo a tale conclusione sul rilievo che entrambi fossero stati risolti il 13 ottobre 2004, ovvero prima che spirasse (il 25 maggio 2005) il termine di un anno che la stessa legge, all’art. 9, assegnava alle parti di un contratto di franchising, concluso prima della sua entrata in vigore, per l’adeguamento alla disciplina da essa recata.

7.3. Infine, pure il terzo motivo di ricorso non è fondato.

7.3.1. A prescindere, infatti, dalla configurazione – proposta da parte della dottrina, per individuare la “ratio” dell’art. 1970 c.c. circa la natura di “contratto aleatorio” propria della transazione (e che ne escluderebbe la rescissione per lesione, in coerenza con il disposto di cui all’art. 1448 c.c., comma 3), resta fermo che, ai sensi della prima di tali norme, “la transazione non può essere impugnata per causa di lesione, in quanto la considerazione dei reciproci sacrifici e vantaggi derivanti dal contratto ha carattere soggettivo, essendo rimessa all’autonomia negoziale delle parti” (Cass. Sez. 3, sent. 22 aprile 1999, n. 3984, Rv. 525602-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 20 giugno 1966, n. 1591, Rv. 323163-01).

Esclusa, dunque, l’esperibilità dell’azione di rescissione ex art. 1448 c.c., quanto alla possibilità, invece, di rescindere il contratto di transazione ai sensi del precedente art. 1447, la stessa resta esclusa – come osserva la sentenza impugnata – dal fatto che l’azione contemplata da detta norma presuppone il pericolo di un “danno grave alla persona”, ovvero una nozione non diversa da quella accolta dall’art. 54 c.p., quale condizione di non punibilità, o dall’art. 2045 c.c., quale motivo di esenzione della responsabilità (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 25 luglio 1951, n. 2147).

8. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico delle ricorrenti e liquidate come da dispositivo.

9. A carico delle ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando le società SMC&CO S.r.l. e SIGMA-Società Italiana Gestione Markets Alimentari di G.C. & co S.n.c. a rifondere alla società PAM Franchising S.p.a. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.200,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, più spese forfetarie nella misura del 1 5 % ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020

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