Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7882 del 03/04/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 7882 Anno 2014
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 20256-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. 97103880585, – società con socio unico, in
persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE
MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO,
che la rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente contro
RICCI IOLE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21,
presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO, che la rappresenta
e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controticorrente avverso la sentenza n. 3554/2010 della CORTE D’APPELLO di
ROMA del 20/04/2010, depositata il 10/08/2010;

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Data pubblicazione: 03/04/2014

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18/02/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
“Con ricorso al Giudice del lavoro di Roma, Iole Ricci chiedeva

determinato con i quali era stata assunta alle dipendenze di Poste
Italiane s.p.a., stipulati ai sensi dell’art. 8 del c.c.n.l. 26/11/94, come
integrato dall’accordo sindacale 25/9/97 per i periodi 24/3/199830/4/1998 (prorogato fino al 30/5/1998) e 1/6/1999-30/9/1999 per
«esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e
rimodulazione degli assetti occupazionali in corso …». Il Tribunale
rigettava la domanda. La decisione veniva riformata dalla Corte di
appello di Roma che, con sentenza n. 3554/2010, accoglieva il ricorso
ritenendo l’illegittimità del termine apposto al secondo dei contratti
impugnati (1/6/1999-30/9/1999) e l’esistenza tra le parti di un
rapporto di lavoro a tempo indeterminato ancora in atto, con
condanna della società al pagamento, in favore dell’appellante, delle
retribuzioni maturate dal 15/9/2005 e fino alla effettiva riammissione
in servizio.
Avverso questa sentenza Poste Italiane propone ricorso per
cassazione affidato a cinque motivi, cui resiste la Ricci con
controricorso.
I motivi proposti dalla soc. Poste si riassumono come segue.
Erronea, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto
decisivo della controversia (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Osserva la
ricorrente che la Corte territoriale ha erroneamente trascurato di
considerare che la risoluzione consensuale dei rapporti di lavoro era
resa palese dal contegno di prolungata ed ininterrotta inerzia assunto
Ric. 2011 n. 20256 sez. ML – ud. 18-02-2014
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che fosse dichiarato nullo il termine apposto ai contratti a tempo

dopo la scadenza dei contratti a termine, nonché dall’instaurazione di
nuovi rapporti di lavoro (primo motivo).
Violazione della legge n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 8 del c.c.n.l.
26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97, nonché degli accordi
successivi 16/1/98, 27/4/98, 2/7/98, 24/5/88 e 18/1/01, in

all’interpretazione accolta dal giudice di merito dell’art. 8 del c.c.n.l.
26/11/94 e dell’accordo integrativo 25/9/97. In particolare, il giudice
di merito non avrebbe considerato che gli accordi successivi a quello
del 25/9/97 erano ricognitivi delle condizioni legittimanti in fatto il
ricorso al contratto a termine, senza circoscrivere il ricorso a tale
strumento solo al periodo temporale indicato (secondo motivo).
Omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). in quanto il
giudice di merito non avrebbe esposto in modo idoneo le ragioni
che porrebbero in rapporto il contratto collettivo del 1994, l’accordo
sindacale del 25/9/97 ed i successivi accordi attuativi in relazione al
limite temporale cui sarebbero subordinate le assunzioni
a termine (terzo motivo).
Violazione dell’art. 1206 cod. civ., e segg., artt. 2094, 2099 e 2697
cod. civ., in quanto il giudice di merito avrebbe contravvenuto ai
principi di diritto secondo cui dalla nullità del termine non consegue la
prosecuzione dell’obbligo retributivo del datore di lavoro, in mancanza
della prestazione lavorativa, e che la richiesta di reintegrazione
nel posto di lavoro non implica di per sé un’offerta della prestazione ai
fini della messa in mora del datore di lavoro. Lamenta anche la
mancata considerazione dell’ aliunde percotum e della relative richieste
probatorie (quarto motivo).

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connessione con gli artt. 1362 e segg. cod. civ., in relazione

Il motivo è integrato dalla deduzione dello jus superveniens
rappresentato dalla legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 32 e in
particolare dalla previsione, con efficacia retroattiva, del pagamento di
un’indennità omnicomprensiva in caso di illegittimo ricorso
al contratto a termine (quinto motivo).

Come questa Corte ha più volte affermato <> (v. Cass.
10 novembre 2008, n. 26935, id. 28 settembre 2007, n. 20390, 17
dicembre 2004, n. 23554, nonché più di recente Cass. 18 novembre
2010, n. 23319, 11 marzo 2011 n. 5887, 4 agosto 2011 n. 16932). La
mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine,
quindi, è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso mentre grava sul datore di lavoro,
che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle
quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre
definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. anche Cass. 2
dicembre 2002, n. 17070 e, fra le altre, da ultimo Cass. 1 febbraio 2010,
n. 2279).
Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. 12 aprile
2012, n. 5782, <>.
In ogni caso, la valutazione del comportamento tenuto dalle parti e
di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita di
volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di
merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se
non sussistono vizi logici o errori di diritto.
Orbene, nel caso in esame, si evince dalla sentenza impugnata che
la Corte di appello ha sostanzialmente ritenuto che la società,
processualmente a tanto onerata, avesse affidato la prova della dedotta
intervenuta risoluzione per mutuo consenso al mero decorso del
tempo tra la cessazione del rapporto a termine e la rivendicazione dei
suoi diritti e, dunque, che non avesse fornito altri elementi utili a
rappresentare la disaffezione della lavoratrice.
Trattasi di considerazioni di merito corrette sul piano giuridico e
congruamente motivate, come tale non censurabili sul piano logico.

