Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7846 del 06/04/2011

Cassazione civile sez. III, 06/04/2011, (ud. 07/02/2011, dep. 06/04/2011), n.7846

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMATUCCI Alfonso – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2273/2009 proposto da:

E.P. ELETTROSISTEMI PROFESSIONALI S.C.A.R.L. (OMISSIS), in

persona del liquidatore Signor N.G., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio

dell’avvocato ALBERICI Raffaele, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MORICI MAURIZIO giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è difesa per legge;

– controricorrente –

e contro

T.P., B.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1058/2008 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA –

Sezione Seconda Civile, emessa il 13/11/2007, depositata il

26/06/2008, R.G.N. 2221/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

07/02/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato FABRIZIO FEDELI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento p.q.r. del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La E.P. Elettrosistemi Professionali s.c. a r.l., in persona del liquidatore, propose impugnazione dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna avverso la sentenza del Tribunale di Bologna, con la quale era stata rigettata la domanda, proposta dalla, stessa società, di dichiarazione di responsabilità, ex lege n. 117 del 1988, del giudice delegato e del Tribunale fallimentare di Firenze, con conseguente condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al risarcimento dei danni subiti, nonchè a rilevare indenne la società cooperativa per i danni subiti dai soci e da terzi in conseguenza della illegittima dichiarazione di fallimento.

Già in primo grado la società aveva dedotto che la sentenza dichiarativa del fallimento, pronunciata dal Tribunale di Firenze il 13 giugno 1990 col n. 206, sarebbe stata frutto di colpa grave ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, laddove: aveva menomato il diritto di difesa della società, la quale, citata a comparire per un’udienza prefallimentare in un giorno già passato al tempo della notifica, legittimamente aveva confidato nella invalidità dell’avviso; aveva ritenuto ritualmente effettuato l’avviso a comparire, quando invece il provvedimento di convocazione era stato notificato alla società diversi giorni dopo la data fissata per l’udienza ed aveva addirittura tratto argomenti di prova dalla mancata comparizione e supposta inerzia processuale del debitore;

aveva, infine, dichiarato il fallimento, senza il previa adeguata attività istruttoria. La società istante in primo grado aveva aggiunto che le medesime attività illecite sarebbero state ascrivibili anche ai giudici che avevano successivamente emesso la sentenza del 7/2-15/3/1992 n. 1660 con la quale era stata respinta l’opposizione alla dichiarazione di fallimento. La società aveva esposto altresì che, con sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 780 del 1994, la dichiarazione di fallimento era stata revocata;

che durante il tempo impiegato ad ottenere la revoca della ingiusta sentenza di fallimento, ed a causa della stessa, si erano prodotti danni quantificati in L. 2.145.000.000, dei quali chiedeva il risarcimento.

Avverso la sentenza del Tribunale di Bologna, che aveva rigettato la domanda, ritenendo che non fosse sussistente il nesso di causalità tra l’errore commesso dal Tribunale fallimentare di Firenze ed i danni lamentati, la società, con i motivi di appello, rilevò: 1) che il Tribunale non aveva considerato che la sentenza n. 1660 del 1992 (che, secondo lo stesso Tribunale di Bologna, aveva interrotto il nesso di causalità tra la sentenza n. 206 del 1990 ed i danni subiti) era stata riformata dalla sentenza n. 780 del 1994 emessa dalla Corte d’Appello di Firenze, che aveva revocato la sentenza dichiarativa di fallimento e quindi sarebbe stata così comprovata, proprio in ragione della revoca della dichiarazione di fallimento, la sussistenza del nesso causale tra la ingiusta sentenza n. 206 del 1990 e i danni subiti dalla società; 2) che il giudice a quo sarebbe caduto in contraddizione rispetto a quanto motivato nell’ordinanza del 7 novembre 2000 (in sede di giudizio di ammissibilità dell’azione di responsabilità), laddove si era dato atto che i giudici che avevano pronunciato la sentenza n. 206 del 1990 erano incorsi in colpa grave ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. b), “affermando l’esistenza di una circostanza di fatto, la cui esistenza era incontrovertibilmente esclusa dagli stessi atti del procedimento”.

