Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7929 del 31/03/2010

Cassazione civile sez. II, 31/03/2010, (ud. 17/12/2009, dep. 31/03/2010), n.7929

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21386/2006 proposto da:

COMUNE CORANA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA POLONIA 7, presso lo studio dell’avvocato

BARTOCCI Valerio, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato COLUCCI MARTINO;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA PAVIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CLAUDIO

MONTEVERDI 20, presso lo studio dell’avvocato CODACCI PISANELLI

Alfredo, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MAGGIANI VALERIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 895/2005 del TRIBUNALE di PAVIA, depositata il

20/12/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

17/12/2009 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito l’Avvocato PIZZI con delega depositata in udienza dell’Avvocato

COLUCCI Martino, difensore del ricorrente che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato CODACCI PISANELLI Alfredo, difensore del resistente

che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARESTIA Antonietta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

2^ motivo e dell’opposizione nel merito.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 20 dicembre 2005 il tribunale di Pavia respingeva l’opposizione all’ordinanza ingiunzione della Provincia di Pavia con la quale era stato intimato il pagamento di Euro 5.164,56 al comune di Corana per una violazione in materia ambientale. La sentenza impugnata negava la illegittimità del provvedimento per mancata contestazione agli obbligati in solido – Sindaco e Comune – ritenendo sufficienti le modalità di notifica usate. Quanto alla sussistenza della violazione, relativa all’autorizzazione allo scarico della fognatura comunale, il tribunale affermava che l’autorizzazione doveva essere richiesta entro quattro anni, termine inderogabile che era stato superato.

Il comune opponente ha proposto ricorso per cassazione notificato il 4 luglio 2006, affidandosi a due motivi. La Provincia di Pavia ha resistito con controricorso. La causa, inizialmente trattata con rito camerale, è stata chiamata all’udienza del 2 dicembre 2008 e rimessa a pubblica udienza. In vista delle udienze sono state depositate memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La vicenda nasce con l’approvazione della L. 17 maggio 1995, n. 172 di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 17 marzo 1995, n. 79, recante modifiche alla disciplina degli scarichi delle pubbliche fognature e degli insediamenti civili che non recapitano in pubbliche fognature. L’art. 7 comma 1 di detta legge prevede che “Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto le autorità competenti provvedono al riesame delle autorizzazioni allo scarico, con priorità per quelle provvisorie rilasciate in forma tacita ai sensi della L. 10 maggio 1976, n. 319, art. 15. Le autorizzazioni devono essere rinnovate ogni quattro anni.” La Provincia di Pavia ha sanzionato il comune opponente (nonchè altri comuni della provincia) sulla base di verbale dell'(OMISSIS), con il quale si accertava che, decorsi quattro anni dall’entrata in vigore della legge, non era stata rinnovata l’autorizzazione allo scarico della fognatura comunale.

Il comune opponente ha invano sostenuto davanti al tribunale di Pavia che i quattro anni decorrevano solo dalla data di effettivo riesame della vecchia autorizzazione (eventualmente anche posteriore ai sei mesi di legge) o in subordine dopo il decorso del suddetto termine dilatorio di sei mesi previsto per il riesame delle autorizzazioni già esistenti.

Con il secondo motivo di ricorso il Comune ripropone detta tesi. Ad essa il tribunale ha opposto che l’inciso “Le autorizzazioni devono essere rinnovate ogni quattro anni” e in particolare l’uso della voce verbale “devono” implicano il carattere perentorio del termine quadriennale.

