Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7847 del 06/04/2011

Cassazione civile sez. III, 06/04/2011, (ud. 07/02/2011, dep. 06/04/2011), n.7847

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

Dott. BARRECA Luciana Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3850/2009 proposto da:

BALDINI CASTOLDI DALAI – EDITORE S.P.A. (OMISSIS), in persona del

Presidente e legale rappresentante Dott. D.A., V.

E. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato PERSICHELLI CESARE, che

li rappresenta e difende unitamente agli avvocati CAVALLARI LAURA,

FERRARI GIORGIO giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, PIAZZA CAVOUR 17, presso lo studio dell’avvocato LEPRI

FABIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITTORIO

VIRGA giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1469/2008 della CORTE D’APPELLO di MILANO – 2^

SEZIONE CIVILE, emessa il 16/4/2008, depositata il 22/05/2008, R.G.N.

2326/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato CESARE PERSICHELLI; udito l’Avvocato LAURA

CAVALLARI;

udito l’Avvocato FABIO LEPRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- C.F. propose impugnazione dinanzi alla Corte d’Appello di Milano avverso la sentenza del Tribunale di Milano, con la quale era stata rigettata la domanda, da lui proposta nei confronti della Baldini & Castoldi s.p.a., oggi Baldini Castoldi Dalai – Editore S.p.A., casa editrice del libro (OMISSIS), e di V.C., autore del volume, di condanna dei convenuti, in solido, al risarcimento dei danni patrimoniali e morali, subiti dall’appellante per la natura diffamatoria della copertina e di diversi capitoli del libro, oltre alla pena pecuniaria L. n. 47 del 1948, ex art. 12, ed alla pubblicazione della sentenza.

2.- La Corte d’Appello di Milano ha accolto l’appello ed ha condannato in solido gli appellati a pagare all’appellante C. la somma di Euro 22.000,00 (di cui Euro 20.000,00 a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali ed Euro 2.000,00 a titolo di pena pecuniaria), oltre interessi legali sull’importo devalutato al 15 aprile 2002 e rivalutato anno per anno, dichiarando compensate per metà tra le parti le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e condannando in solido gli appellati al pagamento della restante metà.

3.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano propongono ricorso per cassazione V.C. e la casa editrice Baldini Castoldi Dalai – Editore S.p.A., a mezzo di due motivi. Resiste con controricorso C.F.. Vi sono memorie depositate da entrambe le parti ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo del ricorso è dedotta “la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per vizio di motivazione con evidente erroneità del risultato raggiunto. Indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione risulta omessa e contraddittoria”;

i ricorrenti espongono le ragioni della censura sotto due paragrafi aventi i numeri 1.1. ed 1.2 del motivo.

Il motivo è inammissibile.

1.1.- Il presente ricorso per cassazione è soggetto, quanto alla formulazione dei motivi, al regime dell’art. 366 bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, ed abrogato dalla L. 18 giugno 2008, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), applicabile in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (22 maggio 2008).

In tema di formulazione dei motivi del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, è stato affermato che, poichè secondo l’art. 366 bis c.p.c., introdotto dalla riforma, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione, “la relativa censura deve contenere, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità” (Cass. sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Il principio è stato ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, che, nei precedenti che sono espressione dell’indirizzo più rigoroso, ha avuto modo di precisare altresì che il momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che connota la censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve essere “separatamente indicato in una parte del ricorso a ciò specificamente deputata e distinta dall’esposizione del motivo” ed, ancora, che “non è sufficiente, pertanto, che il fatto controverso sia indicato nel motivo o possa desumersi dalla sua esposizione” (così Cass. n. 23591/2008, nonchè, nello stesso senso, Cass. n. 16528/2008).

