Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7934 del 31/03/2010

Cassazione civile sez. I, 31/03/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 31/03/2010), n.7934

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31185/2006 proposto da:

P.M. (c.f. (OMISSIS)), in proprio e nella

qualità di legale rappresentante della Costruzioni Edili di Poiatti

Marinella & C. s.n.c. e di erede di B.L.,

elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA LIVIO ANDRONICO 24, presso l’avvocato

ROMAGNOLI ILARIA, rappresentata e difesa dall’avvocato ACHILLI

Massimo, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNITA’ MONTANA DEL SEBINO BRESCIANO;

– intimata –

sul ricorso 34798/2006 proposto da:

COMUNITA’ MONTANA DEL SEBINO BRESCIANO (P.I. e c.f. (OMISSIS)),

in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14, presso l’avvocato PAFUNDI GABRIELE, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BONOMI GIACOMO,

giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

P.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 644/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 12/07/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/12/2 009 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato MARIA TERESA LOIACONO ROMAGNOLI,

con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale;

udito, per la controricorrente e ricorrente incidentale, l’Avvocato

GABRIELE PAFUNDI che ha chiesto il rigetto del ricorso principale;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale

e per l’assorbimento dell’incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Brescia, dopo aver respinto la richiesta di P. M. diretta ad ottenere un provvedimento di urgenza per la restituzione di un terreno di sua proprietà ubicato in località (OMISSIS) (in catasto individuato dai mappali (OMISSIS)) per la realizzazione di un piano per insediamenti industriali (P.I.P.) adottato dalla Comunità montana del Sebino bresciano con Delib. 6 aprile 1989, con ordinanza del 4 novembre 1992, che ha acquistato efficacia di sentenza il 27 febbraio 1993, condannò detta Comunità per l’avvenuta occupazione espropriativa del terreno al risarcimento del danno in favore della proprietaria nella misura di Euro 449.525, – oltre all’indennità di occupazione dell’immobile determinata in Euro 139.618,60.

L’impugnazione della P. è stata respinta dalla Corte di appello di Brescia con sentenza del 12 luglio 2006, che ha osservato:

a) la dichiarazione di p.u. dell’opera da realizzare, consistente in un piano da destinare agli insediamenti produttivi (PIP) regolarmente approvato prima dal comune e poi dalla Regione, non era sottoposta alle disposizioni della L. n. 1 del 1978, ed in particolare alla sua inefficacia ove l’opera non abbia inizio nel triennio dalla dichiarazione medesima come disposto dall’art. 1, comma 3, perchè non si trattava di opera pubblica, ma di interesse pubblico; b) l’espropriazione, invece, era soggetta alla disposizione della L. n. 865 del 1971, art. 27, che disciplina i termini di validità ed efficacia della dichiarazione con riferimento ai suddetti interventi edilizi; che di fatto fu seguita dalla Comunità montana espropriante; c) a nulla, perciò, rilevava il richiamo alla L. n. 1 del 1978, contenuto nel decreto di occupazione di urgenza del terreno P., essendo decisivo per escludere l’occupazione usurpativa dalla stessa lamentata, il procedimento che per legge doveva essere seguito, e che di fatto era stato svolto dall’espropriante.

Per la cassazione della sentenza l’espropriata ha proposto ricorso per due motivi;cui resiste con controricorso la Comunità montana del sebino, la quale ha formulato, a sua volta ricorso incidentale, affidato a tre motivi.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi vanno, anzitutto riuniti, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., perchè proposti contro la medesima sentenza.

