Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7851 del 20/03/2019

Cassazione civile sez. lav., 20/03/2019, (ud. 11/12/2018, dep. 20/03/2019), n.7851

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26063/2017 proposto da:

N.R., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANTONIO CROCETTA;

– ricorrente –

contro

CENTRO EMODIALISI VESUVIANA S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TASSO 39, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE NOBILE, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5906/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 21/09/2017 R.G.N. 613/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/12/2018 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANTONIO CROCETTA;

udito l’Avvocato GIUSEPPE NOBILE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Napoli, con sentenza n. 5906 depositata il 21.9.2017, rigettava il reclamo proposto avverso la sentenza del Tribunale di Nola che aveva accolto il ricorso di N.R. per l’annullamento del licenziamento intimato in data 1.10.2013 da Centro Emodialisi Vesuviana s.r.l. disponendo l’applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 8, e aveva dichiarato inammissibile la domanda (depositata con ricorso giudiziale successivo) di nullità del medesimo licenziamento per motivi discriminatori.

2. La Corte territoriale condivideva l’assunto del primo Giudice, secondo il quale la ricorrente era decaduta dall’impugnativa ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, con riguardo al secondo ricorso giudiziale (avente ad oggetto i profili discriminatori) in quanto depositato il 22.5.2014, oltre il termine di 180 giorni previsti dalla richiamata disposizione, che dovevano farsi decorrere dall’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (spedita il 7.10.2013).

3. Per la cassazione della sentenza N.R. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso la società.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con i tre motivi di ricorso la lavoratrice denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 229 c.p.c., L. n. 604 del 1966, art. 6,L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che in sede di interrogatorio libero del legale rappresentante all’udienza del 6.2.2014 (nel procedimento concernente il primo ricorso avente ad oggetto l’annullabilità del licenziamento) era intervenuta una dichiarazione confessoria (delle circostanze indicate nella memoria difensiva depositata dalla società) con cui era stato aggiunto un ulteriore motivazione a supporto del medesimo licenziamento (motivazione attinente al precario stato di salute della lavoratrice e all’evidente oggettiva impossibilità di piena ed efficiente collaborazione). Di conseguenza, in presenza di nuova motivazione dello stesso, unico, licenziamento, il secondo termine di impugnazione previsto dalla L. n. 604 del 1966, novellato art. 6, poteva decorrere solamente dalla data di conoscenza dei reali motivi di recesso, ossia dal 6.2.2014.

2. Il ricorso non merita accoglimento.

La L. n. 604 del 1966, art. 2, (come novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37) prevede un onere di comunicazione dei motivi contestuale al licenziamento scritto, a pena di inefficacia del recesso.

La motivazione deve essere specifica al fine di far comprendere al lavoratore le effettive ragioni del recesso.

I motivi comunicati sono immodificabili, sicchè in giudizio il datore di lavoro non può invocarne altri ma soltanto aggiungere qualche fatto confermativo o di contorno.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che, per tutti i casi di assoggettamento del rapporto di lavoro a norme limitatrici del potere di recesso del datore di lavoro, vale il principio dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento, il quale opera come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, che vedrebbe, altrimenti, frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata dal datore (cfr. Cass. n. 6012 del 2009).

Il divieto è diretto a impedire una lesione del diritto di difesa (anche nella fase stragiudiziale) del dipendente, cui non possono essere opposti successivamente motivi nuovi e diversi.

Ne consegue che il datore di lavoro non può addurre a giustificazione del recesso fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento della intimazione del recesso medesimo, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti (cfr. ex multis, Cass. n. 6012 del 2009; Cass. n. 5401 del 2010; Cass. n. 2935 del 2013; con specifico riguardo all’applicazione del principio di immodificabilità dei motivi al licenziamento per giustificato motivo oggettivo cfr. Cass. n. 25270 del 2007).

In ordine alla decorrenza dei termini di impugnazione del licenziamento, questa Corte ha affermato che il termine di decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, comma 2, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 1, e modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 38, decorre dalla data di trasmissione dell’atto scritto d’impugnazione del licenziamento, di cui al comma 1 del citato art. 6 (e non dal perfezionamento dell’impugnazione stessa per effetto della sua ricezione da parte del datore di lavoro; cfr. Cass. n. 5717 del 2015; Cass. n. 16899 del 2016; Cass. 20666 del 2018).

Il precetto di contestuale (e immodificabile) motivazione del licenziamento è così imperativo che la sua violazione è sanzionata dal legislatore con l’inefficacia.

Con particolare riguardo all’ambito di applicabilità della tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione L. n. 604 del 1996, ex art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37, trova applicazione l’art. 8, della medesima legge, in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche la L. n. 300 del 1970, art. 18, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (cfr. Cass. n. 17589 del 2016).

Nel caso di specie il licenziamento della lavoratrice è stato intimato per “crisi aziendale” con lettera dell’1.10.2013: di fronte a questa che è la ragione, unica, sostanziale dell’atto, nessun altro motivo poteva essere aggiunto dal datore di lavoro stante il divieto di modificabilità dei motivi di recesso, principio posto a garanzia del diritto di certezza giuridica del lavoratore. Irrilevanti risultano, pertanto, le circostanze dedotte dal legale rappresentante della società in sede di interrogatorio libero (all’udienza del 6.2.2014) in ordine ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.

Ne consegue che il doppio termine di decadenza per l’impugnazione del licenziamento, dettato dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, decorre esclusivamente dalla comunicazione scritta del recesso che deve contenere, a pena di inefficacia, i motivi della determinazione datoriale. Intimato il licenziamento in data 1.10.2013 ed impugnato, dalla lavoratrice, in via stragiudiziale con lettera spedita il 7.10.2013, il (secondo) ricorso giudiziale depositato avanti al Tribunale il 22.5.2014 (per la declaratoria della nullità del licenziamento in quanto discriminatorio) è stato correttamente dichiarato inammissibile dalla Corte distrettuale in quanto proposto oltre il termine di 180 giorni decorrenti dall’impugnazione del licenziamento.

Va, pertanto, confermata la decisione del giudice di merito seppur modificando la motivazione nel senso innanzi esposto.

3. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

4. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi della D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019

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