Sebbene vi sia qualche isolato precedente che ritiene sufficiente un’illustrazione che, libera da rigidità formali, si concretizzi in un’esposizione chiara e sintetica del fatte controverso o delle ragioni di inidoneità della motivazione (cfr. Cass. n. 4556/2009), l’indirizzo assolutamente prevalente, che si va oramai consolidando, richiede un quid pluris rispetto all’illustrazione del motivo di ricorso, che consista in un’indicazione riassuntiva e sintetica del fatto controverso in riferimento al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni di insufficienza della motivazione, che, essendo autonomamente valutabile, rispetto alle argomentazioni che illustrano la censura, consenta, di per sè, la valutazione dell’ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. n. 8897/2008, n. 22502/2010, nonchè Cass. ord. nn. 2652/2008 e 27680/2009, che hanno escluso che la norma dell’art. 366 bis c.p.c., seconda parte, interpretata nei termini appena esposti, possa essere censurata di illegittimità costituzionale).

Dal momento che la norma dell’art. 366 bis c.p.c., detta un requisito funzionale all’immediata verifica da parte del giudice di legittimità della ammissibilità del ricorso (per come è reso evidente dall’inciso “a pena di inammissibilità”, dettato a proposito dei quesiti di diritto, ma ripetuto anche per la censura dell’art. 360 c.p.c., n. 5), ritiene questa Corte che vadano ribaditi i principi espressi dai precedenti da ultimo richiamati. Dato ciò, il primo motivo del ricorso in esame è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., seconda parte, per le ragioni di cui appresso.

1.2.- Secondo i ricorrenti, il primo paragrafo del primo motivo di ricorso conterrebbe la “chiara indicazione del fatto controverso”;

tuttavia, sono gli stessi ricorrenti che assumono che questa si desumerebbe dall’intero paragrafo “che occupa meno di 3 pagine” e che, quindi, letto nella sua interezza, consentirebbe di “rendersi conto di quale sia il fatto controverso in relazione al quale la sentenza della Corte di merito ha omesso di motivare” (cfr. la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.). Le deduzioni dei ricorrenti sono coerenti col contenuto e col tenore del primo paragrafo (sub 1.1.) del primo motivo del ricorso, ma non sono affatto idonee a dar conto dell’ammissibilità del ricorso con riguardo al requisito in parola.

Le pagine 3-4-5 contengono esclusivamente l’esposizione dei passaggi della motivazione della sentenza di primo grado che vengono censurati: questi passaggi sono testualmente riportati tra virgolette e distinti in cinque parti, ciascuna introdotta da una sintetica spiegazione degli stessi ricorrenti circa il punto della motivazione della sentenza in cui si collocano e circa gli scopi di motivazione che con ciascuno di essi la Corte di merito avrebbe inteso perseguire. Segue, quindi, una frase conclusiva che, a detta dei ricorrenti, dovrebbe rendere esplicito il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa: tale fatto sembrerebbe consistere ne “il carattere delittuoso dei fini perseguiti dalla banda” ritenuto dal giudice di merito e negato dai ricorrenti. La censura però diventa comprensibile soltanto se tale conclusione venga letta in connessione con le parti della motivazione riportate nelle precedenti due pagine: il fatto rileva, non in sè, ma in quanto il giudice d’appello l’ha preso a parametro di valutazione del carattere diffamatorio del libro sub iudice, per compiere quell’apprezzamento dell’attitudine offensiva dello scritto che connota il sindacato di merito. La parte conclusiva del primo paragrafo del primo motivo non realizza lo scopo della prescrizione dell’art. 366 bis c.p.c., seconda parte, che impone di indicare con “chiarezza” il fatto controverso: per raggiungere tale finalità, l’indicazione non può essere desunta dalla combinazione dei vari momenti illustrativi del motivo, affidata alla Corte, ma deve compendiarsi in una sintesi di essi e tale certamente non è, nel caso di specie, la parte finale dell’esposizione del primo paragrafo di cui alla pag. 5; questa, infatti, presuppone la lettura delle pagine precedenti per cogliere le ragioni per le quali il fatto dedotto come “controverso” sia anche decisivo e quindi rilevante per il vizio di omessa motivazione. Nel caso di specie, si è in presenza della conclusione di un ragionamento, che si articola e si svolge nelle pagine precedenti e, coerentemente con tale sua collocazione e con la sua funzione logico-discorsiva, essa, a prescindere dalla veste grafica con la quale è presentata, non ha il carattere di sintesi, nè quello di autonomia, richiesto per l’ammissibilità del ricorso dall’art. 366 bis c.p.c., seconda parte.