Con il primo motivo di quello principale, la ricorrente deducendo violazione della L. n. 1 del 1978, art. 1 e della L. n. 865 del 1971, art. 20, nonchè difetto di motivazione, censura la sentenza impugnata per avere limitato il proprio esame all’ambito di applicazione delle disposizioni contenute nel menzionato art. 1 con riguardo alle opere comprese in un P.I.P. senza considerare che la illegittimità della procedura ablativa discendeva invece dal successivo art. 3, nonchè dal decreto di occupazione di urgenza adottato dalla Comunità montana con provvedimento del 6 settembre 1991, il quale rinviava alle disposizioni della L. n. 1 del 1978, imponendo la seguente alternativa: o ritenere, come di fatto era avvenuto che il provvedimento richiamasse la procedura prevista da detta legge imponendo all’espropriante di recepirla. Ed allora doveva trovare applicazione la disposizione del 3 comma dell’art. 1 che sancisce l’inefficacia della dichiarazione di p.u. allorchè sia inutilmente decorso un triennio dalla dichiarazione medesima, senza che le opere siano iniziate: come era avvenuto nella fattispecie in cui le stesse erano state appaltate con deliberazione del 20 luglio 1993, perciò successiva alla scadenza del triennio dall’approvazione del P.I.P.. E dunque tardiva tanto nell’ipotesi in cui detta approvazione fosse ravvisabile nella Delib. 6 aprile 1989 della Comunità montana, che lo aveva adottato, che in quella in cui si facesse riferimento alla Delib. Giunta Regionale 12 giugno 1990, che lo aveva definitivamente approvato.

Ove, invece si fosse ritenuta inapplicabile all’espropriazione la L. n. 1 del 1978, perchè rivolta esclusivamente alla realizzazione di opere pubbliche, allora la circostanza che il decreto di occupazione era stato seguito e non preceduto dal verbale di consistenza, come consentito dall’art. 3 di detta legge, ne comportava l’invalidità inducendo a qualificare espropriativa o usurpativa l’ulteriore occupazione del proprio terreno; e perciò a disapplicare il decreto di espropriazione inutilmente emesso soltanto il 2 giugno 1995.

Con il secondo motivo, deducendo altre violazioni della medesima normativa si duole che la Corte di appello abbia ritenuto le disposizioni della L. n. 1 del 1978 applicabili soltanto alle opere pubbliche e non anche a quelle di interesse pubblico (fra cui gli interventi per gli insediamenti produttivi), in conformità ad un orientamento dei giudici amministrativi, senza considerare che detta ripartizione era stata prospettata a tutela del proprietario privato, per consentirne la partecipazione allo stato di consistenza dell’immobile in caso di occupazione temporanea e non in suo danno;

che la stessa era completamente superata anche per effetto delle recenti disposizioni comunitarie, e che comunque più non sussisteva nel nuovo T.U. appr. con D.P.R. n. 327 del 2001, ove le due categorie di opere sono sotto tutti i profili, completamente equiparate. Il ricorso è infondato.

Al riguardo il Collegio deve anzitutto premettere che tanto le parti quanto i giudici di merito hanno più volte invocato l’istituto dell’occupazione c.d. espropriativa, nonchè quella di diritto comune (nella prassi denominata usurpativa), indistintamente e promiscuamente, quasi che tra di essi sussistesse una mera differenza terminologica, salvo poi a richiamare gli effetti dell’uno o dell’altro a seconda dell’assunto sostenuto o della conclusione raggiunta.

Per cui la Corte deve ancora una volta ricordare la propria giurisprudenza, fermissima nel ritenere da decenni e fin dalle note decisioni delle Sezioni unite che hanno definito presupposti e confini dell’istituto (cfr. sent. 3940/1988; 3963/1989; 4619/1989;

1907/1997), che la c.d. occupazione espropriativa o acquisitiva resta del tutto distinta dal fenomeno, indiscriminato e generico dell’apprensione sine titulo per qualsivoglia ragione e fine (pur se di interesse collettivo) di un bene immobile altrui da parte della P.A.: essendo caratterizzata “quale suo indefettibile punto di partenza” da una dichiarazione di p.u. dell’opera realizzanda e “quale suo indefettibile punto di arrivo” dalla esecuzione dell’opera pubblica medesima, appartenente alla categoria dei beni demaniali o patrimoniali indisponibili; e perciò strettamente sottoposta al relativo regime pubblicistico che ne impedisce alla stessa amministrazione la dismissione e la restituzione del suolo all’originario proprietario.