2.- La Corte d’Appello di Bologna ha rigettato l’appello, correggendo però la motivazione della sentenza del Tribunale e ritenendo, nel caso di specie, non sussistente la “negligenza inescusabile” dell’attività giudiziaria svolta dai magistrati della sezione fallimentare del Tribunale di Firenze, che avevano pronunciato la sentenza dichiarativa del fallimento della società appellante E.P. Elettrosistemi Professionali soc. coop. a r.l.; la Corte d’Appello ha ritenuto altresì fondata l’eccezione di concorso del fatto colposo della danneggiata ex art. 1227 c.c., comma 2, che ha considerato tempestivamente proposta in primo grado dall’Avvocatura Generale dello Stato in difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri;

ha, infine, condannato l’appellante al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado.

3.- Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna propone ricorso per cassazione la E.P. Elettrosistemi Professionali soc. coop. a r.l., a mezzo di tre motivi. Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro- tempore.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo del ricorso è dedotta violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 112 e 346 c.p.c., per avere la Corte d’Appello pronunciato sul presupposto dell’insussistenza della colpa grave dei magistrati che, secondo la ricorrente, in quanto già ritenuto sussistente in primo grado, non avrebbe formato oggetto di impugnazione alcuna nè in via principale nè in via incidentale, tanto da doversi ritenere ormai coperto dal giudicato.

Sostiene la ricorrente che la colpa grave a carico dei giudici del Tribunale di Firenze – sezione fallimentare sarebbe stata già accertata con l’ordinanza emessa dal Tribunale di Bologna in data 7 novembre 2000, che aveva pronunciato in ordine all’ammissibilità dell’azione, e sarebbe stata confermata dallo stesso Tribunale di Bologna con la sentenza di primo grado, poichè aveva definito il giudizio, ritenendo sussistente l’errore e rigettando la domanda risarcitoria unicamente sul presupposto della mancanza del nesso causale tra “l’errore indubbiamente commesso dal Tribunale nell’emettere la sentenza n. 206/1990 (errore consistito nell’aver dato atto contrariamente al vero – dell’avvenuta regolare convocazione del debitore in Camera di Consiglio ai sensi della L. Fall., art. 11, e di aver tratto elementi di convincimento – anche – dal supposto atteggiamento inerte del debitore stesso, non comparso) e i danni lamentati da parte attrice”. In particolare, secondo la ricorrente, si sarebbe formato il giudicato sul capo della sentenza di primo grado che avrebbe sancito la sussistenza del requisito della colpa grave “quale presupposto dell’ammissibilità della domanda risarcitoria”, poichè non vi era stato appello su tale precipuo punto.

1.1.- Il motivo è infondato.

Il Tribunale di Bologna, con la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado, non si è affatto pronunciato in merito alla sussistenza della colpa grave dei magistrati della sezione fallimentare del Tribunale di Firenze.

Per come risulta, anche per tabulas, dalla parte di motivazione della sentenza conclusiva del primo grado riportata in ricorso, il Tribunale si è limitato, con tale sentenza, a dare atto dell’errore compiuto dai giudici fiorentini nel ritenere che la convocazione della società debitrice in sede prefallimentare fosse stata regolare, ma non si è affatto pronunciato sulla sussistenza della colpa grave ai sensi della L. n. 117 del 1988, specificamente ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b).

Nè può rilevare in senso contrario, come sembra sostenere la ricorrente, che l’ordinanza dello stesso Tribunale di Bologna, in data 7 novembre 2000, conclusiva della fase relativa all’ammissibilità dell’azione, avesse concluso nel senso della sussistenza di tutti i requisiti per tale ammissibilità (con riguardo alla sentenza dichiarativa di fallimento n. 206 del 1990), compreso il requisito della colpa grave ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, sub b).

Infatti, l’ambito della cognizione nel procedimento contemplato dall’art. 5 di tale ultima legge, per la preventiva decisione sull’ammissibilità o meno dell’iniziativa del soggetto che si dichiara danneggiato dall’operato del giudice, è del tutto peculiare e diverso da quello che connota la fase successiva alla declaratoria di ammissibilità, quando il processo prosegue ai sensi del comma 5 dell’art. 5.