Ma v’è di più. La norma richiede che il fatto controverso non debba essere indicato in sè e per sè, ma “in relazione” al dedotto vizio di omessa o contraddittoria motivazione. Nel caso di specie, i ricorrenti assumono il vizio di omessa motivazione, perchè questa si sarebbe dovuta svolgere, come da premessa contenuta nella sentenza impugnata, effettuando “una valutazione complessiva dei brani del libro, compresi i capitoli, i titoli e la copertina”: i ricorrenti avrebbero dovuto, prima, esporre nell’illustrazione del motivo e, poi, sintetizzare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 366 bis c.p.c., come una valutazione siffatta, se compiuta in motivazione, avrebbe condotto il giudice del merito ad una decisione differente da quella adottata; tutto ciò manca nel paragrafo in esame. In effetti, il ragionamento critico dei ricorrenti si completa, sotto questo aspetto, soltanto nella seconda parte illustrativa dello stesso motivo, collocata nel paragrafo sub 1.2. Nella prima parte di questo espongono, infatti, le ragioni per le quali – secondo la prospettazione degli stessi ricorrenti -, se la motivazione della sentenza impugnata non fosse stata viziata per omissione, avrebbe escluso il carattere diffamatorio del libro poichè – attraverso la valutazione complessiva dei brani di questo – avrebbe colto il senso della critica politica, nella quale sarebbe consistita l’attribuzione di un determinato fine (il c.d. “grande imbroglio) ai componenti della “banda” (che, secondo i ricorrenti, non sarebbe stato perciò il fine “delittuoso” reputato dalla Corte d’Appello, ma altro, definito in termine d “grande imbroglio” dall’autore del libro, nell’esercizio legittimo del diritto di critica politica). Orbene, è di tutta evidenza che il senso di quanto esposto nel primo paragrafo, circa l’individuazione del fatto controverso nel “carattere delittuoso dei fini perseguiti dalla banda”, si coglie appieno soltanto leggendo per intero il secondo paragrafo, che, per baie parte, integra e completa il primo: è sufficiente questa considerazione per corroborare quanto detto in punto di inadeguatezza della parte conclusiva del paragrafo sub 1.1. del ricorso a sorreggere, se considerata autonomamente, sia dalla parte espositiva che la precede che da quella che la segue, il giudizio di ammissibilità del motivo ex art. 366 bis c.p.c..

1.3.- Ancora, i ricorrenti sostengono che il secondo paragrafo del primo motivo indicherebbe “le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione” (così nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c.). Anche tale paragrafo occupa tre pagine del ricorso (dalla pagina 6 alla pagina 8) e contiene un’illustrazione articolata ed argomentata delle ragioni per le quali la motivazione della sentenza avrebbe, per un verso, omesso completamente di motivare sul punto controverso di cui al precedente paragrafo 1.1 e, per altro verso, motivato su una serie di altri fatti reputati decisivi, travisando tuttavia tali fatti.

Questo paragrafo del ricorso manca completamente di un momento di sintesi, sia se considerato in relazione al paragrafo che lo precede sia se considerato in sè e per sè.

Infatti, a differenza che nel paragrafo precedente, manca addirittura di un momento conclusivo dell’intero argomentare, che peraltro sarebbe stato sintetico ed autonomamente rilevante ai fini dell’art. 366 bis c.p.c. soltanto se, anche a voler prescindere dall’osservanza di peculiari requisiti formali, si fosse espresso in modo da coordinare i diversi punti dell’articolata illustrazione del motivo, fino a delineare con precisione il vizio del procedimento logico- giuridico attribuito alla Corte d’appello, sul quale questa Corte è chiamata a giudicare. Invece, le diverse ragioni di critica alla sentenza di secondo grado sono esposte in successione logico- argomentativa, ma gli argomenti critici così ampiamente sviluppati non risultano in alcun modo riportati a sintesi, vale a dire che soltanto leggendo tutte e tre le pagine in cui vengono svolti, è possibile cogliere il senso della censura in esame.

