Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7919 del 20/04/2020

Cassazione civile sez. I, 20/04/2020, (ud. 22/11/2019, dep. 20/04/2020), n.7919

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3991/2016 proposto da:

C.M., elettivamente domiciliato in Roma, Lungotevere

della Vittoria n. 9, presso lo studio dell’avvocato Arieta Giovanni,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Ricci

Albergotti Gian Franco, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Cr.Il., in proprio e nella qualità di socia accomandataria

di Futura s.a.s. di Cr.Il., elettivamente domiciliata in

Roma, Piazza Mazzini n. 27, presso lo studio dell’avvocato Rosati

Benedetta, rappresentata e difesa dall’avvocato Cesaroni Massimo,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1381/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

pubblicata il 22/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2019 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi primo

e secondo, assorbiti i restanti che si intendono respinti.

Rimessione al giudice del rinvio;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Alessandro Arieta, con delega

scritta, che si riporta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con citazione notificata il 24 ottobre 2006 Cr.Il., in proprio e quale socia accomandataria di Futura s.a.s., proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Firenze su ricorso di C.M.; con tale decreto era stato intimato ad essa attrice il pagamento della somma di Euro 322.400,00 a titolo di restituzione di un finanziamento erogato in favore di Futura s.a.s.. L’ingiunta assumeva, per quanto qui ancora rileva, che i versamenti effettuati dall’opposto non erano riconducibili allo schema del mutuo, ma costituivano conferimenti atipici in conto capitale, come tali non rimborsabili se non all’esito della liquidazione finale della società.

Nella resistenza dell’opposto, il Tribunale fiorentino rigettava l’opposizione al decreto ingiuntivo.

2. – Interposto gravame, la Corte di appello di Firenze dichiarava la nullità della sentenza per omessa sottoscrizione della stessa da parte del presidente del collegio e rimetteva gli atti al giudice di primo grado.

3. – Il Tribunale, avanti al quale la causa era riassunta, rendeva pronuncia conforme, nel merito, a quella già dichiarata nulla e rigettava, pertanto, l’opposizione a decreto ingiuntivo.

4. – Anche tale sentenza era appellata da Cr.Il.. Con sentenza del 22 luglio 2015 la Corte di Firenze, in esito al giudizio di gravame, in cui si era costituito C.M., riformava la sentenza di primo grado e revocava il decreto ingiuntivo opposto.

Riteneva il giudice distrettuale che le risultanze processuali non consentissero di ritenere soddisfatto l’onere probatorio incombente sull’appellato, che aveva domandato la restituzione di versamenti assumendo che gli stessi avessero titolo in un contratto di finanziamento. Rilevava in particolare che Futura s.a.s. era società a controllo familiare costituita tra marito e moglie all’unico scopo di intestarsi la proprietà dell’unità immobiliare scelta per ampliare lo studio professionale di C.. Il capitale sociale della società, pari a Euro 2.000,00, era però assolutamente incongruo allo scopo e nessun terzo finanziatore avrebbe mai provvisto la società di dotazioni finanziarie maggiori senza garanzie patrimoniali adeguate; al contempo, spiegava la Corte di merito, la società, una volta investita la somma ricevuta nell’acquisto dell’immobile, non sarebbe stata in grado di restituire la stessa se non rivendendo il cespite, con ciò rinnegando il proprio unico scopo. Ne desumeva che l’appellato, eseguendo i versamenti in rapida successione subito dopo la costituzione della società per fronteggiare le esigenze connesse all’operazione immobiliare progettata, era ben conscio di imprimere ai fondi una destinazione economica praticamente irreversibile e che, inoltre, la costituzione della società, senza un apporto finanziario proporzionato al programma di acquisto, sarebbe stata priva di senso. Aggiungeva la Corte territoriale che non si ravvisava alcun dato alla stregua del quale ritenere che l’erogazione degli importi pretesi avesse titolo in un mutuo. Rilevava, poi, che tale ricostruzione non era sconfessata dalla registrazione contabile delle rimesse, dal momento che i soci non desideravano un’espressa imputazione a capitale “anche se quella era la loro effettiva volontà negoziale, altrimenti avrebbero deliberato in maniera conforme fin dall’atto costitutivo”, giacchè la costituzione di una società con Euro 2.000,00 di capitale per condurre a un’operazione di Euro 300.000,00 – 400.000,00 “reca(va) ab origine una divaricazione tra la forma contabile e la sostanza giuridica della dotazione finanziaria proveniente dai soci, che peraltro trova(va) una spiegazione fiscale abbastanza trasparente”. Il giudice del gravame negava, poi, che le annotazioni contabili fatte valere da C. ex art. 2709 c.c., avessero valore confessorio: infatti, la registrazione di versamenti in conto finanziamento soci era compatibile con le due contrapposte tesi e, oltretutto, la confessione poteva riguardare fatti – nella specie pacifici quanto al dato della confluenza dei fondi nelle casse sociali – e non la valutazione dei medesimi. Infine la Corte rilevava che l’apporto di capitale poteva configurarsi anche nel caso di esecuzione di conferimenti in proporzione diseguale tra i soci; oltre a rilevare che l’aumento di capitale può essere sottoscritto soltanto da alcuni soci, il giudice distrettuale osservava come nella fattispecie andasse considerato che l’operazione si inseriva in un progetto di vita comune tra i coniugi che andava oltre i confini della partecipazione societaria (chè, diversamente, C. non avrebbe neanche consentito la nomina della moglie quale accomandataria, ponendola nella condizione di gestire la proprietà di una porzione del suo studio professionale). Per la stessa ragione – concludeva la Corte – risultava ridimensionata, nella sua rilevanza, la circostanza per cui i soci mancarono di deliberare un aumento di capitale: rilevava, infatti, che non ve ne era la necessità, dovendosi dar corso a un semplice versamento in conto futuro aumento di capitale.