A differenza di detto istituto che presuppone una dichiarazione di p.u. valida ed efficace, nonchè l’espropriazione dell’immobile seppure in modo non corrispondente allo schema procedimentale, di espropriazione non può più parlarsi nell’ipotesi in cui la dichiarazione di p.u. manchi del tutto, o sia radicalmente nulla, o sia divenuta inefficace per l’inutile scadenza dei termini finali previsti dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13, o di quello acceleratorio introdotto dalla L. n. 1 del 1978, art. 1: perchè in tal caso si versa nella diversa fattispecie di mero impiego, sia pure per fini pubblici, dell’immobile altrui materialmente appreso o dell’utilità da esso materialmente ritratta con continuata o reiterata compressione di fatto dell’altrui diritto dominicale (occupazione c.d. usurpativa), in conseguenza del quale l’occupazione rientra fra i comuni fatti illeciti permanenti disciplinati dall’art. 2043 cod. civ.. E non essendo ravvisabile in capo alla P.A. l’espressione di alcuna funzione amministrativa, il proprietario conserva e mantiene il proprio diritto dominicale sull’immobile, nonchè in via primaria, quello di chiederne la restituzione. E l’azione risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., è esperibile soltanto se (e solo perchè) egli per una propria scelta discrezionale rinunci ad ottenere il rilascio del bene e preferisca invece, abbandonarlo definitivamente all’occupante e conseguire in cambio la completa reintegrazione economica del pregiudizio sofferto (Cass. sez. un. 1907/1997 cit.; 1814/2000 e succ.).

Da questa distinzione consegue altresì: a) che siccome la dichiarazione di p.u. costituisce il necessario presupposto dell’espropriazione ed il procedimento di occupazione diviene una fase (successiva) di detta procedura, inserendosi anche cronologicamente tra la dichiarazione di p.u. ed il decreto di espropriazione, è ovvio che il decreto di occupazione resta inscindibilmente collegato alle vicende della dichiarazione senza la quale, dunque, non può sussistere; b) che, ripercuotendosi necessariamente su detto decreto le vicende del provvedimento contenente la dichiarazione di p.u. dell’opera, ove quest’ultima manchi o sopravvenga la sua decadenza, come si afferma essere avvenuto nel caso concreto, per lo spirare del termine triennale stabilito dalla L. n. 1 del 1978, art. 1, per il compimento delle espropriazioni e dei lavori, anche il provvedimento che autorizza l’occupazione dell’immobile privato ne resta travolto e deve, perciò, ritenersi affetto da carenza di potere; con il risultato avanti evidenziato che si è in presenza di un illecito comune di natura permanente ed usurpativa, a nulla perciò rilevando che l’immobile sia soltanto detenuto dall’ente occupante, ovvero inglobato in un’opera carente di detta dichiarazione; c) che per converso, i vizi e le vicende del decreto di occupazione temporanea, logicamente e cronologicamente successivo alla stessa non incidono sulla dichiarazione di p.u. (nè tanto meno sulla sua validità e vigenza); e pur se lo stesso sia divenuto inefficace o annullato dal giudice amministrativo, e l’immobile risulti egualmente trasformato nell’opera programmata dalla dichiarazione suddetta, la sola conseguenza è che se ne verifica appunto l’occupazione espropriativa; d) che conseguentemente nel medesimo procedimento non possono coesistere gli effetti di quest’ultimo istituto che presuppone sussistenza e vigenza della dichiarazione di p.u., nonchè quelli della c.d. occupazione usurpativa che invece la esclude, perciò non comportando alcun effetto traslativo nella titolarità dell’immobile: come invece ha prospettato la ricorrente che ha invocato nel contempo le note decisioni delle sezioni Unite (sent.