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indicative di un intento risolutorio né l’accettazione del t.f.r. né la

Del resto non si evince dal presente ricorso in quali termini la
documentazione reddituale acquisita d’ufficio dalla Corte territoriale
abbia formato oggetto di specifiche deduzioni difensive da parte della
società ed in ogni caso, per quanto già sopra evidenziato, va esclusa
l’automatica rilevanza, ai fini dell’integrazione di una risoluzione per

o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause
diverse dalle dimissioni.
Il secondo ed il terzo motivo sono manifestamente infondati in
forza della giurisprudenza di questa Corte, la quale ritiene che la legge
28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione
collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie
tassativamente previste dalla legge 18 aprile 1962, n. 230, art. 1, nonché
dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, conv. dalla legge 15 marzo
1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del
rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a
favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati
all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe
a quelle previste per legge (v. Cass. Sez. Un. 2 marzo 2006, n. 4588).
Dato che in forza di tale delega le parti sindacali hanno individuato,
quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui all’accordo
integrativo del 25/9/97, la giurisprudenza ritiene corretta
l’interpretazione dei giudici che, con riferimento al distinto accordo
attuativo, sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo
del 16/1/98, ha ritenuto che con tali accordi le parti abbiano
convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31/1/98 (e poi in base
al secondo accordo attuativo, fino al 30/4/98), della situazione di fatto
integrante le esigenze eccezionali menzionate dal detto accordo
integrativo. Consegue che per far fronte alle esigenze derivanti da tale
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mutuo consenso, della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi

situazione l’impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad
assunzione di personale straordinario con contratto tempo e che
l’esistenza di dette esigenze costituisse presupposto essenziale della
pattuizione negoziale; da ciò deriva che deve escludersi la legittimità
dei contratti a termine stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di

avevano raggiunto originariamente un’intesa priva di termine ed
avevano successivamente stipulato accordi attuativi che
avevano posto un limite temporale alla possibilità di procedere con
assunzioni a termine, fissato inizialmente al 31/1/98 e
successivamente al 30/4/98, l’indicazione di tale causale
nel contratto a termine legittima l’assunzione solo ove il contratto
scada in data non successiva al 30/4/98 (v., exp/taimis, Cass. 23 agosto
2006, n. 18378).
La giurisprudenza di questa Corte ha, altresì, ritenuto corretta, nella
ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di
merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo 18/1/01 in quanto stipulato
dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il
diritto del soggetto si era già perfezionato. Ammesso che le parti
avessero espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi
precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni
a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25/9/97 (scaduto
in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque
conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già
perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il
potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica
(previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la
disciplina nel d.lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la
stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della
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presupposto normativo. In altre parole, dato che le parti collettive

durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004, n.
5141).
Conseguentemente i contratti scadenti (o comunque stipulati) al
di fuori del limite temporale del 30/4/98 sono illegittimi in quanto non
rientranti nel complesso legislativo-collettivo costituito dalla legge 28

che consente la deroga alla legge n. 230 del 1962. Essendo nella specie
il contratto stipulato per “esigenze eccezionali ecc….” per il periodo
1/6/1999-30/6/1999, i due motivi debbono essere rigettati.
Quanto alle ulteriori doglianze, va rilevato che la necessità di
applicazione dello jus superveniens costituito dalla legge 4 novembre
2010, n. 183 è assorbente rispetto alle censure di cui al quarto motivo
(ai fini della cui ammissibilità indubbiamente rileva, a prescindere dalla
sua fondatezza, la censura come sopra riassunta).
E’ stato da questa Corte ritenuto che tale disciplina, costituente
nuova regolazione del rapporto controverso, sia applicabile ai giudizi
pendenti in grado di legittimità, a condizione che la Corte sia al
riguardo investita da un valido e pertinente motivo di impugnazione (v.
Cass. 28 gennaio 2011, n. 2112; id. 31/1/2012, n. 140; 2 marzo 2012,
n. 3305; 26 luglio 2012, n. 13351), in ragione della natura del controllo
di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso
(cfr. Cass. 8 maggio 2006, n. 10547 e 27 febbraio 2004, n. 4070). Tale
condizione è realizzata nel caso di specie.
Per tutto quanto sopra considerato, si propone l’accoglimento
dell’ultimo motivo di ricorso con conseguente cassazione, con rinvio
(nell’impossibilità di provvedere in questa sede alle valutazioni di fatto
richieste dall’applicazione della norma sopravvenuta), anche per le
spese di questo giudizio, ad altro giudice, il tutto con ordinanza, ai
sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
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febbraio 1987, n. 56, art. 23 e dalla successiva legislazione collettiva