Il comma 3 del citato art. 5 stabilisce che “la domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini od i presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4, ovvero quando è manifestamente infondata”. Il procedimento sull’ammissibilità dell’azione è strutturato secondo il rito camerale (nelle fasi davanti ai tribunale ed alla Corte d’Appello), ma con tutela del contraddittorio e della facoltà d’impugnazione: l’oggetto della cognizione è infatti duplice, per come è reso evidente dal dato normativo che contrappone, alle altre, l’ipotesi della manifesta infondatezza della domanda; come già ripetutamente affermato da questa Corte, siffatta previsione normativa porta a ritenere che il procedimento “si mantiene sul piano meramente delibativo solo quanto al riscontro della sussistenza degli elementi addotti a fonte di responsabilità del magistrato, nel senso che, ove non sia evidente la pretestuosità della relativa deduzione, rimane devoluta al successivo giudizio di merito ‘approfondita valutazione della sua fondatezza; il procedimento stesso ha invece carattere pieno definitivo in ordine ai presupposti ed ai termini dell’azione, e, quindi, richiede una decisione esaustiva e vincolante circa lindividuabilità, nei fatti esposti dalla parte attrice, dei casi di responsabilità elencati dall’art. 2” (così Cass. n. 6950/1994 e numerose altre successive).

Dato quanto sopra, l’affermazione della ricorrente secondo cui il requisito della colpa grave sarebbe un presupposto di ammissibilità della domanda di responsabilità, la cui sussistenza, essendo oggetto dell’ordinanza conclusiva di detta fase, dovrebbe con questa ritenersi accertata (o negata), pur non essendo in sè completamente errato, merita tuttavia le seguenti precisazioni.

Nel giudizio di ammissibilità ai sensi della L. n. 117 del 1988, art. 5, si valuta, con la cognizione piena e definitiva di cui è detto sopra, il rispetto de “… i presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4”, tenendo conto delle allegazioni della parte istante, nel senso che i fatti esposti dalla parte attrice devono essere coerenti con quanto previsto dai richiamati articoli della stessa legge, cioè, tra l’altro, riconducibili ad una delle fattispecie di responsabilità previste dall’art. 2, comma 3 (ed, inoltre, non devono consistere in un’attività di interpretazione di norme di diritto nè di valutazione del fatto e delle prove, essendo l’indagine sul carattere non interpretativo della violazione di legge o sulla natura puramente percettiva dell’errore di fatto, che si prospetti come causativo di danno, un altro momento dell’attività cognitoria del giudice in sede di esame dell’ammissibilità: cfr.

Cass. n. 22540/2006). In proposito, rilevano i precedenti di questa Corte per i quali siffatto giudizio di ammissibilità va compiuto esclusivamente ex actis, cioè alla stregua degli atti del procedimento, rimanendo devoluta al successivo giudizio di merito l’approfondita valutazione della fondatezza dell’azione (cfr. Cass. n. 8260/99). Questo sta a significare che, tenendo conto delle allegazioni delle parti, il giudice dell’ammissibilità valuta, in primo luogo, la riconducibilità, in astratto, dei fatti e dei comportamenti denunciati a quelli delineati nel precedente art. 2, comma 3.

E’ vero, peraltro, che in sede di giudizio di ammissibilità, il giudice debba compiere anche una prima delibazione, in concreto, della fondatezza della domanda, ma, alla stregua dei differenti criteri che regolano la cognizione in tale fase, come sopra esposti, tale valutazione, la quale pure va compiuta esclusivamente ex actis, presuppone una cognizione meramente delibativa e, per così dire, in negativo, essendo l’infondatezza ragione di inammissibilità della domanda quando sia manifesta e, cioè, emerga dagli atti senza necessità di indagini o accertamenti ulteriori (cfr. Cass. n. 25123/06); viceversa, quando la domanda sia ammissibile per non essere “manifestamente infondata” ogni ulteriore accertamento sulla sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità del magistrato è demandato al giudizio di merito.

