Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7848 del 20/04/2016


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 7848 Anno 2016
Presidente: DI AMATO SERGIO
Relatore: DI IASI CAMILLA

SENTENZA

sul ricorso 26060 2009 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente contro
SVILUPPO ITALIA SPA in persona dell’Amm.re Delegato
pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
VILLA EMILIANI 11, presso lo

studio dell’avvocato

GIULIANO TABET, che lo rappresenta e difende giusta
delega a margine;

Data pubblicazione: 20/04/2016

- controricorrente

avverso la sentenza n. 109/2008 della COMM.TRIB.REG.
di ROMA, depositata il 03/10/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 16/10/2015 dal Consigliere Dott. CAMILLA

udito per il ricorrente l’Avvocato CASELLI che si
riporta ai motivi di ricorso e ne chiede
I accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato TABET che ha
chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

DI IASI;

R.G.N.26060/09
SENTENZA

L’Agenzia delle Entrate ricorre con quattro motivi nei confronti di Sviluppo Italia
s.p.a. (incorporante Ribs spa) per la cassazione della sentenza n. 109/29/08 con la
quale la C.T.R. del Lazio, in controversia concernente, per quanto ancora di rilievo,
impugnazione del silenzio rifiuto su istanza di restituzione di quanto versato a titolo
di imposta sul patrimonio per il 1996, confermava la sentenza di primo grado che,
previa riunione, aveva accolto i ricorsi della società. In particolare, i giudici
d’appello evidenziavano che la rivendicata eccedenza di imposta con riguardo alla
patrimoniale non fu determinata dal versamento degli acconti ma dal versamento del
saldo, con conseguente tempestività dell’istanza di restituzione, ed inoltre che la
società, con la produzione in primo grado della dichiarazione dei redditi e della
quietanza di pagamento, aveva ottemperato all’onere di documentare nell’an e nel
quantum la pretesa restitutoria, non potendo l’Ufficio, a dieci anni di distanza dalla
richiesta restituzione, dedurre la mancanza di documentazione che invece doveva
ritenersi da tempo in possesso dell’Ufficio medesimo. Infine, con riguardo ai
contestati interessi anatocistici, i giudici d’appello evidenziavano che non era
possibile addebitare alla sentenza di primo grado resa il 30.05.2006 la violazione di
una norma in materia di interessi anatocistici che all’epoca della sua pronuncia non
era ancora entrata in vigore ed inoltre che la dedotta genericità della sentenza di
primo grado sul punto non era suscettibile di interferire con la potestà
dell’Amministrazione di dare attuazione alla norma sopraggiunta nel calcolo degli
interessi. Agenzia Nazionale per l’Attrazione degli investimenti e lo sviluppo
d’impresa s.p.a. (subentrata a Sviluppo Italia s.p.a.) resiste con controricorso.
Ritenuto in diritto
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 38 d.p.r. n.
602 del 1973 (nel testo in vigore ratione temporis) nonché 2935 c.c., l’Agenzia
ricorrente chiede a questa Corte di dire se, con riferimento ad istanza di rimborso per
£ 678.750.000 dell’imposta sul patrimonio relativa all’anno 1996, proposta il 12
gennaio 1999 e motivata in base alla ritenuta applicabilità della agevolazione di cui
all’art. 3 comma 11 1. n. 549 del 1995 in riferimento a quanto pagato in acconto il 1°
agosto 1996 e il 29 novembre 1996 e a saldo in data 29.07.1997, date pacifiche e non
contestate tra le parti, violi le norme sopra citate la C.T.R. che disconosca la avvenuta
decadenza affermando la decorrenza del relativo termine dal versamento del saldo,
laddove l’art. 38 citato, correttamente interpretato nel senso che il termine originario
di 18 mesi dallo stesso previsto -applicabile nella specie per essere la decadenza già
maturata anteriormente al 18.05.1999, data di entrata in vigore del maggior termine