2 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le
considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto
condivisibili, siccome coerenti con l’ormai consolidata giurisprudenza
di legittimità in materia.
Quanto ai rilievi della controricorrente di cui alla memoria

richiedere, in sede di legittimità, l’applicazione delljus supeveniens
costituito dalla legge n. 183 del 2010 (entrata in vigore successivamente
alla pronuncia), occorre l’esistenza di un motivo di ricorso che abbia,
come nella specie, investito le conseguenze patrimoniali dell’accertata
nullità del termine.
Si osserva, poi, che, come già precisato da questa Corte (v. Cass. 29
febbraio 2012, n. 3056), l’indennità in esame “configura, alla luce
dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale ex lege a carico del datore
di lavoro che ha apposto il termine nullo, ed è liquidata dal giudice, nei
limiti e con i criteri fissati dal citato art. 32 (che richiama i criteri
indicati nell’art. 8 1. 604/1966), a prescindere dall’intervenuta
costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno
effettivamente subito dal lavoratore, trattandosi di indennità fod-etizzata
e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo
cosiddetto intermedio (dalla scadenza del termine alla sentenza di
conversione del rapporto)”.
In senso conforme a quanto già affermato dalla Corte
costituzionale e da questa Corte di legittimità è stata poi emanata la
legge n. 92 del 28/6/2012 (in G.U. n. 153 del 3/7/2012), che all’art. 1
comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica, ha così
disposto: “La disposizione di cui al comma 5 dell’art. 32 della legge 4
novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi
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depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., va ribadito che per

prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese
le conseguenze retributive e contributive relative al periodo 6
compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del
provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione
del rapporto di lavoro”.

Corte di Giustizia Europea (causa C-361/12 – Carratù) ha posto la
questione della disapplicazione dell’art. 32 (come autenticamente
interpretato) per contrarietà alla Direttiva CE n. 70/99 (clausola 4
punto 1 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e clausola
8 punto 1) in quanto si tratterebbe di norma capace di determinare una
drastica riduzione (rispetto alla normativa previgente) dell’indennità
risarcitoria nei casi di conversione del rapporto laddove la lettura
combinata delle indicate clausole legittimerebbe, per i lavoratori che si
trovino in situazioni comparabili, solo la possibilità di introdurre
disposizioni più favorevoli.
La questione non è fondata.
Si osserva, al riguardo, che la Corte di Giustizia nella sentenza
citata ha innanzitutto precisato che la scelta dello Stato italiano di
prevedere, per l’ipotesi dei contratto a termine illegittimo, un regime
risarcitorio diverso e meno favorevole rispetto a quello applicato in
caso di licenziamento illegittimo, non contrasta con il diritto
comunitario.
Inoltre, con l’art. 32, il legislatore non ha stabilito una
parametrazione del risarcimento in misura diversa ed inferiore rispetto
ad analoga parametrazione del sistema previgente, tale da consentire
un raffronto teorico ai fini di una valutazione in termini di drastica
riduzione. Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, infatti, in
relazione alla scadenza del contratto a termine operavano le sanzioni
Ric. 2011 n. 20256 sez. ML – ud. 18-02-2014
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La controricorrente, prendendo spunto dalla recente sentenza della

tipiche previste dall’ordinamento che si ricollegano all’applicazione
delle regole generali civilistiche collegate alla nullità della clausola
appositiva del termine, alla conversione del rapporto

ex tune in

rapporto a tempo indeterminato ed alla mora del datore di lavoro.
L’introduzione di una indennità comunque dovuta a prescindere da un

un minimo ed un massimo (tenendo conto del vantaggio per il
lavoratore derivante dal mantenimento della regola di «conversione»),
non è, dunque, automaticamente ovvero necessariamente meno
favorevole rispetto ad un sistema in cui la liquidazione del risarcimento
andava effettuata caso per caso dal giudice anche mediante il ricorso a
presunzioni semplici sull’ aliunde perceptum e percipiendurn.
Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod.
proc. civ. per la definizione camerale del processo.
3 – Va, pertanto, accolto l’ultimo motivo di ricorso mentre gli altri
vanno rigettati; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo
accolto, con rinvio (nell’impossibilità di provvedere in questa sede alle
valutazioni di fatto richieste dall’applicazione della norma
sopravvenuta), anche per le spese di questo giudizio, alla Corte di
appello di Roma, in diversa composizione, che valuterà, alla luce dei
criteri dettati dalla legge 183/2010, quale debba essere la misura
dell’indennità da liquidarsi.

P.Q.M.
La Corte accoglie l’ultimo motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa
la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche
per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di
Roma, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 febbraio 2014.

danno effettivo ed i cui limiti sono stati parametrati dal legislatore tra

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