3. – C. ha impugnato per cassazione la sentenza facendo valere sei motivi di censura illustrati da memoria. Cr.Il. resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.. Rileva il ricorrente che due circostanze poste dalla Corte di appello a fondamento del ragionamento presuntivo risultavano prive dei requisiti della gravità e della precisione. In particolare, il fatto che il capitale iniziale fosse esiguo e non sufficiente per l’acquisto dell’unità immobiliare non imponeva, quale conseguenza necessitata, che le ulteriori erogazioni pecuniarie fatte alla società avessero natura di conferimento di capitale sociale. L’affermazione, poi, per cui la natura di finanziamento delle erogazioni risultava esclusa dal fatto che nessun terzo avrebbe finanziato la società senza adeguate garanzie, non poteva valere per il socio, tanto più ove la società avesse, come nel caso in esame, natura familiare: in altri termini, la mancanza di garanzie in un rapporto familiare non sarebbe indizio che consenta di escludere il finanziamento di uno dei soci.

Il motivo va disatteso.

La sentenza impugnata non afferma che l’esiguità del capitale versato imponesse di ritenere che lo scopo sociale fosse realizzabile solo con ulteriori conferimenti e non con semplici finanziamenti. E nemmeno esclude dal novero delle mere possibilità l’erogazione, da parte del socio, di un finanziamento non assistito da garanzie (ciò che anzi sicuramente ammette: diversamente non si sarebbe data pena di spiegare le ragioni per cui, nella circostanza, una tale operazione non venne concretamente posta in essere). Vero è, invece, che la Corte di appello ha preso in considerazione un insieme di elementi – tra cui la scarsa dotazione finanziaria della società rispetto agli scopi che si prefiggeva e l’impossibilità di ottenere finanziamenti da terzi senza il rilascio di garanzie – per pervenire alla conclusione che C. “era ben conscio di imprimere ai fondi una destinazione economica praticamente irreversibile”. Tra tali elementi il ricorrente omette di considerarne alcuni (come la rapida successione dei versamenti, effettuati per fronteggiare le esigenze dell’operazione e il diretto coinvolgimento del socio accomandante – che aveva sottoscritto il contratto preliminare di acquisto prima ancora della costituzione di Futura s.a.s. – nell’acquisizione immobiliare in cui si esauriva la missione sociale). Ma l’istante trascura, soprattutto, l’importante affermazione della Corte di merito per cui “la società, dopo avere investito nell’immobile i denari forniti dai soci, non sarebbe mai stata in grado di restituirli, se non rivendendo il cespite immobiliare, ma rinnegando con questo il proprio unico scopo”. In conclusione, la Corte di merito svolge un articolato ragionamento con cui spiega perchè, nella contingenza descritta, i versamenti operati da C. (che sopperivano alla insufficiente dotazione patrimoniale della società, che non potevano essere surrogati da apporti di terzi, che furono eseguiti in un ristretto arco di tempo per consentire l’esecuzione di un’operazione che interessava lo stesso ricorrente – il quale ebbe a gestire in prima persona l’operazione – e che, appunto, non era realisticamente ipotizzare fossero restituiti) costituissero apporti di capitale e non finanziamenti suscettibili di rimborso prima della liquidazione della società.

