Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7799 del 27/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 27/03/2017, (ud. 01/02/2017, dep.27/03/2017),  n. 7799

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6426/2016 proposto da:

M.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA F. MOROSINI 12, presso lo studio dell’avvocato ERMINIO

STRIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato CARMINE LOMBARDI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA PROVINCIA DI LECCO ora A.S.S.T. AZIENDA SOCIO

SANITARIA TERRITORIALE DI LECCO, C.F. (OMISSIS), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO

VINCENTI, rappresentata e difesa dall’avvocato ANITA DISCACCIATI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 760/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 03/09/2015 R.G.N. 579/15;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/02/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso in subordine il rigetto;

udito l’Avvocato CARMINE LOMBARDI;

udito l’Avvocato ANITA DISCACCIATI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di appello di Milano, con sentenza n. 760/2015, pubblicata il 3 settembre 2015, conformemente al giudizio già espresso in primo grado sia nella fase sommaria che nella fase di opposizione del rito di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e segg., riteneva legittimo il licenziamento intimato alla Dott.ssa M.G., dipendente della Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco in qualità di dirigente medico radiodiagnostica, alla quale erano stati contestati due addebiti disciplinari, unitamente alla recidiva scaturente dal precedente provvedimento del 27 aprile 2012.

1.2. Secondo la ricostruzione fornita dalla Corte territoriale, i fatti addebitati consistevano, il primo, nella indebita interferenza da parte della lavoratrice nel processo civile promosso da un paziente nei confronti dell’Azienda ospedaliera reclamata, con affermazioni pregiudizievoli per l’Azienda medesima; il secondo, nella avvenuta registrazione del colloquio intercorso in data (OMISSIS) tra la M. e una collega dirigente medico.

1.3 Evidenziavano i Giudici di appello, quanto al primo addebito, che:

– il comportamento contestato non consisteva in una denuncia formulata dalla lavoratrice nella sede competente, tant’è vero che nessun tipo di contestazione era stata mossa in relazione all’esposto, unito alla richiesta di colloquio, inviato alla Procura della Repubblica; era dunque infondato il rilievo riguardante l’applicazione, evocata dalla reclamante, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54-bis, avente ad oggetto la tutela dei dipendenti pubblici che segnalino illeciti; la norma espressamente fa riferimento alla “denuncia all’autorità giudiziaria” o “alla Corte dei conti” ovvero alla relazione al superiore di condotte illecite (tale denunce non possono essere in alcun modo sanzionate); la fattispecie in esame non ricadeva in alcuna di dette ipotesi;

– l’addebito mosso alla lavoratrice riguardava l’indebita interferenza nell’andamento di un processo civile al quale la M. era completamente estranea (non essendo nè parte, nè testimone), tale da far emergere in modo del tutto irrituale una pretesa responsabilità dell’Azienda ospedaliera; la dipendente aveva pure allegato documenti che fino a quel momento appartenevano al solo ospedale;

– la contestazione non era tardiva, poichè l’Azienda ospedaliera reclamata aveva conosciuto la circostanza, poi addebitata, solo a seguito dell’istanza di accesso agli atti presentata dall’associazione “Cinque Stelle per la Legalità” in data 20 gennaio 2014 e la contestazione venne formulata il (OMISSIS);

– le modalità con cui la lavoratrice aveva operato, anche introducendo in giudizio atti non ancora acquisiti al giudizio al solo fine di far emergere eventuali responsabilità dell’ospedale, violando il principio di riservatezza su atti interni, integrava la fattispecie disciplinare prevista dall’art. 8 lett. c) del CCNL 6 maggio 2010, oltre che dell’art. 6, commi 1, 3 e 4 del contratto collettivo integrativo della dirigenza medica del 17 ottobre 2008; si era in presenza di manifestazioni offensive nei confronti dell’azienda o comunque di comportamenti nocivi alla sua immagine e lesivi della riservatezza e della protezione dei dati personali, in violazione dei più elementari doveri di correttezza, lealtà e fedeltà, oltre che del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 2 relativo ai principi);

– nè valeva replicare, come sostenuto dalla parte reclamante, che l’immagine dell’ospedale era già pregiudicata dalla stessa azione giudiziaria promossa al paziente T., atteso che l’azione giudiziaria di per sè non pregiudica l’immagine dell’ospedale, mentre le affermazioni non richieste della lavoratrice erano propriamente dirette a condizionare il giudizio per evidenziare espressamente, in un contesto estraneo al regime processuale stesso, particolari responsabilità o condotte negligenti;

– anche solo questa prima contestazione valeva giustificare il licenziamento, considerata la contestata recidiva per il precedente procedimento disciplinare conclusosi con la sospensione di sei mesi avvenuta in data 24 luglio 2012, concernente un’aggressione verbale nei confronti del primario e frasi denigratorie nei confronti dell’Azienda con frasi “postate” su Facebook.

