Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7960 del 20/04/2020

Cassazione civile sez. III, 20/04/2020, (ud. 05/11/2019, dep. 20/04/2020), n.7960

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26034-2018 proposto da:

N.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DOMENICO

JACHINO N 10, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO SBARDELLA,

rappresentato e difeso dall’avvocato DIANA ANGELA PUNZI;

– ricorrente –

contro

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE UMBERTO

TUPINI, 113, presso lo studio dell’avvocato NICOLA CORBO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2882/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 13/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

05/11/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;

Fatto

RILEVATO

che:

N.A., evocava in giudizio davanti al Tribunale di Napoli, P.A. deducendo che, quale presidente della Sezione lavoro del Tribunale di Salerno aveva ricevuto, in data 29 dicembre 2003, l’avviso di conclusione delle indagini relativamente all’ipotesi accusatoria di abuso d’ufficio, verificando che l’avvocato P. era stato sentito a sommarie informazioni dal PM di Napoli procedente, dichiarando, in occasione dell’esame del 15 novembre 2002, circostanze non vere;

in particolare, avrebbe riferito che negli ultimi mesi dell’anno 2001 e nel primo mese dell’anno 2002 vi sarebbe stato un “piccolo” nel numero delle controversie di lavoro proposte davanti al Tribunale di Salerno contro le Ferrovie dello Stato e ciò in concomitanza con la nuova presidenza della sezione lavoro, aggiungendo che la quasi totalità delle controversie erano state assegnate dal N. a sè stesso. Tali elementi, secondo l’attore, sarebbero stati decisivi per la incolpazione per abuso di ufficio e successivamente per corruzione, dando luogo alla sentenza penale di condanna del 20 marzo 2006, successivamente riformata dalla Corte d’Appello di Napoli con sentenza del 23 aprile 2007, passata in giudicato. Sulla base di tali elementi N. chiedeva al Tribunale civile di Napoli di affermare la responsabilità del convenuto ai sensi dell’art. 185 c.p., artt. 2043 e 2059 c.c. e artt. 2 e 32 Cost.;

si costituiva l’avvocato P.A. chiedendo il rigetto delle domande;

il Tribunale di Napoli, con sentenza della 19 settembre 2015, condannava il convenuto al risarcimento dei danni per l’importo di Euro 60.000, oltre alle spese valorizzando la professione del convenuto e la consapevolezza del P. del significato offensivo delle affermazioni, oltre che della non corrispondenza al vero dei fatti;

con atto di citazione del 9 novembre 2015, P.A. impugnava la decisione, richiamando i numerosi procedimenti, civili, penali e disciplinari coinvolgenti le parti, ritenendo errata la decisione, insussistente il delitto di calunnia o di diffamazione in danno del N., deducendo l’inesistenza del nesso causale tra la condotta i danni lamentati dall’attore, l’inammissibilità della domanda risarcitoria proposta già in altra sede e rigettata con decisione passata in giudicato e l’eccessività della liquidazione del danno;

si costituiva N.A. eccependo l’inammissibilità ex art. 342 c.p.c. e l’infondatezza del gravame e spiegando appello incidentale, ritenendo configurabile il delitto di calunnia o quello di false informazioni rese al Pubblico ministero, concludendo per l’aumento del risarcimento del danno e lamentando di avere subito un danno biologico;

con sentenza del 13 giugno 2018 la Corte d’Appello di Napoli accoglieva l’appello principale proposto da P.A. e rigettava quello incidentale e, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande originariamente proposta da N.A., compensando le spese del doppio grado di giudizio;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione N.A. affidandosi a un motivo. Resiste con controricorso P.A..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’unico articolato motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 la violazione l’art. 342 c.p.c., per la mancata declaratoria d’inammissibilità dell’appello, come originariamente proposto da P.. In sintesi, secondo il ricorrente, l’appellante P.A. non avrebbe contrapposto reali censure alla argomentazione centrale della sentenza di primo grado e per tale motivo il gravame non sarebbe specifico ai sensi dell’art. 342 c.p.c. In particolare, il nucleo centrale della decisione di primo grado si fonderebbe sull’argomentazione espressa a pagina 2 della sentenza secondo cui “alla luce delle certificazioni depositate dall’attore… può dirsi provato che le circostanze… dichiarate dal convenuto al Pm non corrispondano alla verità dei fatti”. In particolare, le dichiarazioni rilevanti rese al Pubblico Ministero erano cinque:

– la prima e la seconda riguardavano l’aumento di controversie che si sarebbe verificato al momento dell’insediamento del nuovo Presidente della sezione lavoro. A riguardo P. avrebbe sostanzialmente riconosciuto che i dati riferiti in occasione dell’interrogatorio “avrebbero potuto essere al più considerate inesatte, ma non false”. Ma inesattezza significa non corrispondenza alla verità dei fatti;

– la terza dichiarazione relativa ai ricorsi monitorati presso altre Corti sarebbe stata corretta nel senso che “i numeri fossero più o meno precisi” e anche qui imprecisione significherebbe non corrispondenza ai dati reali;

– anche la quarta dichiarazione relativa alla concentrazione di nuove liti risulterebbe smentita;

– la successiva affermazione secondo cui il 99% dei procedimenti sarebbe stato assegnato allo stesso Presidente, sarebbe stata rimodulata perchè la percentuale da prendere in esame era “semmai quella del 70% e non del 55%”. In ogni caso il dato iniziale del 99% sarebbe inesatto secondo il ricorrente;

– e anche l’ultima dichiarazione, secondo cui tutti i procedimenti successivi ai primi sette in materia di retribuzione, sarebbero stati assegnati al Presidente, in quanto “quei primi sette erano stati rigettati dal dr M.” (diverso giudice del lavoro), non sarebbe esatta;

in conclusione, secondo il ricorrente, a fronte di una mancata effettiva censura del nucleo centrale della decisione, la Corte non avrebbe potuto ritenere specifici i motivi e avrebbe dovuto richiamare il costante orientamento di legittimità in materia;

l’impugnazione non conterrebbe una chiara individuazione delle questioni contestate dalla sentenza impugnata e delle relative doglianze, così come richiesto, da ultimo dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 27199 del 2017. Tali elementi difetterebbero nell’atto di appello del quale si trascrivono le pagine 8-9 e 22-30;

il ricorso è inammissibile. Come rilevato dallo stesso ricorrente, ove si censuri, come nel caso di specie, la statuizione di ammissibilità, per specificità, di un motivo di appello, sussiste l’onere di individuare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e non sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e il ricorrente non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 23/2/18 n. 4445 e Cass. n. 22880 del 29/09/2017, Rv. 645637 – 01);

ma, analogo onere riguarda l’allegazione, trascrizione e l’indicazione della sede processuale nella quale è stata prodotta la sentenza di primo grado, in quanto il requisito della specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c., (nel testo, applicabile ratione temporis, successivo alle modifiche apportategli dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012), esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (decisione del Tribunale di Napoli n. 11553/15), vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico giuridico, ciò risolvendosi in una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, ispirata ad un principio di simmetria e condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato (sentenza del Tribunale di Napoli) e la formulazione dell’atto di gravame, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni del primo, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate nel secondo e viceversa per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure;

pertanto, la specificità dei motivi di appello, da commisurare all’ampiezza e alla portata delle argomentazioni spese dal primo giudice (Sez. 3, Sentenza n. 15790 del 29/07/2016) comporta l’onere, a pena di inammissibilità, della produzione della sentenza di primo grado:

è necessario “che sia trascritta o riportata con precisione la pertinente parte motiva della sentenza di primo grado, il cui contenuto costituisce l’imprescindibile termine di riferimento per la verifica in concreto del paradigma delineato dagli artt. 342 e 343 c.p.c. e, in particolare, per apprezzare la specificità delle censure articolate” (Sez. L -, Ordinanza n. 3194 del 04/02/2019 (Rv. 652880 – 01). Nel caso di specie tale atto non è riprodotto o trascritto in maniera adeguata;