Il ricorrente si arresta a un esame parcellizzato – oltretutto non pienamente rispondente a quanto enunciato in sentenza – del portato inferenziale (asseritamente non significante) di alcuni degli elementi selezionati dalla Corte di appello, omettendo di considerare, nella sua interezza, il percorso logico seguito da questa. Ma tale percorso è pienamente conforme al diritto: infatti il giudice del merito non può prescindere da una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi (Cass. 12 aprile 2018, n. 9059; Cass. 2 marzo 2017, n. 5374).

2. – Il secondo motivo lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2 e art. 1371 c.c.. Sostiene l’istante che il giudice distrettuale avrebbe trascurato il dato dell’iscrizione in bilancio delle erogazioni rilevando come la natura del versamento ben possa essere ricavata, sul piano interpretativo, dalla terminologia adottata nel detto documento, che è soggetto all’approvazione dei soci: questi, infatti, attraverso la detta approvazione, attribuiscono evidenza alla loro comune intenzione circa la qualificazione da dare all’erogazione del socio in favore della società. Nella specie, poi, ulteriori elementi rilevanti sul piano ermeneutico avrebbero dovuto desumersi dalle scritture contabili, che del pari attestavano la presenza di finanziamenti da parte di esso ricorrente, e dalla scheda contabile della società, che era stata prodotta fin dalla fase monitoria, e che conteneva annotazioni della medesima natura: tali documenti, al pari dei bilanci, erano del resto stati redatti dalla controparte, quale socio accomandatario, ed era stata pertanto la medesima a operarne la qualificazione. L’istante rileva, inoltre, che dal bilancio della società risultava un capitale sociale di Euro 2.000,00: sostiene, al riguardo, che, se i versamenti eseguiti fossero stati imputati in conto capitale si sarebbe dovuto constatare una variazione del capitale sociale. Sostiene ancora il ricorrente che nell’attribuire ai versamenti da lui eseguiti la natura di conferimenti la Corte di appello avrebbe mancato di assicurare l’equo contemperamento degli interessi delle parti voluto dall’art. 1371 c.c..

Il terzo motivo oppone la violazione o falsa applicazione dall’art. 2697 c.c.. Partendo dal rilievo per cui, in caso di dubbio sulla natura giuridica di un versamento fatto dal socio, il criterio determinante è quello del modo della iscrizione della posta in bilancio, l’istante rileva come nel bilancio del 2005 le rimesse da lui eseguite erano state annotate tra i finanziamenti. Doveva quindi ritenersi provato che tale era la reale natura dei versamenti da lui eseguiti.

I due motivi, da scrutinarsi insieme, sono infondati.

L’erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale” (o altre simili denominazioni). Tale ultimo contributo non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residual claimant (Cass. 9 dicembre 2015, n. 24861; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2758). La qualificazione, nell’uno o nell’altro senso, dipende dall’esame della volontà negoziale delle parti, dovendo trarsi la relativa prova, di cui è onerato il socio attore in restituzione, non tanto dalla denominazione dell’erogazione contenuta nelle scritture contabili della società, quanto dal modo in cui il rapporto è stato attuato in concreto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi (Cass. 8 giugno 2018, n. 15035; Cass. 23 marzo 2017, n. 7471; Cass. 3 dicembre 2014, n. 25585; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2758 cit., ove i richiami a Cass. 30 marzo 2007, n. 7980 e a Cass. 6 luglio 2001 n. 9209). Solo ove manchi una chiara manifestazione di volontà, la qualificazione dell’erogazione può essere desunta dalla terminologia adottata nel bilancio (Cass. 8 giugno 2018, n. 15035 cit.; Cass. 23 marzo 2017, n. 7471 cit.; Cass. 13 agosto 2008, n. 21563).