1.4. A volere considerare anche il secondo addebito, i Giudici di appello evidenziavano che:

– la registrazione della conversazione del colloquio intercorso tra la M. e la dipendente F., dirigente medico presso la direzione medica dell’ospedale, integrava una condotta rivelatrice di un comportamento ingiustificatamente aggressivo e polemico, tale da generare inutile disagio e timori nella collega, pregiudicando la spontanea esposizione del proprio pensiero; la dirigente F., in una mail inviata al suo superiore il (OMISSIS) aveva manifestato tale disagio;

– la contestazione era unicamente riferibile alla modalità di registrazione della conversazione e non ai suoi contenuti; la fattispecie integrava gli estremi dell’illecito disciplinare di cui all’art. 8, comma 8, lett. c) e lett. L) del contratto collettivo nazionale di settore.

1.5. In conclusione, sussistevano i presupposti per l’irrogazione del licenziamento con preavviso, previsto come sanzione (art. 8, comma 11, CCNL) in caso di recidiva nel biennio in relazione ad una mancanza che aveva comportato l’applicazione della sospensione massima di sei mesi dal servizio. La recidiva era valutabile in quanto la disciplina contrattuale di riferimento fa decorrere il biennio rilevante, ai fini della sua contestazione, dal momento dell’irrogazione della precedente sanzione.

2. Per la cassazione di tale sentenza M.G. propone ricorso affidato cinque motivi. Resiste l’Azienda Ospedaliera della Provincia di Lecco, ora A.S.S.T. Azienda Socio Sanitaria Territoriale di Lecco, che ha eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per cassazione in quanto proposto tardivamente. La medesima Azienda ospedaliera ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione falsa applicazione di norme sul procedimento disciplinare e segnatamente del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, commi 3 e 4, per essere l’atto di contestazione firmato dal Presidente dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari e non dall’Ufficio inteso nella sua composizione collegiale, da cui l’incompetenza dell’organo che l’aveva emesso e la nullità della contestazione dell’intero procedimento.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis, comma 4 e degli artt. 16 e 20 del Regolamento aziendale e art. 7 Stat. Lav., sostenendosi che la contestazione disciplinare era stata effettuata senza alcuna attività pre-istruttoria.

3. Il terzo motivo verte sulla contestazione della recidiva e denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’articolo 10 lettera B) del Regolamento Aziendale, dell’art. 8 comma 11, lett. B) CCNL, dell’art. 7, comma 2, Stat. Lav., della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 41. Si propone una diversa interpretazione della disciplina che regola la contestazione della recidiva.

4. Il quarto motivo verte su violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 18, comma 4, Stat. Lav., artt. 2106, 2104, 2119 c.c. e art. 116 c.p.c., artt. 8 e 10 C.C.N.L. dirigenza medica, art. 8 Regolamento aziendale disciplinare, D.M. 28 novembre 2000, art. 2. Si contesta la ricostruzione degli episodi oggetto della contestazione disciplinare e la loro rilevanza e gravità ai fini dell’irrogazione della sanzione.

5. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 Cost., violazione del principio di immutabilità della contestazione con riferimento al secondo addebito. Ci si duole del fatto che il Tribunale abbia ritenuto di integrare tale capo della contestazione con l’audizione della Dott.ssa F., la cui deposizione è stata poi utilizzata per la decisione. Si sostiene che tale valorizzazione, avvenuta “a posteriori”, non avrebbe potuto essere utilizzata in quanto estranea alla contestazione disciplinare.

6. Pregiudizialmente, in rito, deve essere esaminata la questione dell’ammissibilità del ricorso per cassazione sollevata dall’Azienda ospedaliera controricorrente, la quale ha eccepito che il ricorso per cassazione è stato notificato in data 2 marzo 2016, oltre il termine decadenziale di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza e dalla contestuale comunicazione da parte della Cancelleria della Corte di appello di Milano avvenuta in data 3 settembre 2015, via PEC, ai difensori delle parti, della sentenza predetta.

6.1. L’eccezione è fondata.

6.2. La disposizione citata stabilisce, al comma 62, che il ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello a definizione del reclamo “deve essere proposto, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla comunicazione della stessa o dalla notificazione se anteriore”. Il successivo comma 64 aggiunge che “in mancanza di comunicazione o notificazione della sentenza si applica l’art. 327 c.p.c.”.

6.3. Questa Corte si è già pronunciata in ordine alla decorrenza del termine breve della L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 62 e sulla questione della irrilevanza dell’art. 133 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con mod. in L. n. 114 del 2014, affermando (Cass. 19177/2016; v. pure Cass. n. 6259/2016 e n. 7571/2016) che il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62, decorre dalla semplice comunicazione del provvedimento, trattandosi di previsione speciale, che in via derogatoria comporta la decorrenza del termine da detto incombente, su cui non incide la modifica dell’art. 133 c.p.c., comma 2, nella parte in cui stabilisce che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.”, norma attinente al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria.

