Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 780 del 16/01/2014


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Civile Sent. Sez. U Num. 780 Anno 2014
Presidente: RORDORF RENATO
Relatore: MAZZACANE VINCENZO

Data pubblicazione: 16/01/2014

SENTENZA

sul ricorso 10223-2010 proposto da:
CAPOTOSTI MAURA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
2013

AQUILEIA 12, presso lo studio degli avvocati MORSILLO

663

ANNA, MORSILLO ANDREA, che la rappresentano e
difendono, per delega in calce al ricorso;
– ricorrente contro

CONSIGLIO

DELL’ORDINE

DEGLI

AVVOCATI

DI

ROMA,

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE
SUPREMA DI CASSAZIONE, PROCURATORE GENERALE DELLA
REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI ROMA,
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI

– intimati –

avverso la decisione n. 259/2009 del CONSIGLIO
NAZIONALE FORENSE, depositata il 31/12/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 17/12/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO
MAZZACANE;
udito l’Avvocato Flora DE CARO per delega dell’avvocato
Morsillo;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott.
UMBERTO APICE, che ha concluso per il rigetto del
ricorso.

ROMA;

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Maura Capotosti, pubblico dipendente a tempo parziale, veniva iscritta nell’albo degli avvocati di
Roma in base alla disposizione di cui all’art. 1 comma 56 della legge 23-12-1996 n. 662, che
consentiva tale doppia attività.

Capotosti manifestava la sua intenzione di continuare a mantenere il rapporto di pubblico
impiego, esercitando nel contempo la professione di avvocato.

IL COA di Roma, ritenendo la sussistenza della incompatibilità, ordinava la cancellazione della
Capotosti dall’albo con decisione del 19-3-2009 che veniva impugnata dalla interessata davanti al
CNF il quale con la pronuncia del 31-12-2009 ha rigettato il ricorso.

Avverso tale decisione la Capotosti ha proposto un ricorso affidato a nove motivi; nessuna delle
parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 100-102 c.p.c. e 24 Cost. per non
essere stato notificato al P.M. presso la Corte di Appello di Roma il provvedimento di cancellazione
dell’esponente dall’albo degli avvocati.

La censura è infondata.

Premesso che il CNF ha rilevato che l’eventuale omessa notifica della decisione impugnata al P.M.
_ presso la Corte di Appello di Roma non aveva inciso sulla validità del procedimento, si osserva che

la ricorrente non ha prospettato in termini concreti il pregiudizio subito per effetto di tale omessa
notifica; in particolare il riferimento alle funzioni di garanzia esercitate dal P.M. in quanto titolare

i

A seguito dell’entrata in vigore della legge 25-11-2003 n. 339, di modifica della precedente, la

di un interesse pubblico è superato dal rilievo che l’esercizio di tali funzioni è stato nella fattispecie
salvaguardato dalla partecipazione del P.M. presso la Corte di Cassazione al procedimento svoltosi
davanti al CNF.

Con il secondo motivo la Capotosti deduce violazione dell’art. 14 “bis” della legge n. 11/2005, il

comportante un trattamento discriminatorio in danno di cittadini italiani rispetto agli altri cittadini
comunitari ammessi a svolgere l’attività forense in Italia.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge e dei principi di uguaglianza,
affidamento e supremazia della normativa comunitaria su quella nazionale, e vizi di motivazione;
secondo la Capotosti il CNF ha omesso di esaminare l’istanza della ricorrente volta ad evidenziare il
contrasto della legge n. 339/2003 con i suddetti principi.

Con il quarto motivo la Capotosti deduce violazione di legge ed omessa motivazione in ordine
all’istanza di disapplicazione della legge n. 339/2003 per contrasto con i principi di libera
prestazione dei servizi e di libera concorrenza.

Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione di legge per mancato rispetto del principio
del legittimo affidamento e di tutela dei diritti quesiti, considerato che l’esponente aveva svolto la
sua attività professionale per quasi otto anni dal momento della sua iscrizione all’albo al momento
della redazione del ricorso.