Una volta dichiarata ammissibile la domanda, il processo prosegue, ai sensi dell’art. 5, comma 5: la prosecuzione del processo è quindi funzionale a valutare con cognizione piena la sussistenza della condotta (dolosa o) gravemente colposa del magistrato e dei danni lamentati, nonchè del nesso di causalità tra la prima ed i secondi, quali elementi costitutivi dell’insorgenza del credito risarcitorio (quindi, attinenti al fondamento nel merito della domanda), alla stregua di canoni valutativi ricavabili in generale dell’art. 2043 c.c., e nell’osservanza dei relativi criteri di riparto dell’onere della prova. In questo giudizio, la colpa grave del magistrato è oggetto dell’accertamento giudiziale, non più quale presupposto di ammissibilità della domanda, ma piuttosto quale presupposto della sua fondatezza. Essendo la colpa grave elemento soggettivo costitutivo della responsabilità del magistrato, non coincide con l’errore in cui questi sia incorso nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, anche se lo presuppone. Trattasi di una colpa tipizzata secondo le ipotesi contemplate dall’art. 2, comma 3, che implica addirittura un quid pluris anche rispetto alla colpa grave delineata dall’art. 2236 c.c. (nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come “non spiegabile” e, cioè, senza agganci con le particolarità della vicenda idonee a rendere comprensibile anche se non giustificato l’errore del magistrato: cfr. Cass. n. 25133/2006): specificamente, la fattispecie dedotta nel presente giudizio presuppone l’errore dovuto, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. b), all’affermazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento, ma richiede anche che il magistrato sia incorso in tale errore per “negligenza inescusabile”. Si tratta di due distinte componenti della condotta del magistrato, l’una, oggettiva, costituita dall’errore, l’altra, soggettiva, costituita dalla colpa grave, che la stessa legge qualifica come negligenza inescusabile.

Segue a quanto sin qui detto, in primo luogo, che quanto affermato in tema di colpa grave, ascrivibile ai magistrati del Tribunale di Firenze – sezione fallimentare, con l’ordinanza del 7 novembre 2000 non può essere considerato come un accertamento suscettibile di passare in giudicato relativamente alla sussistenza dell’elemento soggettivo in parola, in quanto la portata della pronuncia è limitata ad escludere la manifesta infondatezza dell’azione ed a dichiarare la stessa ammissibile, poichè esercitata con riguardo ai presupposti di cui alla L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. b).

In secondo luogo, segue a quanto detto sui rapporti tra l’errore e la causa di esso, che non è sufficiente all’affermazione di responsabilità nel giudizio di merito che segue la fase dell’ammissibilità, la mera dichiarazione di esistenza dell’errore per ritenere sussistente ed affermata anche al colpa grave, nel suo peculiare atteggiarsi di “negligenza inescusabile”.

Orbene, nel caso di specie, il Tribunale di Bologna, con la sentenza conclusiva del giudizio di merito, si è limitato ad affermare l’esistenza dell’errore, ma non ha affrontato la questione della qualificazione della condotta dei magistrati, incorsi in tale errore, in termini di negligenza, scusabile ovvero inescusabile, in quanto ha ritenuto preliminare la delibazione di un altro degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità, cioè del nesso di causalità tra il riscontrato errore, quindi tra la sentenza dichiarativa di fallimento cui aveva dato luogo, ed i danni lamentati dalla società istante.

La sentenza di primo grado non ha esaminato la condotta dei giudici della sezione fallimentare dal punto di vista soggettivo, non si è quindi pronunciata sulla qualificazione di tale condotta in termini di colpa, non ha perciò affermato la sussistenza della colpa grave e nemmeno l’ha presupposta; anzi, ha ritenuto di non dover procedere all’esame dell’elemento soggettivo poichè, pur avendo riscontrato la sussistenza di un errore di fatto, ha reputato che questo non potesse essere causalmente connesso ai danni lamentati dalla società attrice. Tale conclusione ha raggiunto sostenendo che il nesso di causalità tra la sentenza dichiarativa di fallimento, cui quell’errore aveva dato luogo, ed i danni che, secondo la società, la statuizione aveva provocato, era stato interrotto dalla sentenza del Tribunale di Firenze n. 1660 del 1992 che aveva rigettato l’opposizione a quella dichiarazione di fallimento.