6.4. E’ stato osservato che il disposto si pone come norma speciale rispetto alla disciplina generale del cosiddetto termine breve di impugnazione, dettata dagli artt. 325 e 326 c.p.c., poichè fa decorrere il termine perentorio dalla comunicazione della sentenza – o dalla notificazione, ma solo se anteriore alla prima – e consente l’applicazione del termine stabilito dall’art. 327 c.p.c., unicamente nel caso in cui risultino omesse sia la notificazione che la comunicazione della decisione.

6.5. Quanto all’art. 133, comma 2, novellato, nella parte in cui stabilisce – come già detto – che “la comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325”. Questa Corte ha osservato (Cass. n. 23526 del 2014, recentemente avallata da Cass. SS.UU. n. 25208 del 2015) che la modifica dell’art. 133 c.p.c., in discussione attiene al regime generale della comunicazione dei provvedimenti da parte della cancelleria, sicchè non può investire, neppure indirettamente, le previsioni speciali che appunto in via derogatoria, comportino la decorrenza di termini – anche perentori – dalla semplice comunicazione dei provvedimento, e tale è certamente il caso previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 62.

6.6. Da ultimo, Cass. 16216 del 2016 ha specificamente affermato che nel rito di cui alla L. n. 92 del 2012, la maggiore novità introdotta in tema di impugnazione, rispetto alla disciplina di cui agli artt. 325 c.p.c. e segg., è data dal rilievo processuale attribuito alla comunicazione del provvedimento ad opera della cancelleria del giudice che lo ha emesso, adempimento da cui decorre il termine di decadenza per il gravame, a differenza del codice di rito, che lo faceva decorrere unicamente dalla notificazione ovvero, in mancanza di questa, dal trascorrere del cd. termine lungo ai sensi dell’art. 327 c.p.c..

6.7. Nella specie, va ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione, in causa regolata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 48 e segg., in quanto notificato il 2 marzo 2016 a fronte della comunicazione della sentenza di appello effettuata dalla Cancelleria della Corte di appello di Milano ai difensori delle parti, tramite PEC, il 3 settembre 2015. L’attestazione telematica dell’esecuzione della comunicazione via PEC, relativa ai dati desunti dal registro di cancelleria, è agli atti del fascicolo d’ufficio del giudizio di legittimità, pervenuta a riscontro della richiesta di acquisizione inviata precedentemente dal Presidente della Sezione quale adempimento espletabile in presenza di un atto pubblico facente parte del procedimento, ma non contenuto nel fascicolo d’ufficio a disposizione di questa Corte.

6.8. Per tale rilievo preliminare, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile in quanto tardivo.

7. Sussistono peraltro anche altri, concorrenti profili di inammissibilità del ricorso, che di seguito si espongono:

– il primo, il secondo e il quinto motivo introducono in giudizio questioni relative alla regolarità del procedimento disciplinare del tutto nuove e come tali inammissibili; secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, qualora una determinata questione giuridica non risulti trattata (come nella specie) nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in relazione agli adempimenti richiesti dall’art. 366 c.p.c., di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 2 aprile 2004 n. 6542, Cass. Cass. 21 febbraio 2006 n. 3664 e Cass. 28 luglio 2008 n. 20518 e, tra le più recenti, Cass. n. 8206 del 2016);

– le questioni introdotte con il terzo motivo, intese a fornire una diversa ricostruzione della disciplina della recidiva, sono inammissibili ex art. 366 c.p.c., n. 4, per difetto di specificità rispetto al decisum; secondo costante orientamento di questa Corte, nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132/05, 26048/05, 20145/05, 1108/06, 10043/06, 20100/06, 21245/06, 14752/07 e 3010/12; da ultimo, v. Cass. 5 luglio 2013 n. 16862);

– in ordine al quarto motivo, è sufficiente richiamare Cass. n. 23021 del 2014; conf. Cass. 22142 del 2015, secondo cui la disciplina speciale prevista dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 58, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, va integrata con quella dell’appello nel rito del lavoro. Ne consegue l’applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dell’art. 348 ter c.p.c., dei commi 3 e 4, anche del comma 5, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c.. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta “doppia conforme”). Opera dunque – per quel che qui interessa – anche la modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia “doppia conforme”. Dell’art. 348 ter, comma 5, prescrive che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5 dal catalogo dei vizi deducibili di cui dell’art. 360, comma 1, si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis c.c., comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. Ossia il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia cd. doppia conforme, come è stato nella specie. Occorre pure rilevare che non sono enucleabili, nel coacervo del motivo, essenzialmente incentrato su contestazioni di fatto, specifiche e puntuali censure che attengano all’interpretazione del codice disciplinare e della regola di proporzionalità della sanzione, nonchè alla sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta, nei termini delineati dalla sentenza impugnata.

8. Per tali assorbenti motivi, il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

8.1. Sussistono i presupposti processuali (nella specie, inammissibilità del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2017

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