Con il sesto motivo la Capotosti deduce omesso esame del motivo di ricorso con il quale era stata
_ denunciata la violazione di legge, l’eccesso di potere per disparità di trattamento, la manifesta
ingiustizia e l’illegittimità e contraddittorietà della motivazione del provvedimento di cancellazione
dall’albo.

2

cui rispetto avrebbe impedito al CNF di fare applicazione dell’art. 2 della legge n. 339/2003

Con il settimo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge e vizi di motivazione per avere il
CNF prima affermato che il “thema decidendum” era diverso da quello prospettato con la sentenza
n. 390/2006 della Corte Costituzionale, e per avere poi confermato la cancellazione della Capotosti
dall’albo basando il suo ragionamento su frasi estrapolate proprio da detta sentenza e senza

costituzionale del solo art. 1 della legge n. 339/2003 (concernente il divieto di iscrizione di
aspiranti avvocati part — time o di ulteriori iscrizioni di dipendenti pubblici part — time) e non anche
dell’art. 2 concernente la diversa posizione di dipendenti pubblici part — time già iscritti.

Con l’ottavo motivo la Capotosti propone istanza di rinvio alla Corte Costituzionale per illegittimità
costituzionale della legge n. 339/2003 per contrasto con gli artt. 3-35 e 41 Cost. e con i principi di
sicurezza giuridica, del legittimo affidamento e dei diritti quesiti.

Con il nono motivo la ricorrente propone istanza di rinvio alla Corte di Giustizia della Comunità
Europea per contrasto della legge n. 339/2003 con i principi di diritto comunitario di uguaglianza,
di legittimo affidamento, di violazione dei diritti quesiti, di libera concorrenza e di libera
prestazione dei servizi.

Tutte le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono
infondate.

Con riguardo ad esse, occorre fare riferimento al tessuto normativo che interessa le questioni
sollevate, muovendo dall’art. 1, commi 56-60 della legge 23-12-1996 n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica); in particolare il comma 56 stabilisce che “Le disposizioni

di cui all’articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano
l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con
3

considerare che tale sentenza aveva dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità

rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a
tempo pieno”.

Con la legge n. 339 del 2003 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di
avvocato) il legislatore disciplina nuovamente la materia con una modifica di segno contrario

delle professioni, ma soltanto specificatamente la professione di avvocato, prevede all’art. 1 che

“Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge n. 662 del 1996 non si
applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al
regio decreto – legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22-11934 n. 36, e successive modificazioni.”; il successivo art. 2 dispone che gli avvocati dipendenti
pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base della richiamata normativa del
1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico
impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (secondo comma), ed il
mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di
pubblico impiego (terzo comma); in questa seconda ipotesi il dipendente pubblico part — time
conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (quarto comma);
inoltre l’art. 2 primo comma dispone che in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera
professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge
stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal
proprio albo.

A tal punto deve essere esaminato l’impatto su tale disciplina della normativa di cui al decreto
legge 13-8-2011 n. 138 convertito in legge 14 9 2011 n. 148; in particolare il titolo secondo

(Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo) all’art. 3 primo comma
(Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività
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rispetto a quella di cui alla sopra menzionata normativa; tale legge, che non riguarda la generalità

economiche) stabilisce che Comuni, Province, Regioni e Stato entro il 30-9-2012 dovranno
adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica sono
libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di:

a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;

c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale;
d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle
specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
e) disposizioni relative alle attività di giochi pubblici owero che comunque comportano effetti
sulla finanza pubblica.

