Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7853 del 16/04/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/04/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 16/04/2020), n.7853

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10152-2016 proposto da:

V.E., V.M.L., elettivamente domiciliati in

ROMA, ENNIO QUIRINO VISCONTI 103, presso lo studio dell’avvocato

MARCELLO IZZO, rappresentati e difesi dall’avvocato GENNARO TORRESE;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO PROVINCIALE DI NAPOLI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 11312/2015 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 14/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/01/2020 dal Consigliere Dott.ssa CAPRIOLI MAURA.

Fatto

Ritenuto che:

Con sentenza nr 11312/2015 la CTR di Napoli accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la pronuncia della CTP di Napoli con cui era stato accolto il ricorso promosso da V.E., V.C. e V.M.L. nei riguardi dell’avviso di rettifica del classamento relativi a diversi immobili di proprietà delle contribuenti siti in Massa Lubrense.

Il Giudice di appello rilevava la correttezza dell’operato dell’Amministrazione finanziaria la quale aveva depositato un elenco di vari immobili ricadenti nella stessa zona in cui si trovavano quelli delle contribuenti ed ai quali era stata attribuita la classe 7.

Riteneva pertanto che fossero stati individuati gli elementi oggettivi della categoria, della classe e della rendita in conformità al dettato normativo e che fossero stati valutati i caratteri tipologici e costruttivi dei beni in questione comparando tali ehementi con quelli di altri immobili aventi le stesse caratteristiche.

Il Giudice di appello considerava dunque conetta l’attribuzione della classe 7 che rappresentava la classe ordinaria nella zona.

Osservava poi che l’esistenza di altre unità nello stesso stabile in cui sono ubicati gli immobili oggetto della rettifica era dovuto alla mancata revisione nell’arco temporale di 12 mesi.

Avverso tale sentenza V.E., V.C. e V.M.L. propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Nessuno si è costituito per l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

Considerato che:

Con il primo motivo le ricorrenti censurano la decisione nella parte in cui aveva ritenuto adeguatamente motivato il diverso classamento.

Criticano, in particolare, la valutazione espressa sul punto dalla CTR sostenendo che nell’atto di rettifica non sarebbero in alcun modo illustrate le ragioni che hanno indotto l’amministrazione a pervenire ad un diverso classamento rispetto a quello proposto con procedura Docfa.

Con un secondo motivo denunciano l’assenza di adeguati riscontri probatori in merito all’esistenza dei presupposti per l’attribuzione di un diverso e più oneroso classamento degli immobili oggetto del giudizio.

Osservano che gli immobili in questione sono costituiti da locali terranei ad uso deposito di attrezzi agricoli, ubicati in zone periferiche rispetto all’abitato in area a prevalente vocazione e destinazione agricola.

Criticano la motivazione fornita dalla CTR ritenendola inesistente o quantomeno illogica sostenendo che l’unico parametro utilizzato è rappresentato dal classamento attribuito ad altri immobili ricadenti nella zona senza dare peso al fatto che per altri beni situati nello stesso stabile il classamento è diverso e quindi l’ingiusta disparità fiscale.

Il primo motivo è inammissibile o comunque infondato.

Giova in primo luogo ricordare che, l’art. 366 c.p.c., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma-contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso.

Il motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 o 4, deve contenere l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate (come espressamente prescritto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 4); il che implica la necessità che il ricorrente esamini il contenuto precettivo di ciascuna delle norme di cui denunzia la violazione. Non è consentita la nuda elencazione di articoli di legge che si sostiene essere stati violati, senza che nel corpo del motivo – ne sia considerato il contenuto precettivo (cfr. Cass., Sez. 6-5, 15/01/2015, n. 635).

Deve ritenersi chè, ove il motivo non contenqa gli elementi appena illustrati, in coerenza con quanto previsto dall’art. 360 bis c.p.c., lo stesso sarà non specifico, inidoneo al raggiungimento dello scopo e, dunque, inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4.