Ora, la Corte di appello ha spiegato, come si è visto, le ragioni per cui, a suo avviso, i versamenti operati dovessero essere qualificati come apporti di capitale di rischio. L’evidenza contabile di erogazioni in conto finanziamento soci è stata argomentata dal giudice del gravame avendo riguardo a ragioni di carattere fiscale: la Corte di merito ha valorizzato, in particolare, quanto dedotto dalla stessa difesa di C. in comparsa conclusionale: a fronte di veri e propri conferimenti il ricorrente, per fruire del bene, avrebbe dovuto pagare alla società un canone di locazione senza poter compensare il credito per interessi nascenti dal finanziamento e, al contempo, Futura avrebbe generato utili tassabili, non assorbiti da oneri sul debito contratto dal socio. Tale passaggio motivazionale – occorre aggiungere – non risulta nemmeno censurato.

D’altro canto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito (Cass. 26 maggio 2016, n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465), nè le censure vertenti sull’interpretazione del negozio possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).

Sfuggono, in tal senso, al sindacato di questa Corte le deduzioni basate sulla redazione dei documenti contabili da parte del socio accomandante: peraltro, il giudice di appello ha rilevato non potesse configurarsi alcuna confessione della parte con riguardo a tale profilo e il ricorrente non ha svolto, sul punto, specifica censura in diritto.

Allo stesso modo, non può qui dibattersi del valore della mancata annotazione, nel bilancio al 31 dicembre 2005, di una variazione del capitale sociale: anche tale questione inerisce all’accertamento di fatto devoluto al giudice del merito, il quale ha osservato come il dato del mancato aumento del capitale fosse non significativo, tenuto conto, per un verso, dei rapporti familiari esistenti tra le parti e, per altro verso, del fatto che una Delibera in tal senso era comunque “strutturalmente non necessaria in vista di un semplice versamento in conto di futuro aumento di capitale”. Con tali considerazioni l’istante mostra, tra l’altro, di non misurarsi, giacchè non le sottopone ad alcuna puntuale critica, nemmeno sul versante del vizio motivazionale.

Nè C. può dolersi di una impropria applicazione della disciplina in tema di riparto dell’onere probatorio. Infatti, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107): nel caso in esame una tale violazione non si configura, in quanto il valore che assumono le voci impiegate per indicare i versamenti in bilancio è, come si è visto, meramente residuale e, nella fattispecie, la Corte di appello ha ritenuto assorbenti altri argomenti.

Non ha infine fondamento la doglianza imperniata sul disposto dell’art. 1371 c.c.: e ciò in quanto, come noto, le regole legali di ermeneutica contrattuale sono governate da un principio di gerarchia, in forza del quale i criteri degli artt. 1362 e 1363 c.c., prevalgono su quelli integrativi degli artt. 1365-1371 c.c., posto che la determinazione oggettiva del significato da attribuire alla dichiarazione non ha ragion d’essere quando la ricerca soggettiva conduca ad un utile risultato ovvero escluda da sola che le parti abbiano posto in essere un determinato rapporto giuridico (Cass. 24 gennaio 2012, n. 925; Cass. 22 marzo 2010, n. 6852).

3. – Col quarto motivo è lamentata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2252 c.c. e art. 2300 c.c., comma 2. Osserva l’istante che per poter qualificare i versamenti come conferimenti in conto capitale era necessario il consenso dei soci, che avrebbe dovuto risultare dagli atti. Di contro, non era stata fornita alcuna prova di tale consenso.

Il motivo è inammissibile.

La questione, che richiede un accertamento di fatto, è ignorata dalla Corte di appello e il ricorrente non chiarisce se e come sia stata dedotta nel giudizio di merito. Ove una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (per tutte: Cass. 24 gennaio 2019, n. 2038).