Il quinto comma dell’art. 3 poi prevede che gli ordinamenti professionali devono garantire che
l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni al principio di libera concorrenza, alla presenza
li

diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta
che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione
relativamente ai servizi offerti; con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi
dell’art. 17 secondo comma della legge 23-8-1988 n. 400 gli ordinamenti professionali dovranno
essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto suddetto per recepire
determinati principi ivi enunciati tra i quali è opportuno richiamare quello “sub” a) secondo il
quale l’accesso alla professione è libero ed il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e
sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista; la limitazione, in forza di
una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa
professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente
laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla
tutela della salute umana, e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla
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b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;

nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della società
professionale.

Il comma 5 “bis’ dell’art. 3 dispone poi che le norme vigenti sugli ordinamenti professionali in
contrasto con i principi di cui al comma 5, lettere da a) a g), sono abrogate con effetto dalla data di

li comma 5 “ter” inoltre prevede che il Governo entro il 31-12-2012 provvederà a raccogliere le
disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5 “bis” in un
testo unico da emanare ai sensi dell’art. 17 “bis” della legge 23-8-1988 n. 400.

Successivamente è stato emanato il D. P. R. 7-8-2012 n. 137 (Regolamento recante riforma degli
ordinamenti professionali a norma dell’articolo 3 comma 5 del decreto legge 13-8-2011 n. 138
convertito con modificazioni dalla legge 14-9-2011 n. 148) il cui articolo 2 (Accesso ed esercizio
dell’attività professionale) prevede:

‘t Ferma la disciplina dell’esame di Stato, quale prevista in attuazione dei principi di cui
all’articolo 33 della Costituzione, e salvo quanto previsto dal presente articolo, l’accesso alle
professioni regolamentate è libero. Sono vietate limitazioni alle iscrizioni agli albi professionali che
non sono fondate su espresse previsioni inerenti al possesso o al riconoscimento dei titoli previsti
dalla legge per la qualifica e l’esercizio professionale, ovvero alla mancanza di condanne penali o
disciplinari irrevocabili o ad altri motivi imperativi di interesse generale.

2. L’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia e indipendenza di giudizio,
intellettuale e tecnico. La formazione di albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività
professionale, fondati su specializzazioni ovvero titoli o esami ulteriori, è ammessa solo su
previsione espressa di legge.

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entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma 5 e, in ogni caso, dal 13-8-2012.

3. Non sono ammesse limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni deontologiche, del
numero di persone titolate a esercitare la professione, con attività anche abituale e prevalente, su
tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico
interesse, quale la tutela della salute. E’ fatta salva l’applicazione delle disposizioni sull’esercizio

4. Sono in ogni caso vietate limitazioni discriminatorie, anche indirette, all’accesso e all’esercizio
della professione, fondate sulla nazionalità del professionista o sulla sede legale dell’associazione
professionale o della società tra professionisti”.

Il successivo art. 12, dopo aver previsto al primo comma che le disposizioni di cui al decreto si
applicano dal giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso, al secondo comma
sancisce che “Sono abrogate tutte le disposizioni regolamentari e legislative incompatibili con le

previsioni di cui al presente decreto, fermo quanto previsto dall’art. 3, comma 5 — bis, del decreto
— legge 13-8-2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14-9-2011, n. 148, e successive
modificazioni, e fatto salvo quanto previsto da disposizioni attuative di direttive di settore emanate
dall’Unione europea”.

Si rileva poi che non risulta essere stato finora emanato il testo unico previsto dall’ art. 3 comma 5

atee’ del sopra richiamato Decreto Legge 13 8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148.

Tanto premesso, occorre accertare se per effetto di tale normativa sia intervenuta una
abrogazione tacita della legge n. 339/2003 quanto alla incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio
della professione di awocato e l’impiego pubblico part — time.

In tale prospettiva, in particolare, con riferimento all’art. 2 comma 3 del D.P.R. n. 137/2012,
laddove si prevede che non sono ammesse limitazioni all’esercizio delle libere professioni “con

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delle funzioni notarili.

attività anche abituale e prevalente”, potrebbe porsi il quesito se tale disposizione, sancendo
l’ammissibilità di esercitare anche la professione di avvocato in misura non abituale o prevalente,
possa incidere sulla normativa di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003.