1.4.- Quanto fin qui detto porta ad escludere che il primo motivo del ricorso proposto da Baldini Castoldi Dalai – Editore S.p.A. e da V.C., considerato in tutte e due le sue articolazioni, sia conforme alle prescrizioni del più volte citato art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis.

2.- Col secondo motivo di ricorso, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dei principi derivanti dall’art. 21 della Costituzione riguardanti la libertà di critica (politica) e dell’art. 2697 c.c., “anche per aver affermato che i convenuti avrebbero avuto l’onere di provare la verità dei fatti, nonchè omessa motivazione per non aver distinto fra i giudizi politici e i fatti e non aver indicato i fatti che il libro avrebbe dovuto provare (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

I profili di censura vengono separatamente illustrati al paragrafo 2.1 ed al paragrafo 2.2.; in conclusione risulta formulato il seguente quesito di diritto: “se un libro di carattere politico, come quello di cui è causa, esprime un critica alla strategia perseguita da un uomo politico dando di tale strategia una interpretazione basata su numerosi fatti notori e non contestati, e se è vero che l’accertamento dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica deve essere compiuto alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base dell’art. 21 Cost., si chiede se tali principi implichino che l’autore non debba fornire la prova della propria tesi interpretativa e dei fatti su cui si fonda e che la critica espressa su tale strategia si debba considerare coperta dalla libertà di manifestazione del pensiero anche se utilizzi toni accesi ed espressioni fortemente critiche”.

2.1.- Il primo paragrafo sembra riguardare il profilo del motivo che fa riferimento al difetto di motivazione, laddove si sostiene che “la sentenza però non indica quali sarebbero i fatti narrati aventi carattere denigratorio, sicchè l’assunto secondo cui i convenuti non avrebbero assolto l’onere di provare la verità dei fatti appare del tutto privo di motivazione”; tuttavia, nel prosieguo dello stesso paragrafo si passa ad esaminare la giurisprudenza formatasi sul diritto di critica (in specie, politica), al fine di censurare l’affermazione, in diritto, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui sarebbe stato necessario fornire, da parte dell’autore, la prova del requisito della verità dei fatti; quindi, si sostiene che tale pretesa sarebbe in contrasto con la giurisprudenza ivi richiamata.

Per come risulta dalla sintesi dell’intero paragrafo appena esposta, esso contiene una palese mescolanza di motivi che rende inammissibile, quanto meno, il motivo riguardante il vizio di motivazione, poichè, non chiaramente enucleabile e comunque privo dell’autonomia di cui si è detto al precedente punto 1 della presente motivazione.

2.2.- Invece, il secondo paragrafo del secondo motivo riguarda, più specificamente;, il vizio di violazione di legge e completa ed integra quanto già esposto, in punto di giurisprudenza, al precedente primo paragrafo, pure destinato ad illustrare, per questa parte, il motivo in parola. In effetti, la combinazione dei due paragrafi del secondo motivo illustra adeguatamente le censure in punto di diritto. Con tali censure appare, inoltre, coerente il quesito di diritto sopra riportato, che non è affatto in contrasto con l’art. 366 bis c.p.c., prima parte.

L’inammissibilità è stata dedotta dai controricorrenti sotto un duplice profilo: perchè si tratterebbe di quesito c.d. multiplo e perchè sarebbe generico, non correlato al contenuto del motivo e privo di concretezza.

2.3.- L’eccezione è infondata sotto entrambi i profili.

