Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7884 del 03/04/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 7884 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 6101-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585 – Società con socio unico in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale
rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO,
che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente contro
CRASTOLLA GIOVANNA, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO
GALLEANO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del
controricorso;

– controricorrente –

Data pubblicazione: 03/04/2014

avverso la sentenza n. 694/2011 della CORTE D’APPELLO di
ROMA del 25/1/2011, depositata il 25/02/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente

“Con ricorso al Giudice del lavoro di Roma, Giovanna Crastolla
chiedeva che fosse dichiarato nullo il termine apposto al contratto a
tempo determinato con il quale era stata assunta alle dipendenze
di Poste Italiane s.p.a., stipulati ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94,
come integrato dall’accordo sindacale 25/9/97, per il periodo
9/3/2000-31/5/2000 («esigenze eccezionali conseguenti alla fase di
ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in
corso….»). Il Tribunale rigettava la domanda. La decisione veniva
riformata dalla Corte di appello di Roma che, con sentenza n.
694/2011, riteneva legittima l’apposizione del termine al contratti
impugnato e l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato ancora in corso, con condanna della società al
pagamento, in favore della lavoratrice delle retribuzioni maturate dalla
messa in mora e fino alla effettiva riammissione in servizio.
Avverso questa sentenza Poste Italiane propone ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste la Crastolla con
controricorso.
I motivi proposti dalla soc. Poste si riassumono come segue.
Violazione dell’art. 1372, comma 1, cod. civ., artt. 1175, 1375,
2697, 1427 e 1431 civ. civ. e art. 100 cod. proc. civ., per avere la Corte
di appello erroneamente escluso che il rapporto di lavoro fra le parti si
fosse comunque estinto per implicito mutuo consenso (primo motivo).

Ric. 2012 n. 06101 sez. ML – ud. 18-02-2014
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contenuto:

Violazione della legge n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 del c.c.n.l.
26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97, nonché degli accordi
successivi 16/1/98, 27/4/98, 2/7/98, 24/5/88 e 18/1/01, in
connessione con l’art. 1362 cod. civ. in relazione all’interpretazione
accolta dal giudice di merito dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94 e

particolare, il giudice di merito non avrebbe considerato che gli accordi
successivi a quello del 25/9/97 erano ricognitivi delle condizioni
legittimanti in fatto il ricorso al contratto a termine, senza circoscrivere
il ricorso a tale strumento solo al periodo temporale indicato (secondo
motivo).
Omessa ed insufficiente motivazione in quanto il giudice di merito
non avrebbe esposto in modo idoneo le ragioni che porrebbero in
rapporto il contratto collettivo del 1994, l’accordo sindacale del
25/9/97 ed i successivi accordi attuativi in relazione al limite
temporale cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine (terzo
motivo).
Violazione della legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32. Lamenta la
mancata applicazione da parte della Corte territoriale dello

ius

superveniens e in particolare della previsione, con efficacia retroattiva,
del pagamento di un’indennità omnicomprensiva in caso di illegittimo
ricorso al contratto a termine (quarto motivo).
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Come questa Corte ha più volte affermato <> (v. Cass.
10 novembre 2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17

2010, n. 23319, 11 marzo 2011 n. 5887, 4 agosto 2011 n. 16932). La
mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine,
quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro,
che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle
quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre
definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2
dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010,
n. 2279).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile
2012, n. 5782, <>.
In ogni caso, la valutazione del comportamento tenuto dalle parti e
di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita di
volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di

non sussistono vizi logici o errori di diritto.
Orbene, nel caso in esame, la Corte di appello ha rilevato che la
società, processualmente a tanto onerata, avesse affidato la prova della
dedotta intervenuta risoluzione per mutuo consenso al mero decorso
del tempo tra la cessazione del rapporto a termine e la rivendicazione
dei suoi diritti e, dunque, che non avesse fornito altri elementi utili a
rappresentare la disaffezione della lavoratrice (tale non potendo
ritenersi lo svolgimento di un altro rapporto di lavoro a termine, per
un breve lasso di tempo, che non è di per sé espressione di una tacita
rinuncia a coltivare il diritto ad far accertare l’illegittimità del termine
apposto al precedente contratto a temine intercorso con la società
Poste Italiane).
Trattasi di considerazioni di merito corrette sul piano giuridico e
congruamente motivate, come tale non censurabili sul piano logico.
Il secondo e terzo motivo sono manifestamente infondati in forza
della giurisprudenza di questa Corte, la quale ritiene che la legge 28
febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione
collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie
tassativamente previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, nonché
dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, conv. dalla legge 15 marzo
1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del
rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a
favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati
Ric. 2012 n. 06101 sez. ML – ud. 18-02-2014
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merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se