Nello stessa prospettiva è legittimo chiedersi se l’esigenza di scongiurare il rischio di

possa o meno configurarsi quale ‘motivo imperativo di interesse generale” (art. 2 n. 1 D.P.R. n.
137/2012) tale da giustificare la permanenza della suddetta incompatibilità.

Ancora potrebbe dubitarsi se una abrogazione tacita delle disposizioni sopra richiamate della legge
n. 339/2003 non sia comunque sopravvenuta alla data del 13-8-2012 per contrasto con l’art. 3
comma 5 “bis” del Decreto Legge n. 138/2011 che ha introdotto un principio di generale
liberalizzazione dei servizi professionali.

Il Collegio ritiene di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della legge n.
339/2003 per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed
assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part — time ed
esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate
proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono
scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente; la legge n.
339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il
buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde
garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad
evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse
.

della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con
quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del
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compromissione dell’indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico part — time

pubblico dipendente alla Nazione) non è facilmente conciliabile con la professione forense, che ha
il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni;
pertanto tale “ratio”, tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della
professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, esclude che con la normativa in

modalità restrittive della organizzazione di tale attività.

Al riguardo giova anche richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390
che, investita delle questioni di legittimità della nuova normativa (sostanzialmente ripristinatoria
del divieto di esercizio della professione forense a carico dei dipendenti pubblici ancorché part —
time), ha ritenuto non manifestamente irragionevole tale opzione legislativa, non potendo
ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione, da parte del legislatore, di maggiore
pericolosità e frequenza dei possibili inconvenienti derivanti dalla commistione tra pubblico
impiego e libera professione quando detta commistione riguardi la professione forense; in
proposito la Corte Costituzionale alla luce dell’art. 3 Cost. ha rilevato che il divieto ripristinato dalla
legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense
dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di

opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (art. 3 del
R. D. L. 27-11-1933 n. 1578 recante Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).

Pertanto deve escludersi che la disciplina introdotta dalla legge n. 339/2003, sancendo
l’incompatibilità tra impiego pubblico ed una professione avente una natura ed una funzione
peculiari quale quella forense, possa essere stata abrogata per effetto delle sopra richiamate
norme sopravvenute, che introducono i principi ispiratori delle attività economiche private
(Decreto Legge 13-8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148) e delle attività
professionali regolamentate il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o
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oggetto si sia inteso introdurre dei limiti all’esercizio della professione forense o comunque delle

collegi subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche
professionalità (D. P. R. 7-8-2012 n. 137); invero l’incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle
precedenti si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da
renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché dalla applicazione ed osservanza

21-2-2001 n. 2502; Cass. 1-10-2002 n. 14129), ipotesi non ricorrente nella specie alla luce delle
argomentazioni sopra svolte.

Deve inoltre aggiungersi che la successiva legge 31-12-2012 n. 247 (Nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense), ancorché non suscettibile di efficacia immediata
(invero l’art. 1 terzo comma prevede che ‘All’attuazione della presente legge si provvede mediante

regolamenti adottati con decreto del Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 17, comma 3,
della legge 23 agosto, n. 400, entro due anni dalla data della sua entrata in vigore…”), conferma
l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione
forense; infatti, considerato che l’art. 65 (Disposizioni transitorie) primo comma sancisce che “Fino

alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella presente legge, si applicano se
necessario e in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate”, e
che l’art. 18 lettera d) prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato
anche “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”,

ne

consegue logicamente che non sono stati certamente abrogati dalla legge in esame gli artt. 3 del
R.D.L. 27-11-1933 n. 1578 ed 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, che anzi sono riconducibili agli
stessi principi informatori di cui all’art. 18 citato.

