Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 796 del 16/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 796 Anno 2014
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: BLASUTTO DANIELA

SENTENZA

sul ricorso 25980-2010 proposto da:
ASL 4 BASSO MOLISE IN LIQUIDAZIONE C.F.00885070706, in
persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALBALONGA 7,
presso lo studio dell’avvocato PALMIERO CLEMENTINO,
che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato
2013

DE NOTARIIS GIOVANNI, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3149
contro

COMUNALE ANGELINA C.F. CMNNGL49D62H654J, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA SISTINA 121, presso lo studio

Data pubblicazione: 16/01/2014

dell’avvocato BONOTTO MARCELLO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– controricorrente avverso la sentenza n. 293/2010 della CORTE D’APPELLO
di CAMPOBASSO, depositata il 05/07/2010 r.g.n.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 06/11/2013 dal Consigliere Dott. DANIELA
BLASUTTO;
udito l’Avvocato DE NOTARIIS GIOVANNI;
udito l’Avvocato GATTA VINCENZO per delega BONOTTO
MARCELLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

1200/2008;

i

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Latino, Comunale Angelina, dipendente della ASL
n. 4 Basso Molise con qualifica di “infermiere generico”, esponeva di avere
lavorato presso l’U.O. dell’Ambulatorio di Cardiologia svolgendo dal marzo
2002 al gennaio 2006, epoca del suo pensionamento, attività riconducibili al
profilo di “infermiere professionale”. In ragione di ciò, agiva per ottenere la
condanna della ASL a corrisponderle le differenze tra il trattamento economico
percepito e quello spettante per lo svolgimento delle mansioni superiori, a
norma del d.lgs. 165/2001, art. 52.
In primo grado la domanda veniva respinta, in quanto il Tribunale aderiva alla
prospettazione della ASL secondo cui la lavoratrice non aveva dimostrato
l’esistenza di un provvedimento di assegnazione alle mansioni del superiore
profilo professionale e ciò costituiva una ragione assorbente per escludere il
diritto alle differenze economiche rivendicate.
A seguito di gravame interposto dalla lavoratrice, la Corte di appello di
Campobasso, accertato che l’appellante aveva effettivamente svolto in modo
ordinario e continuativo attività propria della qualifica di infermiere
professionale, accoglieva la domanda, ritenendo irrilevante la mancanza di un
formale atto di assegnazione.
Tale sentenza è ora impugnata dalla Asl n. 4 Basso Molise in liquidazione, che
propone ricorso affidato a quattro motivi. Resiste Comunale Angelina con
controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
R.G. n. 25980/2010
Udienza del 6 novembre 2013
ASL N. 4 Basso Molise in liq. c/Comunale A.

i

..

Con i primi due motivi si denuncia violazione e falsa applicazione del d.lgs. 3
febbraio 1993 n. 29, art. 56; del d.lgs. n. 387 del 1998, art. 15; del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165, art. 52, nonché dei CCNL 1998/2001, art. 28, e CCNL 2002/2005,

i giudici di appello erroneamente interpretato ed applicato alla fattispecie i
principi enunciati nella sentenza n. 25837 del 2007 delle Sezioni Unite. Questa
aveva riguardato l’esercizio di mansioni superiori conferite con atto illegittimo,
ma non l’ipotesi di svolgimento di fatto di mansioni radicalmente prive di un
provvedimento di conferimento; la pretesa di assimilare le due ipotesi non ha
fondamento normativo, atteso che il d.lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma
quinto, nel disporre che “….è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di
una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico
con la qualifica superiore”, pone una imprescindibile relazione tra il diritto al
trattamento economico per l’esercizio di mansioni superiori e l’attribuzione di
queste mediante un provvedimento di “assegnazione”.
Con il terzo e il quarto motivo si censura la sentenza per violazione e falsa
applicazione del d.p.r. 14 marzo 1974 n. 225, art. 6; del d.m. 14 settembre 1994,
n. 379; del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 6; della legge 10 agosto 2000, n.
251 del c.c.n.l. 7 aprile 1999, art. 18, comma quinto, nonché per vizio di
motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.), per avere la Corte territoriale
omesso di considerare che, ai sensi dell’art. 6 del d.p.r. 14 marzo 1974, n. 225,
l’infermiere professionale – a differenza di quello generico – svolge la prestazione
lavorativa con autonomia professionale e che, ai sensi del d.m. 14 settembre
1994, n. 379, tale figura professionale deve essere in possesso del diploma
universitario abilitante e dell’iscrizione all’albo professionale, tutti requisiti dei

