Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7956 del 07/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 07/04/2011, (ud. 23/02/2011, dep. 07/04/2011), n.7956

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11655-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato DE MARINIS NICOLA, che la rappresenta e

difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

R.P., G.A.V., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell’avvocato

RIZZO ROBERTO, che li rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8008/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/04/2006 R.G.N. 2768/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2011 dal Consigliere Dott. NOBILE Vittorio;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega DE MARINIS NICOLA;

udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO per delega RIZZO ROBERTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 29322/2002 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma respingeva le domande proposte da R.P. e G. A.V. nei confronti della s.p.a. Poste italiane, dirette ad ottenere la declaratoria di nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro intercorsi tra le parti, con la condanna della società al ripristino della funzionalità del rapporto e al pagamento, anche a titolo risarcitorio, delle retribuzioni globali di fatto fino all’effettivo ripristino del rapporto stesso.

I lavoratori proponevano appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento delle domande.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 14-4-2006, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la nullità dei contratti a termine intercorsi tra le parti per i periodi, quanto alla R. dal 25-11-1998 al 30-1-1999 poi prorogato al 31-3-1999, dal 3-5-1999 al 31-5-1999, dal 2-11-1999 al 31-1-2000, dal 26-4-2000 al 25-6-2000 dal 2-10-2000 al 31-1-2001, e quanto al G. per il periodo dal 2-10-2000 al 31-1-2001 e per l’effetto che era intercorso un unico rapporto a tempo indeterminato dal 25-11-1998 per R. e dal 2-10-2000 per G., con la prosecuzione giuridica dopo il 31-1-2001 “ancora in atto a tutt’oggi”. Condannava inoltre la società a risarcire il danno ai lavoratori in misura pari alle retribuzioni spettanti dalla messa in mora del 30-3-2001 per R. e del 14-3-2001 per G., sino alla scadenza del terzo anno successivo alla scadenza dell’ultimo contratto a termine, oltre interessi e rivalutazione.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

I lavoratori intimati hanno resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale con un unico complesso motivo.

Infine i lavoratori hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale la società, denunciando violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’accordo del 25-9-97, con i successivi accordi attuativi, avrebbe avuto una efficacia limitata temporalmente al 30-4-1998, ed all’uopo ribadisce la natura meramente ricognitiva dei detti accordi attuativi.

Con il secondo motivo la società, denunciando violazione della L. n. 230 del 1962, della L. n. 56 del 1987, art. 23 e degli artt. 1362 e ss. c.c., in sostanza deduce che erroneamente ed in contrasto con il principio della “delega in bianco”, la Corte di merito ha configurato un “limite atto a circoscrivere l’ambito di operatività delle ipotesi di ricorso al contratto a termine individuate in sede collettiva”, così operando un “ingiustificato intervento riduttivo della portata della clausola collettiva”.

Con il terzo motivo la società, denunciando violazione degli artt. 1217 e 1233 c.c., lamenta che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto “conto della possibilità che il lavoratore abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente”, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

Premesso che nella fattispecie va applicato l’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso sentenza depositata in data successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 (cfr. fra le altre Cass. 24-3-2010 n. 7119, Cass. 16-12-2009 n. 26364), osserva il Collegio che il ricorso principale risulta inammissibile per mancanza dei quesiti di diritto imposti dalla detta norma.

L’art. 366 bis c.p.c., infatti, “nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi di ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione” (v. Cass. 25-2-2009 n. 4556).

In particolare il quesito di diritto, in sostanza, deve integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4- 2009 n. 8463) e “deve comprendere l’indicazione sia della “regola iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile” (v.

Cass. 30-9-2008 n. 24339).

Pertanto, come è stato più volte affermato da questa Corte e va qui nuovamente enunciato ex art. 384 c.p.c., “è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., il ricorso per cassazione nel quale l’illustrazione dei singoli motivi non sia accompagnata dalla formulazione di un esplicito quesito di diritto, tale da circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un rigetto del quesito formulato dalla parte” (v. Cass. S.U. 26-3- 2007 n. 7258, Cass. 7-11-2007 n. 23153), non potendo, peraltro, il quesito stesso desumersi dal contenuto del motivo, “poichè in un sistema processuale, che già prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata, la peculiarità del disposto di cui all’art. 366 bis c.p.c., consiste proprio nell’imposizione al patrocinante che redige il motivo, di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto e, quindi, al miglio esercizio della funzione nomofilattica della Corte di legittimità” (v. Cass. 24-7-2008 n. 2040, cfr. Cass. S.U. 10-9- 2009 n. 19444).

Orbene, nella fattispecie, la società, che pur ha illustrato i singoli motivi di ricorso, tutti riguardanti asserite violazioni di norme di diritto, non ha formulato alcun quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Il ricorso principale va pertanto dichiarato inammissibile, con conseguente inefficacia, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., del ricorso incidentale (tardivo) proposto dagli intimati.

Infine, in ragione della prevalente soccombenza, la società va condannata al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso principale e inefficace quello incidentale; condanna la società a pagare ai controricorrenti le spese, liquidate in Euro 58,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2011

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