Tanto premesso sulla vigenza della L. n. 339/2003, si osserva che tutte le censure sollevate dal
ricorrente riguardano da un lato i dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge
suddetta con riferimento in particolare ai principi di uguaglianza, affidamento, libera prestazione
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della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra ( Cass.

di servizi, ragionevolezza, sicurezza giuridica, e dall’altro la prospettata incompatibilità tra detta
disciplina ed i principi del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza e della libertà
di stabilimento.

Sotto il primo profilo occorre richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n.

6-6-2010, che avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale, sia in relazione agli articoli
3-4-35 e 41 Cost., sia in riferimento al parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3
secondo comma Cost., degli articoli 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, ha dichiarato non fondate
tali questioni.

Tale sentenza ha esaminato preliminarmente la questione sollevata da alcune parti private
secondo la quale l’art. 2 della legge n. 339 del 2003 non avrebbe dovuto essere applicato in
quanto, diversamente dagli awocati italiani, i legali “stabilitro “integrati”, pur non potendo
lavorare in Italia, neppure part — time, alle dipendenze owero in veste di titolari d’impiego o
ufficio retribuito a carico dello Stato italiano perché tenuti a rispettare l’art. 3 del R.D.L. 27-111933 n. 1578, potrebbero nondimeno rimanere dipendenti delle corrispondenti istituzioni
pubbliche dello Stato membro di acquisizione della qualifica professionale; in tal modo si
verificherebbe una discriminazione “al contrario” in tema di incompatibilità non più ammissibile
nei confronti degli awocati italiani ai sensi dell’art. 14 bis della legge 4-2-2005 n. 11 (Norme
generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).

In proposito la suddetta sentenza ha richiamato la già menzionata precedente pronuncia della
stessa Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390, che ha ritenuto che la normativa nazionale di
recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di
11

166 che, a seguito di due ordinanze di identico contenuto di questa Corte, Sezioni Unite Civili, del

avvocato in uno stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale
prevede espressamente che tutte le norme sulle incompatibilità si applicano anche all’avvocato

“stabilite° “integrate, ivi comprese, riguardo ai contratti di lavoro con enti corrispondenti nello
Stato di origine, le eccezioni di cui all’art. 3 quarto comma del R.D.L. n. 1578 del 1933 (art. 5

facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da
quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale”); la sentenza in oggetto ha poi evidenziato
che tale soluzione era inevitabile, atteso che la disciplina delle incompatibilità in tema di
ordinamento professionale forense — secondo il diritto vivente che ne risulta dalla giurisprudenza
di legittimità — deve essere interpretata con estremo rigore, in coerenza con la “ratio” di garantire
l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale.

Del resto anche la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea con sentenza del 2-12-2010 ha
escluso che la legge n. 339/2003 si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e
produca in tal modo una discriminazione alla rovescia.

La sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 ha poi escluso una interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa censurata, osservando che il significato letterale e
sistematico della novella non consente altra ricostruzione esegetica che quella — coerente con il
reintrodotto divieto di svolgimento contemporaneo delle due attività — dell’imposizione di una
scelta per l’una o per l’altra, da esprimere entro un determinato periodo, a quanti si fossero
trovati nella condizione, ora non più consentita, di pubblici dipendenti part — time e di avvocati; in
effetti il dato normativo è assolutamente chiaro nel prescrivere l’esercizio di un’opzione tra
l’esercizio esclusivo della professione forense e la prestazione di lavoro pubblico a tempo pieno a
tutti coloro i quali avessero ottenuto nella posizione di dipendenti pubblici part – time l’iscrizione

12

secondo comma del D. LGS. 2-2-2001 n. 96 recante “Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a

all’albo degli avvocati, con il beneficio di una fase di transizione per una migliore ponderazione
. della scelta definitiva.