2.- Col secondo motivo di ricorso la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (L. n. 117 del 1988, art. 2, par. 3, lett. b,) in relazione alla mancata declaratoria della sussistenza della colpa grave quale configurata dalla norma appena indicata.

Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello di Bologna sarebbe pervenuta alla disapplicazione di tale norma, negando nel caso concreto la configurabilità della colpa grave del magistrato così come definita dalla giurisprudenza di legittimità da essa stessa richiamata. In particolare, secondo la ricorrente, il giudice di merito avrebbe omesso di analizzare compiutamente i precedenti giurisprudenziali, senza, rendersi conto che la Corte di Cassazione avrebbe deciso in modo contrario a quanto ritenuto dalla corte d’appello, talchè la sentenza n. 2.5133/2006, citata come argomento a sostegno della tesi espressa dal giudice del merito, affermerebbe invece un principio del tutto opposto. Più specificamente, nel caso di specie, contrariamente a quanto direbbe la sentenza impugnata, il Tribunale di Firenze avrebbe omesso di analizzare gli atti relativi alla notifica dell’avviso di comparizione, poichè la ritenuta “ritualità della notifica” era esclusa, in maniera evidente, dagli atti processuali e ciò confermerebbe che questi, per disattenzione e per negligenza, non sarebbero stati esaminati, perchè altrimenti il Tribunale si sarebbe accorto che la convocazione a comparire all’udienza pre-fallimentare era avvenuta per un giorno già decorso al momento della notifica e nel quale l’udienza non aveva avuto luogo. Questo errore, che, secondo la ricorrente, darebbe luogo ad un classico caso di scuola di colpa grave del magistrato, sarebbe stato rilevato già in sede di ordinanza ammissiva del giudizio di responsabilità del 7 novembre 2000.

La conclusione, compendiata nel relativo quesito di diritto, è che il giudice di secondo grado sarebbe incorso nella violazione o falsa applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. b), per avere ritenuto insussistente il requisito della colpa grave, intesa come negligenza inescusabile del magistrato, dovendo tale inescusabilità consistere “non tanto nella erronea interpretazione delle risultanze processuali (erroneo apprezzamento dei dati acquisiti), quanto nell’omissione dell’esame per disattenzione o negligenza di parte decisiva delle risultanze stesse”.

2.1.- La Corte d’Appello di Bologna ha rigettato l’impugnazione sulla base di due diverse rationes decidendi, la principale delle quali è data dalla ritenuta insussistenza del requisito della colpa grave dei magistrati.

Quest’ultima conclusione è stata raggiunta dal giudice del merito previa enunciazione dei principi giuridici ai quali ha dichiarato di attenersi. Non vi è dubbio che, come peraltro rilevato dalla stessa ricorrente, si tratti di principi assolutamente consolidati, in quanto espressi in numerosi precedenti di questa Corte, tra cui anche la sentenza del 27 novembre 2006 n. 25133, citata in motivazione, per la quale “va ravvisato l’errore rilevante ai sensi delle lettere b) e c) del suddetto art. 2, comma 3, ove il giudice abbia posto a fondamento del suo giudizio elementi del tutto avulsi dal contesto probatorio di riferimento, mentre lo stesso errore deve essere escluso nell’ipotesi in cui il giudice abbia ritenuto sussistente una determinata situazione di fatto senza elementi pertinenti ovvero sulla scorta di elementi insufficienti che, però, abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tal caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti”. Nell’applicare questi principi al caso di specie, la Corte d’Appello di Bologna ha disatteso la motivazione della sentenza di primo grado ed ha ritenuto che l’avere i giudici fiorentini, che ebbero a dichiarare il fallimento, rilevato in sentenza “che il debitore era stata ritualmente citato a comparire” farebbe sì che manchi nel caso di specie “proprio quel quid pluris che è richiesto perchè possa parlarsi di negligenza inescusabile”.