1464/1983, 3940/1988 ecc.) sull’occupazione acquisitiva e sull’irreversibile trasformazione del bene, nonchè gli effetti dell’occupazione usurpativa, fra cui il suo diritto all’integrale risarcimento del danno.

Pertanto ove costei con l’azione proposta ha inteso riferirsi alla prima, lamentando di aver subito la irreversibile trasformazione, nonchè l’espropriazione illegittima del suo terreno, come ha più volte dedotto nel ricorso, non ha più senso discutere dell’applicabilità alla procedura espropriativa intrapresa dalla Comunità montana del termine triennale previsto della L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 3, per l’inizio delle opere, della sua decorrenza (se dalla Delib. 6 aprile 1989 della Comunità montana, ovvero da provvedimenti successivi), nonchè del suo inutile spirare perchè detto termine, come risulta dallo stesso tenore letterale della norma, incide soltanto “sugli effetti della dichiarazione di p.u.” che la ricorrente per la stessa natura della domanda avanzata presuppone invece valida ed efficace; e non anche sulla successiva occupazione temporanea disposta con decreto presidenziale 6 settembre 1991.

D’altra parte, nel vigente ordinamento non convivono affatto due diverse tipologie di occupazione d’urgenza, l’una disciplinata dalla L. n. 865 del 1971, art. 20, definita dalla ricorrente normale, e l’altra dalla L. n. 1 del 1978, art. 3, definita “accelerata”, ma ne esiste (per quanto qui interessa) una soltanto: quella preordinata all’espropriazione introdotta dalla L. n. 2359 del 1865, artt. 71 e 72 e regolata quanto alla sequenza procedimentale nelle espropriazioni soggette alla L. n. 865 del 1971, come quella in esame, dalla normativa dell’art. 20, che ne subordina l’efficacia alla sola condizione (qui pacificamente osservata) che la materiale occupazione del terreno deve seguire nel termine di tre mesi dalla emanazione del decreto autorizzativo.

Con riguardo alla fase meramente esecutiva di esso, infine, la disposizione della L. n. 1 del 1978, art. 3, nell’intento di accelerarne il procedimento, ha introdotto specifiche disposizioni inerenti allo stato di consistenza ed all’immissione in possesso, che non attengono quindi alla sussistenza del potere di emettere il suddetto provvedimento ablatorio, bensì all’esercizio in concreto di detto potere. Per cui questa Corte ha ripetutamente avvertito che tutti i vizi inerenti alla regolarità di esecuzione di questo si ricollegano ad una posizione di mero interesse legittimo del proprietario; le cui violazioni devono necessariamente essere denunciate al giudice amministrativo e non consentono al giudice ordinario di disapplicarlo, come preteso dalla P. (Cass. sez. un. 5493/1994; 10957/1991; 7629/1987; Cons. St. Ad. plen. 1/1990). In conformità a questa disciplina, il decreto di occupazione 6 settembre 1991, seguito dalla regolare immissione in possesso dell’immobile in data (OMISSIS) (pag. 2 ric.) recava il termine massimo quinquennale previsto dal menzionato della L. n. 865, art. 20 (e non dalla L.R. n. 33 del 1981): non certamente in contrasto con quello triennale di cui alla L. n. 1 del 1978, art. 1, poichè quest’ultimo riguarda per quanto si è detto tutt’altra vicenda del procedimento, e cioè l’efficacia della dichiarazione di p.u.; mentre il termine della L. n. 865 del 1971, art. 20, comportava che l’occupazione del terreno P. era autorizzata per una durata massima di 5 anni a decorrere dal (OMISSIS): durante la quale conseguentemente l’attività compiuta sull’immobile – ivi compresa la sua irreversibile trasformazione – doveva considerarsi legittima perchè autorizzata dal titolo suddetto. Per cui del tutto correttamente la Corte di appello ha ritenuto che la detenzione del bene è stata interrotta dal decreto di espropriazione (OMISSIS), adottato prima dello spirare di detto termine, in tal modo impedendo il verificarsi dell’occupazione appropriativa:

configurabile soltanto se il termine suddetto fosse, invece, inutilmente decorso.