Il quesito contiene in sè due quesiti collegati ad una comune premessa, in fatto ed in diritto, su cui si fondano le censure dei ricorrenti. La premessa consiste nell’affermazione che, nel caso di specie, si sarebbe in presenza di “un libro di carattere politico”, che esprimerebbe una critica politica; dato ciò, la conseguenza in punto di diritto sarebbe, per i ricorrenti, che l’accertamento dell’esistenza dell’esimente dovrebbe essere compiuto alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base dell’art. 21 Cost.

Appunto, prendendo le mosse da tale unica premessa, vengono formulati i due quesiti: questi sono ammissibili, poichè chiaramente distinguibili l’uno dall’altro, pur se espressi in un unico contesto grafico; ed, anzi, tale modalità espressiva è da condividere in ragione della comunanza della premessa, in fatto ed in diritto.

I due quesiti, tenuto conto dell’unica premessa (“se un libro di carattere politico, come quello di cui è causa, esprime una critica alla strategia perseguita da un uomo politico dando di tale strategia una interpretazione basata su numerosi fatti notori e non contestati, e se è vero che? l’accertamento dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica deve essere compiuto alla luce? dei principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base dell’art. 21 Cost.”), sono infatti enucleabili e distinguibili come segue:

– se i principi elaborati dalla giurisprudenza riguardo all’accertamento dell’esimente del diritto di critica implichino “che l’autore non debba fornire la prova della propria tesi interpretativa e dei fatti su cui si fonda”;

– se la critica espressa con riguardo alla “strategia perseguita da un uomo politico” si debba considerare “coperta dalla libertà di manifestazione del pensiero anche se utilizzi toni accesi ed espressioni fortemente critiche”.

2.4.- I quesiti di diritto così formulati, inoltre, non sono affatto generici ed estranei al caso concreto come sostenuto dai controricorrenti, in quanto riferiti alla fattispecie concreta per il tramite della premessa di cui si è detto sopra e tali da consentire a questa Corte di esprimere una regula iuris applicabile al caso sottoposto all’esame ma estensibile ad una serie indefinita di casi analoghi, secondo quella che è la riconosciuta finalità dell’imposizione dell’onere di cui all’art. 366 bis c.p.c., parte prima, (cfr. Cass. S.U. n. 26020/2008).

3.- Pur essendo i quesiti in parola conformi alla previsione dell’art. 366 bis c.p.c., prima parte, e quindi ammissibile, per tale aspetto, il secondo motivo di ricorso, tuttavia, esso è in parte infondato ed in parte inammissibile, sotto altro aspetto.

Esso è infondato laddove articola la censura di legittimità con riguardo al limite della continenza (sostenendo che, malgrado l’utilizzazione di toni accesi ed espressioni fortemente critiche, dovrebbe ritenersi esercitata la libertà di manifestazione del pensiero).

Il limite della continenza connota anche il diritto di critica (cfr., nel senso che esso opera per il diritto di critica, il cui legittimo esercizio presuppone la rilevanza sociale dell’argomento trattato e la correttezza formale delle espressioni, adoperate, tra le tante, più recenti Cass. n. 22527/2006, n. 13646/2006, n. 12420/2008, n. 4325/2010); a questo principio si è attenuto il giudice di merito.

La Corte d’Appello ha fatto di tale canone il parametro di valutazione di brani ed espressioni (compresa quella relativa al titolo del primo capitolo) contenuti nel libro in questione, ed espressamente riferiti all’odierno resistente, deducendone sia la potenzialità offensiva della sua reputazione, sia l’inapplicabilità della scriminante del diritto di critica perchè tale offesa sarebbe travalicata nell’insulto personale, da ritenersi perciò diffamatorio. In particolare, nella prima parte della sentenza vi è l’esposizione dei principi cui il giudice si è attenuto per la valutazione del carattere, in sè, diffamatorio o meno di detti brani ed espressioni: tali principi, così come astrattamente enunciati, risultano coerenti con la giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di valutazione della portata offensiva di un libro, compresi i capitoli, i titoli, e la copertina; di valutazione d’insieme e delle singole espressioni adoperate; di valutazione di frasi, in sè non diffamatorie, da compiersi tuttavia nel contesto comunicativo in cui sono inserite ed in rapporto all’uso fattone in concreto, rispetto alla percezione del lettore medio.