2.2.- Orbene, premesso che i principi di diritto cui la sentenza d’appello si è attenuta vanno in toto confermati, la valutazione della loro applicazione al caso concreto è questione di merito, incensurabile in cassazione se congruamente e logicamente motivata.

Ritiene la Corte che la motivazione della sentenza impugnata sia congrua e logica e non meritevole delle critiche rivolte dalla ricorrente.

In primo luogo, non è coerente col tenore della motivazione la censura secondo cui i giudici bolognesi non avrebbero ritenuto la colpa grave dei magistrati del Tribunale fallimentare di Firenze malgrado abbiano ritenuto che questi siano incorsi in errore per non avere “visto” le risultanze documentali relative alla notificazione dell’avviso a comparire in sede pre-fallimentare.

Al contrario, la Corte d’Appello di Bologna esclude che dalla sentenza n. 206/1990 si possa evincere che il Tribunale di Firenze non si fosse accorto dell’irregolarità della notificazione, tanto che afferma che questa formò “oggetto di un suo esame e di una sua valutazione”.

In secondo luogo, la motivazione della sentenza impugnata evidenzia che la “regolarità della notifica dell’avviso di convocazione” venne affermata dai giudici fiorentini in quanto comunque questi avrebbero valutato che vi sarebbe stata la “regolare, ricezione dell’atto da parte dell’interessata debitrice” (cfr. pag. 9 della sentenza impugnata).

Pur reputando tali elementi insufficienti a raggiungere la conclusione – raggiunta invece dalla sentenza dichiarativa del fallimento – della rilevanza da attribuire, ai fini del decidere, alla mancata comparizione della società debitrice in sede prefallimentare, la Corte d’Appello di Bologna ha evidenziato in motivazione che detti elementi avevano tuttavia formato oggetto di un esame e di una valutazione in sede di pronuncia della sentenza di fallimento. Sulla scorta di tale apprezzamento di fatto – su cui questa Corte non può certo intervenire – ha concluso applicando correttamente la giurisprudenza sopra richiamata, per la quale non è riconducibile nell’area di applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. b), il caso nel quale il giudice ritenga il verificarsi di una situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti, che però abbiano formato oggetto di esame e valutazione, trattandosi in tale caso di errato apprezzamento dei dati acquisiti (cfr., oltre a Cass. n. 25133/2006 cit., Cass. n. 6950/1994 e Cass. n. 12357/1999).

2.3.- D’altronde che questo e non altro sia il senso da attribuire alla, seppur stringata, comunque coerente e corretta, motivazione della sentenza impugnata è confermato dalla considerazione che in nessuno dei passaggi motivazionali si afferma che la sentenza n. 206 del 1990, dichiarativa del fallimento, sìa incorsa in un errore di fatto, per di più incontestabilmente evidente, quale sarebbe stato quello di ritenere valida la notificazione effettuata in data successiva a quella della relativa convocazione. Piuttosto, la sentenza della Corte d’Appello di Bologna evidenzia come la sentenza sub iudice si sia soffermata a ritenere rilevante il dato di fatto che comunque la società debitrice avesse ricevuto la citazione a comparire davanti al giudice delegato ed abbia erroneamente interpretato tale dato di fatto come sufficiente ad attribuire alla mancata attivazione del debitore rilevanza determinante ai fini della dichiarazione di fallimento. La motivazione in tal senso non è censurabile quanto all’interpretazione che la Corte d’Appello di Bologna da della sentenza dichiarativa del fallimento, poichè, come detto, trattasi di questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice del merito.

Neppure può ritenersi che un’interpretazione siffatta e, quindi, la relativa motivazione siano illogiche, poichè l’una e l’altra del tutto coerenti con una possibile interpretazione dell’obbligo di informazione sancito dalla L. Fall., art. 15 (come risultante dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 141/1970), secondo cui il rispetto del contraddittorio nella fase prefallimentare si sarebbe potuto realizzare anche con la mera conoscibilità da parte del debitore dell’azione fallimentare in corso. Con ciò non si intende affatto entrare nel merito dell’interpretazione della sentenza dichiarativa del fallimento, ma soltanto dare conto della congruità dell’interpretazione che di essa ha dato la Corte d’Appello di Bologna quando ha inteso attribuire rilevanza all’affermazione contenuta in detta sentenza che “il debitore era stato ritualmente citato a comparire”.