all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe
a quelle previste per legge (v. Cass. Sez. Un. 2 marzo 2006, n. 4588).
Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato,
quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo
integrativo del 25/9/97, la giurisprudenza ritiene corretta

attuativo, sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo
del 16/1/98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano
convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31/1/98 (e poi in base
al secondo accordo attuativo, fino al 30/4/98), della situazione di fatto
integrante le esigente eccezionali menzionate dal detto accordo
integrativo. Consegue che per far fronte alle esigenze derivanti da tale
situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad
assunzione di personale straordinario con contratto tempo e che
l’esistenza di dette esigenze costituisse presupposto essenziale della
pattuizione negoziale; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità
dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di
presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti collettive
avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed
avevano successivamente stipulato accordi attuativi che
avevano posto un limite temporale alla possibilità di procedere con
assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31/1/98 e
successivamente al 30/4/98, l’indicazione di tale causale
nel contratto a termine legittima l’assunzione solo ove il contratto
scada in data non successiva al 30/4/98 (v., exp/urimis, Cass. 23 agosto
2006, n. 18378).
La giurisprudenza di questa Corte ha, altresì, ritenuto corretta, nella
ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di
merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18/1/01 in quanto stipulato
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l’interpretazione dei giudici che, con riferimento al distinto accordo

dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il
diritto del soggetto si era già perfezionato. Ammesso che le parti
avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi
precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni
a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25/9/97 (scaduto

conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già
perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il
potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica
(previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la
disciplina nel d.lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la
stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n.
5141).
Conseguentemente i contratti scadenti (o comunque stipulati) al
di fuori del limite temporale del 30/4/98 sono illegittimi in quanto non
rientranti nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla legge 28
febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva
che consente la deroga alla legge n. 230 del 1962. Essendo nella specie
il contratto stipulato per «esigenze eccezionali ecc….» per il periodo
9/3/2000-31/5/2000, i due motivi debbono essere rigettati.
Il quarto motivo è fondato.
Va, al riguardo, precisato che i principi della rilevabilità, anche
d’ufficio, dello ius superveniens e della sua applicabilità nei giudizi in
corso non operano indiscriminatamente, ma devono essere coordinati
con quelli che regolano l’onere dell’impugnazione e le relative
preclusimi, con la conseguenza che la loro operatività trova ostacolo
nel giudicato interno formatosi in relazioni alle questioni, sulla
decisione delle quali avrebbe dovuto incidere la normativa
Ric. 2012 n. 06101 sez. ML – ud. 18-02-2014
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in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque

sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di controversie in atto
sui relativi punti.
Nel caso in questione, essendo stata la società Poste Italiane
totalmente vittoriosa nel giudizio di primo grado, è da escludersi che si
fosse formato il giudicato ostativo all’applicazione dello ius superveniens

sentenza 11 novembre 2011, n. 303 – la norma di cui all’art. 32 della
legge n. 183/2010 non viola alcun precetto costituzionale. La Corte ha
riconosciuto, inoltre, legittimo il comma 7, che prevede che la
disposizione si applichi, retroattivamente, a tutti i giudizi in corso,
anche di cassazione.
Non vi era, dunque, alcuna preclusione sulla questione del quantum
né alcuna ragione validamente spendibile in favore della non
applicabilità di detto ius superveniens.
Per tutto quanto sopra considerato, si propone raccoglimento

dell’ultimo motivo di ricorso con conseguente cassazione, con rinvio
(nell’impossibilità di provvedere in questa sede alle valutazioni di fatto
richieste dall’applicazione della norma sopravvenuta), anche per le
spese di questo giudizio, ad altro giudice, il tutto con ordinanza, ai
sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le
considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto
condivisibili, siccome coerenti con l’ormai consolidata giurisprudenza
di legittimità in materia.
Quanto ai rilievi della controricorrente di cui alla memoria
depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., va innanzitutto
osservato che, come già precisato da questa Corte (v. Cass. 29 febbraio
2012, n. 3056), l’indennità in esame “configura, alla luce
dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte Costituzionale con
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nel corso del giudizio di appello. Secondo la Corte Costituzionale –

sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale ex lege a carico del datore
di lavoro che ha apposto il termine nullo, ed è liquidata dal giudice, nei
limiti e con i criteri fissati dal citato art. 32 (che richiama i criteri
indicati nell’art. 8 1. 604/1966), a prescindere dall’intervenuta
costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno

e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo
cosiddetto intermedio (dalla scadenza del termine alla sentenza di
conversione del rapporto)”.
In senso conforme a quanto già affermato dalla Corte
costituzionale e da questa Corte di legittimità è stata poi emanata la
legge n. 92 del 28/6/2012 (in G.U. n. 153 del 3/7/2012), che all’art. 1
comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica, ha così
disposto: “La disposizione di cui al comma 5 dell’art. 32 della legge 4
novembre 2010, a 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi
prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese
le conseguenze retributive e contributive relative al periodo k
compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del
provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione
del rapporto di lavoro”.
La controricorrente ha posto la questione della illegittimità
costituzionale dell’art. 32 (come autenticamente interpretato) per
asserita violazione degli artt. 3 e 38 della Costituzione.
Tale questione appare, però, manifestamente infondata alla luce di
quanto precisato, sul punto, da questa Corte nella recente decisione del
6 febbraio 2014 n. 2760 con la quale è stato innanzitutto escluso che la
norma di portata retroattiva abbia (irragionevolmente) disposto di
diritti retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, già entrati nel
patrimonio del lavoratore (essendo tale efficacia retroattiva limitata a
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effettivamente subito dal lavoratore, trattandosi di indennità fodètivata

quelle situazioni in cui, in ordine ai diritti derivanti al lavoratore dalla
nullità della clausola di apposizione del termine – con conseguente
conversione del rapporto a tempo indeterminato -, non si è ancora
formato il giudicato). Nella suddetta decisione, inoltre, è stato
evidenziato che la norma interpretativa non ha inteso realizzare una

scopo d’influenzare la risoluzione di controversie, posto che, in realtà,
ha fatto propria una soluzione già adottata dalla giurisprudenza della
Corte costituzionale (cfr. exp/urirnis, Corte costituzionale n. 257/2011
che ha precisato, in termini generali, che sussiste lo spazio per un
intervento del legislatore con efficacia retroattiva – fermi i limiti di cui
all’art. 25 Cost. – considerato che all’art. 6 della CEDU, la Corte di
Strasburgo non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del
legislatore e, nello specifico, chiarito che la finalità di superare un
conclamato contrasto di giurisprudenza, essendo diretta a perseguire
un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto,
è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento
interpretativo del legislatore; si veda anche Corte costituzionale, n.
303/2011 che ha ritenuto la ragionevolezza della norma cha introdotto
la forfetizzazione del danno, come tale inerente a quei diritti retributivi
e previdenziali di cui qui si eccepisce l’ingiustificato sacrificio, siccome
“nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei
contrapposti interessi”); la stessa norma interpretativa, inoltre,
costituisce disposizione di carattere generale, che, al pari di quelle di
cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183/10, non favorisce
selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica),
perché le controversie su cui essa è destinata ad incidere non hanno
specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro precario alle dipendenze
di soggetti pubblici, ma tutti i ma tutti i rapporti di lavoro subordinato
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illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo

a termine.
Non sussistono ragioni per discostarsi dal suddetto orientamento.
Quanto, infine, al rilievo della pendenza innanzi alla Corte
costituzionale di questione di legittimità dell’art. 32 cit., va osservato
che l’esito del giudizio di costituzionalità potrà essere preso in esame

Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod.
proc. civ. per la definizione camerale del processo.
3 – Va, pertanto, accolto l’ultimo motivo di ricorso mentre gli altri
vanno rigettati; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo
accolto, con rinvio (nell’impossibilità di provvedere in questa sede alle
valutazioni di fatto richieste dall’applicazione della norma
sopravvenuta), anche per le spese di questo giudizio, alla Corte di
appello di Roma, in diversa composizione, che valuterà, alla luce dei
criteri dettati dalla legge 183/2010, quale debba essere la misura
dell’indennità da liquidarsi.

P.Q.M.
La Corte accoglie l’ultimo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa
la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche
per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di
Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 febbraio 2014.

anche dal giudice del rinvio.

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