In realtà, la ricorrente fin dal ricorso 11 luglio 1994 ex art. 700 cod. proc. civ., rivolto al Tribunale di Brescia ed anche in questa sede di legittimità ha inteso denunciare (in aggiunta) l’inutile decorrenza nella fattispecie del termine triennale di cui al ricordato della L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 3, condizionante l’efficacia della dichiarazione di p.u.: e ciò sia che se ne ipotizzi la decorrenza dalla menzionata Delib. 6 aprile 1989, che dal provvedimento di approvazione del PIP in data 12 giugno 1990 da parte della Regione Lombardia, attesa la circostanza incontestata che le opere di urbanizzazione primaria erano state appaltate dopo la sua inutile scadenza, soltanto con Delib. Consiglio della Comunità 20 luglio 1993. Perciò, a nulla rilevando sotto tale profilo che la stessa abbia continuato contraddittoriamente a dedurre nel presente giudizio l’avvenuta occupazione acquisitiva dei suoi terreni, nonchè la loro espropriazione da parte della Comunità, ed i vizi del decreto di occupazione temporanea: poichè spetta al giudice ex art. 113 cod. proc. civ., il compito di individuare l’esatto istituto che si fonda sui presupposti suddetti.

In tale seconda ottica diviene decisivo ed assorbente esclusivamente il fatto che la stessa abbia invocato l’illegittima ingerenza in radice nel suo diritto di proprietà, in quanto non assistita neppure dalla dichiarazione di p.u., diventata inefficace al più tardi il 12 giugno 1993, – e comportante necessariamente l’invalidità derivata dei successivi provvedimenti di occupazione nonchè di espropriazione: perciò disapplicabili dal giudice ordinario (qualunque ne siano stati il contenuto e le successive operazioni di immissione in possesso).

Sennonchè anche questa prospettazione – che alla ricorrente farebbe peraltro perdere il diritto alla indennità di occupazione temporanea, inscindibilmente collegata (per quanto detto) alla perdurante efficacia delle menzionate deliberazioni del 1989 e del 1990 di adozione del PIP, contenenti la dichiarazione di p.u.- è priva di qualsiasi consistenza.

Dalla normativa della L. n. 865 del 1971, art. 27, e da quella della L. n. 167 del 1962, art. 8, e segg., cui la prima rinvia, infatti, la giurisprudenza ordinaria e quella amministrativa hanno tratto i seguenti principi: 1) Il piano delle aree da destinare ad insediamenti produttivi costituisce strumento facoltativo di pianificazione territoriale introdotto dalla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 27, al fine di consentire ai comuni di acquisire aree per insediamenti di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico nell’ambito delle zone all’uopo destinate dallo strumento urbanistico generale; per cui spetta a questi ultimi adottarlo, delimitando tra l’altro le aree da ricomprendere nel piano, nell’ambito delle zone destinate ad insediamenti produttivi dai piani regolatori generali o dai piani di fabbricazione; e compiendo la relativa istruttoria; 2) La stessa norma dispone che i piani di insediamenti produttivi devono essere realizzati con procedimento conforme a quello stabilito (specie per approvazione e pubblicità) per i piani di zona; e perciò sottoposti a quello specifico predisposto dalla menzionata L. n. 167 del 1962, che prevede tra l’altro che il piano sia dapprima pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, quindi depositato nella segreteria comunale a libera visione del pubblico; ed infine che dell’eseguito deposito sia dato avviso, con atto notificato nella forma delle citazioni, a ciascun proprietario degli immobili compresi nel piano, entro venti giorni dalla inserzione nella Gazzetta Ufficiale; 3) Ultimato il procedimento, lo stesso è trasmesso al Presidente della Giunta Regionale per la sua approvazione; che costituisce dunque un atto autonomo e distinto dall’adozione, di competenza di altro ente:così come d’altra parte confermano della L.R. Lombardia 33 del 1981, artt. 8 e 9, l’ultimo dei quali conclude che soltanto l’approvazione dei progetti esecutivi di cui all’artìcolo precedente da parte della Giunta regionale “equivale a dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza degli interventi previsti dai medesimi progetti”. 4) Il comma 3 del menzionato art. 27, dispone, infine, che “il piano approvato ai sensi del presente articolo ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d’esecuzione ai sensi della L. 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni”: perciò inducendo questa Corte ed i giudici amministrativi ad affermare che lo stesso equivalendo a dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste, abilita il sindaco, nel decennio di efficacia del piano medesimo, a disporre l’occupazione d’urgenza e la espropriazione dei fondi occorrenti per la loro realizzazione (Cass. sez. un. 8960/1987;