Considerato in fatto

previsto dall’art. 1 comma 5 I. 133/1999- decorre dalla data del versamento in
acconto tutte le volte in cui l’acconto stesso già al momento in cui venne eseguito
fosse ritenuto non dovuto o dovuto in misura inferiore a quella versata e se pertanto la
medesima C.T.R. avrebbe dovuto invece affermare l’intervenuta decadenza in
relazione alla istanza di rimborso proposta il 12.01.1999, oltre 18 mesi dal
versamento delle rate di acconto versate il 1 0.08.1996 e il 20.11.1996, tenuto conto
che gli importi dei due acconti erano capienti rispetto alla somma di cui si chiedeva la
restituzione.
La censura è innanzitutto inammissibile per inidoneità del quesito di diritto, il quale
secondo la ormai consolidata giurisprudenza di questo giudice di legittimità deve
assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del
caso concreto e l’enunciazione del principio giuridico generale e non può perciò,
come nella specie, essere meramente generico e teorico, dovendo invece essere
chiaramente calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di
comprendere, dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di
merito e di consentire alla stessa Corte di rispondere al quesito medesimo enunciando
la regola applicabile nel caso concreto (v. tra le altre cass. n. 3530 del 2012 e s.u. n.
7433 del 2009).
Nella specie il quesito in esame non ha assolto a tale funzione, dal momento che in
esso l’Agenzia, come sopra rilevato, si è limitata, in una sorta di petizione di
principio, a chiedere a questa Corte di dire se abbia violato le norme indicate in
epigrafe la CTR non considerando che esse vanno interpretate nel senso che il
termine di decadenza decorre dalla data del versamento in acconto tutte le volte in cui
l’acconto stesso sia non dovuto al momento in cui venne eseguito, senza chiarire
perché in concreto nella specie la CTR abbia violato la suddetta interpretazione delle
citate norme quando ha ritenuto che il diritto al rimborso della somma di £
678.750.000 (quindi l’eccedenza rimborsabile) sia sorto al momento del pagamento a
saldo della somma di £ 3.162.707.000, né tanto meno spiega perché di fatto nella
specie la somma richiesta in restituzione fosse da ritenersi già non dovuta nella sua
interezza al momento del versamento degli acconti, senza neppure precisare al
momento di quale acconto e/o, rispetto a ciascuno di essi, in che proporzione, ed
altresì senza fornire elementi utili a comprendere perché il carattere indebito della
somma richiesta in restituzione non venisse a configurarsi nella specie -almeno in
proporzione, ed eventualmente quale- anche a decorrere dal momento del
versamento del saldo. Occorre aggiungere che né la generica indicazione del
momento di entrata in vigore della legge che avrebbe richiesto al contribuente il
versamento di una somma inferiore a quella versata né la ambigua affermazione che
l’indebito era da ritenersi sorto al momento del versamento degli acconti perché gli
importi dei medesimi “erano capienti rispetto alla somma di cui si chiedeva la
restituzione” risultano sufficienti a consentire di ritenere che l’Agenzia abbia
assolto all’onere di indicare nel quesito tutti gli elementi di fatto specifici necessari a
consentire alla Corte di fornire una risposta al quesito idonea a definire la
controversia.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma
111 1. 549/1995 nonché dell’art. 38 d.p.r. 602/1973 e dell’art. 2697 c.c. la ricorrente
chiede a questo giudice di dire se con riferimento ad istanza di rimborso per £
678.750.000 dell’imposta sul patrimonio relativa all’anno 1996, proposta il 12
gennaio 1999, motivata in base alla ritenuta applicabilità dell’agevolazione di cui
all’art. 3 comma 11 1. 549/1995 e documentata sulla base della sola “dichiarazione
dei redditi modello 760 e quietanza di pagamento”, violi le norme sopra citate la
C.T.R. che ritenga assolto l’onere di documentare an e quantum della pretesa
restitutoria azionata senza considerare che le norme suddette vanno correttamente
interpretate nel senso che la portata della agevolazione è circoscritta agli “incrementi
di capitale conferiti in denaro
rispetto alle corrispondenti voci risultanti nel
bilancio relativo all’esercizio in corso al 30.09.1995” e che era onere della
contribuente istante per l’applicazione della agevolazione e attrice in un’azione di
ripetizione di indebito, fornire la prova di tale elemento, la cui sussistenza avrebbe
dovuto essere correttamente accertata dalla C.T.R. al fine del riconoscimento della
agevolazione.
La censura è infondata.
E’ vero che secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità il contribuente
che impugni il rigetto dell’istanza di rimborso di un tributo riveste la qualità di attore
in senso sostanziale, con la duplice conseguenza che grava su di lui l’onere di allegare
e provare i fatti a cui la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato nella
domanda e che le argomentazioni con cui l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o
la qualificazione ad essi attribuita dal contribuente, costituiscono mere difese, come
tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salva la formazione del giudicato
interno (v. cass. n.15026 del 2014 e n. 29613 del 2011), tuttavia occorre tenere
presente che i soggetti Irpeg, come correttamente affermato nella sentenza
impugnata, devono per legge allegare alla dichiarazione dei redditi copia sottoscritta
dei bilancio e non risulta che l’Agenzia ricorrente abbia allegato l’inottemperanza
della società a tale obbligo e neppure di aver smarrito la documentazione a suo tempo
prodotta dalla società e di aver provveduto a richiederla nuovamente.
Tanto premesso, occorre evidenziare che secondo la giurisprudenza di questo giudice
di legittimità nel processo tributario l’obbligo dell’Amministrazione di prendere
posizione sui fatti dedotti dal contribuente è ancora più forte di quello che grava sul
convenuto nel rito ordinario, in quanto le disposizioni degli artt. 18 della legge 7
agosto 1990, n. 241 e 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo le quali il
responsabile del procedimento deve acquisire d’ufficio quei documenti che, già in
possesso dell’ Amministrazione, contengano la prova di fatti, stati o qualità rilevanti
per la definizione della pratica, costituiscono l’espressione di un più generale
principio valevole anche in campo processuale (v. tra le altre cass. n. 958 del 2015, n.
1956 del 2010 en2775 del 2009).
Col terzo motivo (indicato come quarto in ricorso), deducendo violazione e falsa