tale non può ritenersi la trascrizione, peraltro intervallata da “puntini” (che evidentemente lasciano intendere l’esistenza di ulteriori argomentazioni) riportata a pagina 9 del ricorso (“alla luce delle certificazioni depositate dall’attore… può dirsi provato che le circostanze… dichiarate dal convenuto al pm non corrispondano alla verità dei fatti”) a fronte di un atto di appello che, per la parte descritta in ricorso, già superava le 30 pagine, di cui vi è una trascrizione solo parziale (9 pagine) e che già nella parte riportata censura in maniera specifica una serie di elementi istruttori assolutamente sovrabbondanti rispetto alla sintetica conclusione della sentenza di primo grado trascritta dal ricorrente;

a tale proposito, la semplice allegazione della decisione (in chiusura del ricorso principale, tale documento è riportato tra quelli prodotti in sede di legittimità) in difetto di idonea trascrizione deve ritenersi assolutamente insufficiente, perchè è necessario che il ricorrente faccia proprio il contenuto dell’impianto motivazionale, che si assume non aggredito dai motivi di appello e che costituisce l’imprescindibile presupposto per la verifica in concreto del paradigma delineato dagli artt. 342 e 343 c.p.c. e, in particolare, per apprezzare la specificità delle censure articolate. Ma tale deduzione (la presunta non specificità delle censure articolate dall’appellante P.) deve essere illustrata in maniera specifica dal ricorrente e non liberamente ricostruita dalla Corte di legittimità attraverso un esame ex novo dei due atti (intero contenuto della sentenza di primo grado, da una parte e argomentazioni dell’atto di appello, allegate dal ricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, dall’altro);

quello che si vuole precisare è che la Corte non può sostituirsi al ricorrente, in una attività che si risolve in una valutazione del fatto processuale (raffronto tra la decisione di primo grado e la specificità dei motivi di appello) senza il vincolo dei paletti costituiti, a loro volta, dalla specificità dei motivi del ricorso per cassazione. Tale attività, infatti, impone una verifica in concreto dell’esame delle argomentazioni adottate dal primo giudice e le (eventuali) pertinenti ragioni di dissenso riguardanti la ricostruzione dei fatti, l’indicazione delle prove malamente valutate e le doglianze afferenti questioni di diritto. E ciò sulla base di un principio di simmetria, tra la motivazione del provvedimento del Tribunale appellato e la formulazione dell’atto di gravame del P.. In definitiva, trovando applicazione il principio secondo cui, quanto più approfondite e dettagliate risultino le argomentazioni di primo grado, tanto più puntuali devono profilarsi quelle utilizzate in appello (e viceversa), per confutare l’impianto motivazionale del Tribunale, una siffatta valutazione va operata sulla base di specifici motivi del ricorso per cassazione. Tale specificità difetta del tutto nel momento in cui le deduzioni del ricorrente non trascrivono, richiamano o fanno proprie le presunte dettagliate e argomentate valutazioni del Tribunale, rispetto alle quali, secondo la tesi del ricorrente, l’atto di appello non sarebbe specifico ai sensi dell’art. 342 c.p.c.

a prescindere da ciò, la Corte territoriale ha rilevato che l’atto di appello “con argomenti che, fondati o meno, sono puntualmente e diffusamente esplicati in ordine, sia alla verità delle sue dichiarazioni, da pagina 9 a pagina 24 dell’atto introduttivo, che all’assenza della loro portata diffamatoria, da pagina 24 a pagina 31” attraverso una “chiara, pertinente ad esaustiva esposizione delle ragioni di dissenso”. A fronte di tali specifiche argomentazioni della Corte d’Appello, il ricorrente si limita a ribadire la questione disattesa dalla Corte territoriale, trascrivendo le pagine corrispondenti dell’atto di appello. Rispetto all’esame della questione sottoposta al giudice di appello e rigettata, il motivo di ricorso, anche sotto tale profilo, non è specifico;

d’altra parte è lo stesso ricorrente ad evidenziare, riportando pagina 8 dell’appello avverso la sentenza del GOT di Napoli, che P. aveva evidenziato che la struttura della decisione di primo grado era distinta in quattro parti, puntualmente trascritte, soffermandosi, successivamente, a una critica analitica di ciascuno dei predetti passaggi. Rispetto a questa documentata analiticità delle censure, per quello che possibile leggere dallo stesso ricorso, le censure del ricorrente si limitano a riproporre la tesi già sostenuta in appello, dell’inammissibilità ai sensi dell’art. 342 c.p.c.;

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020

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