nonchè 9891/2007; 19128/2006; 5874/2004; Cons. St. 1982/2006;

6055/2004; 5310/2000; 478/1997).

Da questa normativa discende anzitutto che tutti i provvedimenti del comune di Pisogne (30 gennaio ed 8 agosto 1989) e della Comunità montana del Sebino (6 aprile 1989), indicati dalla P. attengono esclusivamente alla fase dell’adozione del P.I.P. e non ineriscono alla dichiarazione di p.u. che esso comporta; la quale invece è conseguita ex lege unicamente alla Delib. 12 giugno 1990 del Presidente della Giunta della Regione Lombardia.

E tuttavia detta dichiarazione è specificamente disciplinata dalle ricordate disposizioni della L. n. 865 del 1971, art. 27 e della L. n. 167 del 1962, art. 9, nonchè per la Regione Lombardia da quelle della L.R. n. 33 del 1981, e la relativa disciplina non risulta compatibile con quella contenuta nella L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 3; e ciò non solo e non tanto perchè quest’ultima debba essere riferita alle opere pubbliche in senso stretto (Cons. St.

901/2005; 4451/2003; 6223/2000), ma perchè la disposizione è inclusa nell’ambito di un’intera normativa che si riferisce esclusivamente ai singoli progetti di opere pubbliche approvati secondo le modalità di detta legge: e perciò non comprende interventi più complessi e ad essa estranei, quali i piani di zona o quelli destinati ad insediamenti industriali per i quali è predisposta una diversa e più articolata regolamentazione: anche per la loro natura di provvedimenti a duplice effetto, in quanto costituenti ad un tempo approvazione di variante allo strumento urbanistico fondamentale o di secondo livello (Piano regolatore generale o Piano di fabbricazione) ed approvazione di piano attuativo di terzo livello (v. L. n. 167 del 1962, art. 8; L. n. 865 del 1971, art. 33, L. n. 10 del 1977, artt. 2 e 13).

Il che del resto trova conferma proprio nella L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 5, a seguito delle sostituzioni apportate dalla L. n. 415 del 1988, art. 4, il quale per l’approvazione di varanti agli strumenti urbanistici, allorchè le aree interessate dal progetto siano destinate a servizi diversi da quelli delle opere progettate, rinvia “alle modalità previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 167, art. 6, e segg., e succ. modif.”: con ciò stesso ribadendo per il resto la diversità fra i due procedimenti ed il loro regime.