Tanto premesso, la sentenza in esame ha rilevato che già la precedente sentenza del 25-11-2006
n. 390 aveva dato risposta negativa ai dubbi di legittimità costituzionale della normativa in oggetto

l’attuazione, quanto ai tempi ed ai modi, alla discrezionalità del legislatore, che nella specie non
aveva esercitato malamente il suo potere; anche in relazione all’asserito contrasto con l’art. 41
Cost., era stato escluso che i dipendenti pubblici svolgessero servizi configuranti una attività
economica, cosicché la loro attività non poteva essere considerata come quella di un’impresa;
pertanto la legge n. 339 del 2003 incide non tanto sulle modalità di organizzazione della
professione forense in termini rispettosi dei principi di concorrenza, quanto sul modo di svolgere il
servizio presso enti pubblici, ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della
prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialità e buon andamento, oltre che ad un
corretto esercizio della professione legale.

La Corte Costituzionale ha poi escluso una lesione da parte della disciplina in esame
dell’affidamento in riferimento all’art. 3 Cost., per quanto riguardava i dipendenti pubblici part —
time i quali, sulla base delle regole “permissive” del 1996, avevano affiancato al rapporto di lavoro
pubblico l’impegno professionale forense; invero in base alla giurisprudenza della stessa Corte il
valore del legittimo affidamento trova copertura costituzionale in tale articolo non in termini
assoluti ed inderogabili, non essendo interdetta al legislatore l’emanazione di disposizioni le quali
vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata,
anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo
che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale.

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riguardo agli artt. 4 e 35 Cost., ritenendo che essi, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimettono

Orbene la disciplina in esame, avendo concesso ai dipendenti pubblici part — time già iscritti
all’albo degli avvocati un primo periodo di durata triennale onde esercitare l’opzione per l’uno o
per l’altro percorso professionale e poi, ancora, un altro di durata quinquennale — in caso di
espressa scelta in prima battuta della professione forense — ai fini dell’eventuale richiesta di

carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003; pertanto la Corte
Costituzionale ha concluso che tale disciplina, lungi dal tradursi in un regolamento irrazionale
lesivo dell’affidamento maturato dai titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto
l’impero della normativa previgente, era assolutamente adeguata a contemperare la doverosa
applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto altresì
sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti
pubblici a tempo parziale già ammessi dalle legge dell’epoca all’esercizio della professione legale;
diversamente opinando, infatti, si otterrebbe il risultato, certamente irragionevole, di conservare
ad esaurimento una riserva di lavoratori pubblici part — time, contemporaneamente avvocati,
all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella
stessa persona.

Con riferimento poi al prospettato contrasto della normativa in oggetto con i principi comunitari, è
anzitutto opportuno rilevare che la legge in esame ha inciso sulle modalità di svolgimento del
servizio presso enti pubblici e non sul modo di organizzazione della professione forense, con
conseguente estraneità dei principi di concorrenza tra imprese al tema della libera circolazione
degli avvocati nell’Unione Europea; i dipendenti pubblici, d’altra parte, non svolgono servizi
configurabili come una attività economica, e la loro attività non può essere considerata come

quella di una impresa.

14

rientro in servizio, soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di

In ogni caso gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro
giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria
esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di
avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità.

2009, che aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale
relativa al possibile contrasto della legge n. 339 del 2003 ( nella parte in cui reintroduce il divieto di
svolgimento della professione forense per i pubblici dipendenti part — time) con i principi
comunitari in tema di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento e
protezione dei diritti quesiti alla luce delle direttive 77/249/CE e 98/5/CE, la suddetta Corte di
Giustizia dell’Unione europea con la già richiamata sentenza del 2-12-2010 ha ritenuto che gli artt.
3 n. 1 lett. g) CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai
dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della
professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la
loro cancellazione dall’albo degli avvocati.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato; non occorre procedere ad alcuna statuizione in ordine
alle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma il 17-12-2013

Il Consigliere estensore

at42

Pjesidente

OZPOSITATO IN CANCELLERIA

E’ comunque decisivo rilevare che, a seguito di ordinanza del Giudice di Pace di Cortona del 19-6-

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