La censura è fondata quanto alla ipotesi subordinata prospettata dall’ente. Il giudice di prime cure, come rileva il ricorso, si è soffermato sulla seconda parte del comma riportato e ha assunto come inderogabile il termine dei quattro anni. Nello stabilire la decorrenza di questo termine, il giudicante ha però trascurato la prima parte del capoverso, che prevede il termine di sei mesi per il riesame delle autorizzazioni esistenti, come pacificamente è quella in esame. Orbene, la previsione di questo tempo per il primo riesame delle autorizzazioni esistenti ha per conseguenza, ad avviso del Collegio, che nei primi sei mesi non avrebbe avuto senso – nè possibilità di dispiegarsi una richiesta di rinnovo dell’autorizzazione, giacchè d’ufficio l’amministrazione concedente era in quel tempo vincolata alla valutazione delle autorizzazioni già esistenti. Ne discende che, rimasti in esercizio gli scarichi preesistenti, il rinnovo quadriennale dell’autorizzazione doveva esser chiesto a partire dalla scadenza dei sei mesi di comporto. In ricorso si sottolinea che non solo la ratio testè esposta, ma anche la tecnica normativa milita in tal senso. L’inciso relativo alla richiesta di rinnovo non è stato infatti collocato in posizione distinta rispetto alla previsione della fase iniziale di riesame delle autorizzazioni, ma proprio a conclusione del comma, onde segnare visibilmente il nesso tra l’uno e l’altro adempimento, il primo incombente sulla Provincia, l’altro sui soggetti autorizzati.

Dal punto di vista letterale la lettura anzidetta vale anche a disattendere l’ipotesi principale formulata in ricorso, secondo la quale il termine non avrebbe iniziato la sua decorrenza fino al momento dell’effettivo primo riesame da parte della Provincia. Tale interpretazione non appare convincente, sia perchè farebbe saltare il nesso tra termine iniziale dilatorio e termine periodico di cui si è detto, sia soprattutto perchè comporterebbe un illogico protrarsi a tempo indeterminato delle vecchie autorizzazioni, rilasciate sulla base della normativa previgente.

Ciò contrasterebbe vistosamente con l’interesse pubblico presidiato dalla norma, la quale impone di rinnovare ogni quattro anni le autorizzazioni esistenti. Detta norma può subire una ragionevole deroga nella misura massima di sei mesi espressamente prevista dalla stessa legge per l’espletamento delle verifiche iniziali, ma, superato detto termine, impone al soggetto che esercita l’attività soggetta ad autorizzazione di attivarsi per il rinnovo espressamente previsto. Il tutto in ossequio anche al principio di collaborazione all’esercizio dell’attività amministrativa. Si verrebbe altrimenti a configurare una sorta di implicito silenzio assenso alla continuazione dell’esercizio dell’impianto fognario, pur in presenza di una precisa limitazione posta dalla norma di azione che limita a soli sei mesi il tempo utile per il riesame delle pratiche esistenti.

In ogni caso l’interpretazione accolta vale a porre nel nulla la pretesa sanzionatoria, che è stata azionata prima del decorso di quattro anni e sei mesi dall’entrata in vigore della L. n. 172. Si può far luogo con decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., all’annullamento dell’atto impugnato.

2) Quanto al primo motivo di ricorso, relativo all’illegittimità della contestazione della violazione perchè rivolta con unico atto al Sindaco e al Comune, la doglianza dell’ente, secondo il quale la contestazione era idonea allo scopo soltanto nei confronti del Sindaco, trasgressore al quale l’atto era stato rivolto, è inammissibile.

Il rigetto dell’opposizione sul punto era stato motivato dal tribunale non solo con argomentazioni, peraltro plausibili, relative alla validità dell’unico atto a raggiungere il duplice obbiettivo, ma anche in forza di una seconda ratio decidendi. La sentenza impugnata aveva infatti rilevato che l’atto aveva comunque raggiunto lo scopo cui era destinato e per questa ragione ne aveva “ad ogni buon conto” ritenuto la legittimità “sotto questo profilo”. Questa ratio non è stata impugnata, sicchè l’eventuale accoglimento della censura avverso la prima ragione posta a fondamento del rigetto del motivo non raggiungerebbe alcun esito.

Si fa luogo alla condanna di parte soccombente alla refusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, annulla il provvedimento impugnato. Condanna parte resistente al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 1.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 17 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2010

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