Difetta perciò di specificità un motivo che si limiti a denunciare la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, senza prendere chiaramente in esame il contenuto precettivo delle norme che si assumono violate, lette alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza della Corte; oppure un motivo che, pur tenendo conto di tale giurisprudenza, non si curi però di raffrontare con essa la ratio decidendi della decisione impugnata; oppure un motivo che, pur avendo operato tale raffronto, all’esito del quale risulti che la sentenza impugnata ha deciso in modo conforme alla giurisprudenza della Corte, ometta poi del tutto di offrire argomenti per contrastarla.

In tutti questi casi, il motivo formula critiche non intellegibili, perchè non consente di comprendere in cosa risieda il preteso errore di diritto del giudice a quo, in cosa consista la denunciata violazione della legge sostanziale o processuale. Il motivo, pertanto, dovrà essere dichiarato inammissibile per difetto di specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, risultando esso inidoneo (con riferimento a quanto preteso dall’art. 360 bis c.p.c., n. 1) al raggiungimento del suo scopo, quello di ottenere la cassazione della decisione impugnata.

“Quando nel ricorso per cassazione è denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità” (Cass., Sez. 3, 16/01/2007, n. 828; Cass., Sez. 6-5, 15/01/2015, n. 635).

Ora nel caso di specie le ricorrenti non indicano le norme che si assumono violate dalla CTR ma si limitano a censurare la valutazione espressa dalla CTR in relazione all’avviso di accertamento con il richiamo ad un precedente di questa Corte di cui non colgono l’esatta portata.

Tale pronuncia in linea con gli indirizzi successivi ha messo in risalto che nel caso di procedura DOCFA l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento è soddisfatto con la mera indicazione dei dat oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal cortribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso (Cass. 32191/2019; Cass. n. 31809 del 2018, n. 23237 del 2014, n. 21532 del 2013). Nel primo caso, infatti, gli elementi di fatto indicati nella dichiarazione presentata dal contribuente non disattesi dall’Ufficio risultano immutati, di tal che la discrasia tra la rendita proposta e la rendita attribuita si riduce ad una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati. In simili ipotesi risulta evidente che la presenza e la adeguatezza della motivazione rilevino, non già ai fini della legittimità dell’atto, ma della concreta attendibilità del giudizio espresso. Diversamente, laddove la rendita proposta con la Dofca non venga accettata in ragione di ravvisate differenze relative a taluno degli elementi di fatto indicati dal contribuente, l’Ufficio dovrà, appunto, specificarle per i motivi sopra indicati.

La commissione tributaria regionale ha fatto corretta applicazione di tali principi, ritenendo soddisfatto l’obbligo della motivazione del provvedimento di classificazione degli immobili anche mediante la semplice indicazione della consistenza, della categoria e della classe acclarati dall’ufficio tecnico erariale ed ha, poi, precisato che l’Ufficio ha reso conto, nell’avviso di accertamento, della procedura eseguita per la rettifica della classificazione catastale dell’immobile, rispetto a quella proposta dai contribuenti nell’ambito della procedura DOCFA: valutando i caratteri edilizi degli immobili in questione anche mediante comparazione con altri siti nella stessa zona e con caratteristiche analoghe

La sentenza in esame, dunque, diversamente. da quanto sostenuto dalle ricorrenti, illustra l’iter logico argomentativo che ha portato all’accoglimento del gravame proposto dall’Agenzia dell’Entrate il cui nuovo classamento non si fondava su elementi di fatto diversi da quelli indicati dai contribuenti, ma su una differente valutazione compiuta dall’Ufficio di talchè l’onere motivazionale, anche in ragione della procedura partecipata in esame (DOCFA), poteva dirsi pienamente adempiuto con l’attribuzione del a categoria diversa da quella indicata dalle contribuenti fondata proprio sulla indicata valutazione tecnica.

Il secondo profilo al di là della genericità da motivo privo di riferimenti normativi che si assumono violati deve ritenersi inammissibile in quanto diretto a rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici d& merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili contrapponendone uno difforme.

L’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (v.Cass. 9097/2017).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese stante la mancata costituzione della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. nr 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo dì contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2020

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