Le conclusioni cui il giudice di merito è pervenuto sono che determinate frasi, riportate in motivazione, siano in sè offensive, in quanto travalicano il limite della continenza, e consentano di affermare il carattere diffamatorio del libro.

Rispetto a tale conclusione, l’ambito entro il quale può muoversi il giudizio di legittimità è delimitato, oltre che dal rispetto in diritto dell’enunciato canone della continenza, dalla congruità e logicità dell’argomentazione posta dal giudice alla base della sua decisione, essendo ovviamente precluso a questa Corte un nuovo e diverso accertamento del merito della controversia (cfr., nel senso che la valutazione del contenuto degli scritti e l’apprezzamento della loro attitudine offensiva, nonchè l’esclusione della sussistenza dell’esercizio del diritto di critica, costituiscano accertamenti di fatto ed apprezzamenti e valutazioni riservate al giudice del merito, Cass. n. 3284/2006, n. 17395/2007 e numerose altre).

Orbene, nel caso di specie, l’inammissibilità del primo motivo del ricorso, relativo appunto al vizio di motivazione sul ritenuto carattere offensivo, e quindi diffamatorio, del libro (OMISSIS), preclude a questa Corte la valutazione di congruità delle ragioni che la Corte d’Appello di Milano ha posto a fondamento del proprio giudizio in merito al detto carattere offensivo.

Resta quindi definitivamente accertato che i toni e le espressioni adoperate dall’autore del libro, quanto meno nei confronti di C.F., sono, in sè e nel contesto espressivo e comunicativo in cui sono state inserite, diffamatorie, cioè tali da screditare la reputazione dell’odierno resistente.

Nè è più possibile la verifica, invocata dai ricorrenti, della correttezza di tale conclusione in riferimento ai criteri che devono ispirare il giudice del merito a proposito del giudizio sulla continenza, quando sia in considerazione l’esercizio del diritto di critica (per i quali, tra le altre, Cass. n. 379/2005 secondo cui “il diritto di critica, inoltre, non diversamente da quello di cronaca,- è condizionato, quanto alla legittimità del sue esercizio, dal limite della continenza, sia sotto l’aspetto della correttezza formale dell’esposizione, sia sotto quello sostanziale della non eccedenza dei limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse, e dev’essere accompagnato da congrua motivazione del giudizio di disvalore incidente sull’onore o la reputazione.

Tuttavia, allorquando la narrazione di determinati fatti, per essere esposta insieme ad opinioni dell’autore, rappresenti nel contempo esercizio del diritto di cronaca e di quello di critica, la valutazione di continenza non può essere condotta sulla base degli indicati criteri di natura essenzialmente formale, ma deve lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti, di modo che la critica non può ritenersi sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, essendo, invece, decisivo, ai fini del riconoscimento dell’esimente, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, il quale è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza del fatto oggetto della critica”, nonchè, di recente, Cass. n. 25/2009).

Infatti, per poter affermare che, nel caso di specie, il giudice di merito avrebbe errato nell’effettuare il pur dovuto bilanciamento tra l’interesse individuale alla reputazione e l’interesse alla libera manifestazione del pensiero, relativamente a fatti, oggetto di critica, rilevanti per la pubblica opinione, questa Corte dovrebbe poter sindacare proprio quel vizio di motivazione, con riguardo al quale il ricorso è stato reputato inammissibile.

3.1.- In diritto appare fondata la critica mossa dai ricorrenti, enunciando il primo dei quesiti di diritto sopra riportati, rispetto alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata secondo cui, anche quando si eserciti il diritto di critica, “i fatti narrati devono avere un riscontro fenomenologico nella realtà, e l’autore del volume non deve introdurre elementi aggiuntivi posto che egli si pone come semplice intermediario tra il fatto e l’opinione pubblica e che al diritto-dovere di informare corrisponde il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati” e non sarebbe ammissibile che “il giornalista fornisca verità offensive, putative o immaginarie, senza prova del requisito della verità dei fatti”.