2.4.- Poichè l’errato apprezzamento dei dati acquisiti, reputato dalla Corte d’Appello, sì traduce, nel caso di specie, non in un errore di fatto a carattere c.d. revocatorio, quale è quello che contempla il legislatore nelle previsioni della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 3, lett. b) e c), bensì in un’attività interpretativa di norme di diritto che – a conclusione del giudizio dinanzi all’autorità giudiziaria fiorentina, avutasi con la sentenza della Corte d’Appello di Firenze n. 780/1994 – può essere reputata erronea, ma non causa di responsabilità ex lege n. 117 del 1988 (arg. ex art. 2, comma 2, di tale legge), il secondo motivo del ricorso si palesa infondato.

3.- Col terzo motivo di ricorso la società ricorrente pur deducendo violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 345 c.p.c. e art. 1227 c.c., comma 2, con riguardo all’art. 360 c.p.c., n. 3, in effetti lamenta un error in procedendo in cui sarebbe incorso il giudice d’ appello per avere ritenuto proponibile per la prima volta in appello l’eccezione svolta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri ai sensi del secondo comma dell’art. 1227 c.c. (che esclude il diritto al risarcimento del danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua produzione). Secondo la ricorrente, infatti, trattandosi di eccezione in senso stretto, non rilevabile d’ufficio, la parte debitrice l’avrebbe dovuta sollevare tempestivamente in primo grado, non essendo ammissibile in appello ex art. 345 c.p.c., e, poichè ciò non avrebbe fatto tramite specifica istanza (non avendo allo scopo rilevanza alcuna le argomentazioni in fatto che, invece, secondo il giudice del gravame, sarebbero state sollevate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri nella comparsa di costituzione di primo grado), la Corte d’Appello l’avrebbe dovuta dichiarare inammissibile.

In effetti, la censura corrisponde alla motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte d’appello, dopo avere svolto delle considerazioni in fatto sul comportamento tenuto dalla società debitrice destinataria dell’avviso di comparizione in sede prefallimentare nell’intervallo di tempo trascorso tra la ricezione di tale avviso e la sentenza dichiarativa del fallimento, così motiva: “anche sotto questo profilo va quindi valutato l’operato dei giudici, avendo tra l’altro la Presidenza del Consiglio dei Ministri appellata eccepito in questo grado, come già dedotto specificamente in fatto nella comparsa di risposta depositata in primo grado, il descritto contegno del preteso danneggiato che, avendo omesso di comportarsi secondo buona fede, concorre colposamente ad aggravare il danno (Cass. civ. sentenza n. 11672 del 29 luglio 2003 e altre conformi) …omissis. ..”.

3.1.- Detto questo, peraltro, non ritiene questa Corte di dover approfondire il motivo di censura, con riguardo agli atti di causa, atteso che esso è inammissibile per difetto di interesse. La sentenza impugnata è fondata su due distinte rationes decidendi, attinenti l’una al difetto del requisito della colpa grave del magistrato e l’altra all’accoglimento dell’eccezione ex art. 1227 c.c., comma 2. L’eventuale accoglimento del terzo motivo di ricorso lascerebbe sopravvivere l’altra ratio decidendi della sentenza impugnata, idonea da sola a sorreggere la decisione di rigetto dell’originaria domanda risarcitoria.

4.- Avuto riguardo a tale ultima declaratoria di inammissibilità (che non esclude la fondatezza in sè del motivo di ricorso) ed alla circostanza che i diversi giudici di merito che si sono occupati della vicenda processuale in esame abbiano variamente e diversamente apprezzato i fatti, sui quali a questa Corte è preclusa ogni ulteriore valutazione, si ritiene di giustizia compensare le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2011

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