E tale diversa disciplina investe tra l’altro proprio i termini cui è subordinata l’efficacia della dichiarazione di p.u., avendo la giurisprudenza ripetutamente enunciato quanto ai progetti di cui alla L. n. 1 del 1978 – il principio che il termine acceleratorio di cui al comma 3 dell’art. 1, non sostituisce nè assorbe alcuno dei termini per l’esecuzione dei lavori e delle espropriazioni richiesti dalla L. n. 2359 del 1865, art. 13 – che dunque devono essere comunque fissati dall’amministrazione espropriante nello stesso provvedimento di approvazione del progetto, equivalente secondo il comma 1 a dichiarazione di p.u., pena la giuridica inesistenza o radicale nullità del provvedimento. Laddove tanto la giurisprudenza di questa Corte, quanto la giurisprudenza amministrativa sono assolutamente consolidate nel ritenere che nei piani di zona, nonchè in quelli destinati ad insediamenti produttivi non è necessaria l’apposizione preventiva dei termini in questione (Cass. sez. un. 15379/2009; nonchè 4027/2009, 13493/2002) tessendo la stessa ravvisabile proprio nelle disposizioni legislative concernenti l’approvazione del piano (L. n. 167 del 1962; L. n. 865 del 1971; L. n. 247 del 1974), aventi efficacia di provvedimento dichiarativo della pubblica utilità, ove il termine legale di validità del piano rappresenta nel contempo il termine ultimo entro il quale devono essere compiute le espropriazioni ed ultimati i lavori. Le quali, dunque, a seguito di una valutazione discrezionale anche della complessità e della inscindibilità dell’intervento edilizio da realizzare, hanno ritenuto di sostituire alle indicazioni separate di ciascun termine richieste dall’art. 13, nonchè a quello acceleratorio per cui è causa, la prefissione di un termine unico, indicato dalla stessa legge e decorrente dalla data di approvazione del piano, entro il quale ogni attività deve essere compiuta; e la garanzia del diritto del proprietario viene avanzata comunque dalla limitazione temporale imposta ex lege, all’atto di programmazione urbanistica, cui necessariamente si commisura l’estensione temporale dell’efficacia della conseguente procedura ablatoria iniziata in concreto (normalmente) con il provvedimento di approvazione del progetto.

Naturalmente nulla preclude all’autorità che li ha emanati o a quelle incaricate della loro attuazione di indicare immediatamente ovvero nei successivi provvedimenti di localizzazione e di esecuzione delle singole opere termini meno ampi e più appropriati alle espropriazioni ed ai lavori da realizzare nel caso concreto: come ha fatto la Comunità montana con Delib. 17 gennaio 1991, n. 22, ricordata da entrambe le parti; con la conseguenza che in tal caso l’amministrazione espropriante resta soggetta a tale più riduttiva predeterminazione e che alla loro scadenza più non le è consentito invocare il più elevato termine massimo indicato.

Ma da nessuno dei provvedimenti menzionati dalle parti risulta che l’ente si sia assoggettato al termine di cui alla L. n. 1 del 1978, art. 1, comma 3; e tale sottoposizione non può ricavarsi dal decreto di occupazione temporanea, trascritto dalla P., il quale contiene il rinvio esclusivamente alla procedura acceleratoria di cui al successivo art. 3, relativa alla sola esecuzione del provvedimento suddetto, che consente la redazione del verbale di consistenza contestualmente a quello di immissione in possesso: senza alcuna interferenza con la precedente fase relativa alla dichiarazione di p.u. – nel caso esaurita da oltre un anno con la menzionata Delib.

Giunta Regionale del 1990 – significativamente disciplinata dal precedente art. 1 che solo con un’inammissibile confusione concettuale potrebbe essere applicata al regime del successivo provvedimento di occupazione, e per di più alla sua mera esecuzione.

Anche sotto questo profilo il ricorso principale deve essere respinto, con conseguente assorbimento di quello incidentale subordinato alla condizione non verificatasi del suo accoglimento.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, rigetta il principale ed assorbito l’incidentale condanna la P. al pagamento delle spese processuali che liquida in favore della Comunità montana in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 3.000,00 per onorario di difesa, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2010

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