Così come enunciato dalla Corte d’Appello di Milano, il limite in parola è certamente applicabile alla scriminante del diritto di cronaca, non anche a quella del diritto di critica.

E’ vero che si è affermata un’equiparazione di base dei presupposti per l’esercizio legittimo dei due diritti (cfr., tra le altre, Cass. n. 20140/2005 secondo cui “presupposti per il legittimo esercizio del diritto di critica, allo stesso modo del diritto di cronaca, rispetto al quale consente l’uso di un linguaggio più pungente ed incisivo, sono: a) l’interesse al racconto, ravvisabile quando anche non si tratti di interesse della generalità dei cittadini, ma di quello generale della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la pubblicazione di stampa; b) la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti, nel che propriamente si sostanzia la c.d. continenza, nel senso che l’informazione di stampa non deve trasmodare in argumenta ad hominem nè assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro; c) la corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, nel senso che deve essere assicurata l’oggettiva verità del racconto, la quale tollera, perciò, le inesattezze considerate irrilevanti se riferite a particolari di scarso rilievo e privi di valore informativo”), tuttavia è sottolineato da numerosi precedenti di questa Corte, che devono qui intendersi richiamati, il differente modo di operare dei limiti in parola, con riguardo al diritto di critica, in specie politica ed in specie con riferimento al limite – che rileva nel caso in esame – della verità dei fatti enunciati.

In proposito, i principi cardine cui il giudice di merito deve improntare la propria valutazione sono quelli per i quali “il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, la quale, come tale, non può che essere fondata su un’interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta, fermo restando che il fatto o comportamento presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca” (Cass. n. 379/2005).

Pertanto, l’affermazione della Corte d’Appello di Milano appare scorretta laddove si pone in contrasto con l’evidenziata differenza per la quale il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella narrazione veritiera dei fatti, ma si esprime per sua natura in un giudizio, che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi (cfr., in questo senso, anche Cass. n. 26999/2005). Ne segue che, invece di invocare a fondamento della propria decisione la mancata prova dei fatti oggetto di critica, il giudice di merito avrebbe dovuto distinguere, in diritto, l’attività critica da quella di “intermediazione” tra il fatto e la notizia che è tipica della cronaca (che erroneamente ha richiamato nella parte centrale della motivazione), valutando che fosse stato così legittimamente esercitato quel diritto di critica, che invece è correttamente richiamato nella parte introduttiva della sentenza impugnata.

Per tali ragioni, il secondo motivo del ricorso sarebbe meritevole di accoglimento, al fine di provocare un nuovo esame in punto di operatività del limite della verità dei fatti enunciati nel libro ritenuto diffamatorio, essendo incorso il giudice di merito nel vizio di violazione di legge, con riferimento all’art. 21 della Costituzione.

Tuttavia, la ratio decidendi in parola, vale a dire quella per la quale l’autore del libro non avrebbe provato i fatti sui quali si fonda la tesi interpretativa che sorregge la sua critica politica, non è l’unica sulla quale si è basata la sentenza impugnata. Essa, infatti, dal punto di vista dello schema motivazionale, contiene palesemente due rationes decidendi. L’una è quella errata in diritto – della quale si è appena detto; l’altra è quella di cui si è detto al precedente paragrafo in punto di operatività del limite della continenza.

Risulta allora del tutto consequenziale l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso, sotto il profilo in questione, per difetto di interesse al suo accoglimento. Questo, infatti, lascerebbe sopravvivere l’altra ratio decidendi della sentenza impugnata, idonea da sola a sorreggere la decisione di accoglimento dell’originaria domanda risarcitoria.

4.- Essendo la presente decisione fondata in parte prevalente su ragioni di rito, al cui esito sfavorevole ai ricorrenti si contrappone, quanto al secondo motivo, la fondatezza della contestazione di una delle rationes decidendi poste a base della condanna nel merito, si ritiene di giustizia la compensazione integrale delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2011

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