PQM
Rigetta il ricorso e condanna la soccombente alle spese del presente giudizio che
liquida in C 7.500,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori di legge
Roma 16-10-2015

applicazione degli artt. 55 e 36 d.lgs. 546/1992, 112 c.p.c. e 277 c.p.c., la ricorrente
si duole del fatto che, avendo l’ufficio appellante impugnato la sentenza di primo
grado affermandone l’illegittimità per avere i giudici d’appello, in violazione dell’art.
37 comma 50 d.l. 33/2006, condannato genericamente l’amministrazione agli
interessi anatocistici senza considerare che ai sensi della norma suddetta detti
interessi sono dovuti solo fino alla data di entrata in vigore della predetta novella del
2006 (4.7.2006), la C.T.R. abbia del tutto omesso di pronunciarsi su tale motivo di
appello. La censura è infondata, posto che i giudici d’appello non hanno omesso di
pronumnciarsi sul suddetto motivo d’appello ma lo hanno rigettato dopo averlo
espressamente preso in considerazione nella parte motiva della decisione laddove si
afferma, come sopra riportato, che non era possibile addebitare alla sentenza di primo
grado resa il 30.05.2006 la violazione di una norma in materia di interessi anatocistici
che, all’epoca della pronuncia della CTP, non era ancora entrata in vigore ed inoltre
che la dedotta genericità della sentenza di primo grado sul punto non era suscettibile
di interferire con la potestà dell’Amministrazione di dare attuazione alla norma
sopraggiunta nel calcolo degli interessi.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza

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