4. – Il quinto mezzo censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 2253 c.c., comma 1. Vi si deduce che, essendo C. e Cu. soci al 50% della società, i versamenti operati dal primo, ove qualificati come conferimenti, non avrebbero consentito di sfuggire alla seguente alternativa: o la quota di partecipazione di esso C. doveva essere aumentata rispetto all’indicata proporzione; ovvero la controricorrente doveva dimostrare di aver eseguito conferimenti di valore equivalente agli apporti del marito. Poichè la misura della partecipazione sociale non era mutata (tanto che nella visura camerale del 29 maggio 2006, di un anno successiva ai versamenti, non vi era menzione di una modificazione delle quote sociali), gli esborsi effettuati dal ricorrente non potevano essere considerati come versamenti in conto capitale.

Il motivo è inammissibile.

Esso non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata. Se, infatti – come accertato dalla Corte di appello – l’evidenza contabile dei finanziamenti, a fronte di veri e propri apporti di capitale di rischio, è priva di rilievo ai fini che qui interessano, trovando giustificazione solo sul piano della convenienza fiscale, non ha senso postulare che la contabilità di Futura dovesse dar ragione dell’aumento della partecipazione sociale di C. o dell’effettuazione, da parte di Cr.Il., di conferimenti di pari ammontare a quelli eseguiti dal marito. La possibilità di riscontrare registrazioni di tale contenuto è infatti implicitamente negata dalla conclusione cui è pervenuto il giudice del gravame: l’aver C. voluto porre in atto conferimenti facendoli però figurare – per le indicate ragioni di opportunità -come finanziamenti.

5. – Con il sesto motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1. Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata abbia trascurato di considerare come l’odierna controricorrente non avesse mai contestato i documenti consistenti nel bilancio della società al 31 dicembre 2005 nel libro giornale della società relativo allo stesso anno e nella scheda contabile di Futura s.a.s.. In particolare, Cr.Il. aveva mancato di spiegare come mai nei suddetti documenti le erogazioni del socio fossero qualificati finanziamenti e per quale ragione, inoltre, la voce “capitale” riportata nel bilancio fosse rimasta quella iniziale di Euro 2.000,00 nonostante i versamenti eseguiti.

Il motivo non può essere accolto.

Il richiamo all’art. 115 c.p.c., comma 1, è improprio, in quanto la norma, nella versione presa in considerazione dal ricorrente (quella modificata dalla L. n. 69 del 2009, art. 45), non è applicabile alla presente causa.

Ciò non significa, però, che, prima di tale intervento legislativo, la mancata contestazione fosse priva di rilievo.

In particolare, per la giurisprudenza formatasi sul testo dell’art. 167 c.p.c., novellato dalla L. n. 353 del 1990 (ma anche sulla scorta degli insegnamenti di Cass. Sez. U. 23 gennaio 2002, n. 761), il difetto di contestazione implica l’ammissione in giudizio solo dei fatti cosiddetti principali, ossia costitutivi del diritto azionato, mentre la non contestazione dei fatti cosiddetti secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, consente al giudice di utilizzare la mancata contestazione come argomento di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2 (per tutte: Cass. 2 ottobre 2015, n. 19709; Cass. 27 febbraio 2008, n. 5191).

Poichè, nella specie, si controverte delle risultanze documentate dalle scritture contabili prodotte dall’attrice, si è in un ambito processuale che – diversamente da quello in cui si collocano l’allegazione e la contestazione dei fatti costitutivi della pretesa – è sottratto all’esclusiva disponibilità delle parti; in tale ambito la non contestazione rileva come comportamento non vincolante per il giudice, dallo stesso per l’appunto apprezzabile nei termini appena indicati (cfr., in termini generali, sul tema, Cass. Sez. U. 23 gennaio 2002, n. 761 cit.). Il dato della mancata contestazione, da parte della controricorrente, del contenuto delle annotazioni in cui compariva la voce “finanziamenti” è, dunque, in sè privo di decisività: e infatti la Corte di appello l’ha superato chiarendo come, a monte, fosse irrilevante la prova documentale di cui qui si dibatte, giacchè essa non era rappresentativa della reale intenzione delle parti e trovava il proprio fondamento giustificativo nelle richiamate ragioni di natura fiscale.

6. – Il ricorso è in conclusione rigettato.

7. – Le spese seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 22 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2020

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