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art. 36, nonché vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.) per avere

quali la Comunale era priva. La Corte di appello aveva pure trascurato di
considerare che l’istruttoria testimoniale non aveva fornito alcuna prova in
merito al livello di autonomia e di responsabilità con cui l’attuale intimata svolse

dirsi integrato il presupposto cui è condizionato il riconoscimento del
trattamento economico proprio del superiore livello professionale.
I primi due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente poiché il
denunciato vizio di motivazione investe in effetti solo una questione di diritto quella della illegittima equiparazione tra mansioni svolte in forza di un
provvedimento di conferimento e mansioni svolte in via di fatto -, sono
destituiti di fondamento.
Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art.
52, pur nelle varie formulazioni susseguitesi nel tempo, recependo una costante
norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni
superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore.
Quanto invece al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente
alle mansioni superiori, previsto dall’indicato art. 56, comma 6 nella sua
originaria formulazione (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29), trattasi di disposizione
soppressa dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che
la modifica del comma sesto ultimo periodo, disposta dalla nuova norma, è una
disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini
atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data
ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere
sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio; la portata
retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della

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le mansioni nel periodo interessato dal giudizio; di conseguenza, non poteva

Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego
dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una
retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla

correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (cfr, ex plurimis,
Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193 del
2011). Nell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte con la
sentenza n. 25837 del 2007, la suddetta norma va intesa nel senso che
l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni
superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale
(tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del
1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.;
tale norma deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di
alcun genere pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni
superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo,
nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati
esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni
(v. pure Cass. n. 23741 del 17 settembre 2008 e molte altre successive; tra le più
recenti, Cass. n. 4382 del 23 febbraio 2010).
Né la portata applicativa del principio è da intendere come limitata e
circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione
di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite (cfr.
Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n.
25837 cit.), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, hanno
rilevato come l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente

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conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione

nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla
eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a
mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica

legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della
tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta
disposizione, dell’art. 36 Cost. – perché non può ravvisarsi nella violazione della
mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme
fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e
che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela
del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie
riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario
nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del
disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2). La Corte Costituzionale
ha ripetutamente affermato l’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36
Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale
riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del
provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a
quelle della qualifica di appartenenza (cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n.
296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003). Neppure il
principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante
pubblico concorso è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a
mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della

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amministrazione, l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per

qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art.
36 Cost. (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236).
Neppure vale a contrastare tale principio la possibilità di abusi conseguenti al

cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte
per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perché “il cattivo uso di
assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e
patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di
ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione
dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a
giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è
evidenziata la rilevanza costituzionale” (in tal senso, S.U., sent. n. 25837 del
2007, cit.).
Il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni
effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto
comune non è dunque condizionato all’esistenza di un provvedimento del
superiore gerarchico che disponga l’assegnazione. Le uniche ipotesi in cui può
essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere
circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto
all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure
allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente
(cfr. Cass. n. 27887 del 2009).
In proposito, la Corte costituzionale ha osservato (n. 101 del 1995) che il
potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire
temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie

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riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost. al lavoratore

di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento
dell’amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo
corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la

sentenza n. 236 del 1992). L’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue
conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione
a funzioni superiori, non è evidentemente un argomento che possa giustificare
una restrizione dell’applicabilità del principio costituzionale di equivalenza della
retribuzione al lavoro effettivamente prestato. Se fosse dimostrato che nel caso
concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori è avvenuta con
abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente , lo stesso art. 2126 cod.
civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo.
E’ stato così superato il rilievo, del giudice remittente, secondo cui questi
limiti non basterebbero ad evitare che l’art. 2126 cod. civ., per il tramite dell’art.
2129, diventi nel pubblico impiego fonte di abusi e di favoritismi nella forma di
avanzamenti di carriera di fatto, prestandosi “ad essere strumentalizzato quale
grimaldello per stabilire e/o indurre connivenze tra chi ha il potere di mantenere
l’assegnazione di fatto del dipendente a mansioni superiori, con tutti i
conseguenti vantaggi economici, e quest’ultimo”. Il Giudice delle leggi, nel
respingere tale rilievo di incostituzionalità dell’art. 2129 cod. civ., nella parte in
cui prevede l’applicabilità dell’art. 2126 nel settore del pubblico impiego, ha
fornito una chiara indicazione interpretativa, mettendo in rilievo come l’art. 2126
cod. civ., insieme con l’art. 2103 cod. civ., costituisca “un’applicazione ante
litteram del principio, sancito dall’art. 36 Cost., che attribuisce al lavoratore il
diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro

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cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione (cfr.

prestato, indipendentemente dalla validità del contratto di assunzione o,
rispettivamente, del provvedimento di assegnazione a mansioni superiori a
quelle di assunzione, esclusi i casi di nullità per illiceità dell’oggetto o della causa”

In altra pronuncia, vertente in un caso si assegnazione di fatto di un sanitario
alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico,
della Corte costituzionale (sent. n. 57 del 1989) ha escluso che la mancanza della
condizione formale potesse ostacolare l’accoglimento della domanda,
osservando che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di
servizio non dà diritto a variazioni di trattamento economico (cioè rientra nei
doveri di ufficio del sanitario) “solo entro il limite temporale massimo ivi
indicato (….), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di
lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della
Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il
trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità
del lavoro effettivamente prestato”, e che non può escludersi l’accoglimento
della domanda per difetto di un provvedimento formale di assegnazione
interinale alle mansioni inerenti al posto vacante, in quanto “la mancanza di
questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di
cui all’art 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego”. La
prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un
arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost.,
direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento
economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato (Corte
cost., ord. n. 908 del 1988).

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(sent. n. 101 del 1995, cit.).

Nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che – alla stregua dei
principi sopra esposti e qui pienamente condivisi e ribaditi – avrebbe potuto
giustificare l’esclusione del diritto dell’attuale intimata alla retribuzione

obbligo dell’Amministrazione di integrare il trattamento economico della
dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato -, non
risultando nemmeno prospettato da parte convenuta in primo grado che
l’espletamento di mansioni superiori avvenne all’insaputa o contro la volontà
dell’Azienda (invito o proibente domino), né risultando allegata altra specifica causa
di esclusione, nel senso sopra chiarito.
Il terzo e il quarto motivo sono inammissibili.
Nella sentenza impugnata non risultano in alcun modo trattate le questioni,
oggetto del terzo motivo di ricorso, vertenti sul possesso di requisiti per
l’esercizio dell’attività di infermiere professionale. Qualora una determinata
questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata
in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta
questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di
inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare
l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per
il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto
del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare
“ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la
questione stessa (Cass. 12 luglio 2005 n. 14599 e n. 14590; n.25546 del 30
novembre 2006; n. 4391 del 26 febbraio 2007; n. 20518 del 28 luglio 2008; n.

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proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato – e del correlativo

5070 del 3 marzo 2009). La ASL ricorrente non ha indicato come le questioni
sarebbero state introdotte in giudizio.
Quanto poi all’ulteriore censura riguardante le modalità di svolgimento delle

prova in ordine all’effettiva assunzione, da parte della Comunale, del livello di
responsabilità e del grado di autonomia corrispondenti al profilo di infermiere
professionale, è sufficiente osservare che la sentenza impugnata, nel respingere
l’appello incidentale proposto dall’Azienda Sanitaria Locale, ha richiamato le
deposizioni testimoniali da cui era emersa la prova dell’esercizio “in modo
ordinario e continuativo” delle superiori mansioni di infermiera professionale; a
fronte di ciò l’Azienda ricorrente si è limitata ad affermare apoditticamente che
tali testimonianze nulla avrebbero dimostrato in merito ai requisiti costitutivi del
diritto azionato.
Va ricordato che il ricorso per cassazione – in ragione del principio di
cosiddetta “autosufficienza” – deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a
costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed,
altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la
necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad
elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito. Pertanto, il controllo
della congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità su
un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula la specificazione da
parte del ricorrente – se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso
– della risultanza che egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente
valutata dal giudice, perché solo tale specificazione consente al giudice di
legittimità – cui è precluso, salva la denuncia di “error in procedendo”, l’esame

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mansioni superiori e la denunciata carente motivazione circa l’asserito difetto di

diretto dei fatti di causa – di deliberare la decisività della risultanza non valutata,
con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il ricorso con cui, nel
denunciare l’omessa valutazione da parte del giudice di merito di una circostanza

Cass. n. 6679 del 2006, n. 27197 del 2006, n. 15910 del 2005).
Il ricorso va dunque respinto.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sulla base del d.m. n. 140 del
2012 e delle tabelle ad esso allegate, che si applica alle controversie pendenti alla
data della sua approvazione, vanno liquidate in Euro 4.000,00 per compensi
professionali e in Euro 100,00 per esborsi, oltre I.V.A. e C.P.A..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro
100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, 6 novembre 2013
Il Consigliere est.

Il Presidente

decisiva, ci si limiti a rinviare alla prospettazione fatta negli atti di causa (cfr.

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