Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7781 del 20/03/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/03/2019, (ud. 03/12/2018, dep. 20/03/2019), n.7781

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. D’OVIDIO Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

DEDEM AUTOMALICA SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LAVINIO

15, presso lo studio dell’avvocato BIZZARRI GIOVANNI, che lo

rappresenta e difende unitamente dall’avvocato FOLGORI ROBERTO;

– ricorrente –

contro

AIPA SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 215/2012 della COMM. TRIB. REG. di PERUGIA,

depositata il 16/11/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/12/2018 dai Consigliere Dott. D’OVIDIO PAOLA.

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La società DEDEM AUTOMATICA a r.l. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Perugia avverso un avviso di accertamento notificatole dalla AIPA s.p.a., quale concessionaria del Comune di Bastia per il servizio di esazione delle imposte sulla pubblicità e le affissioni pubbliche, relativo al mancato pagamento dell’imposta di pubblicità per l’anno 2010 in riferimento ad impianti pubblicitari apposti su cabine destinate alla riproduzione fotografica.

Deduceva la ricorrente che i mezzi pubblicitari contestati erano di dimensioni inferiori a 5 mq e dovevano considerarsi “insegne”, in quanto avevano lo scopo di indicare il luogo di esercizio dell’attività.

2. L’adita Commissione, con sentenza n. 91/2/11, respingeva il ricorso ritenendo che l’esenzione invocata dalla ricorrente non potesse essere applicata nel caso in esame essendo i mezzi oggetto di causa non configurabili come “insegne”, bensì come messaggi pubblicitari.

Avverso tale sentenza proponeva appello la DEDEM AUTOMATICA s.r.l. ribadendo le tesi già svolte in primo grado.

Con sentenza n. 215/02/12, depositata in data 16/11/2012, la Commissione Tributaria Regionale di Perugia, nella contumacia dell’appellata, respingeva il gravame.

3. Avvero tale sentenza la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

L’intimata non ha depositato difese.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia il “difetto di motivazione – Violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c.”.

Lamenta la ricorrente che la sentenza impugnata non avrebbe assolto l’obbligo, costituzionalmente rilevante, di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, essendo di fatto assente la motivazione e non indicate le ragioni del rigetto delle deduzioni difensive svolte dalla Dedem con l’atto di appello.

1.1. Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata è così motivata: “L’appello del contribuente va rigettato, confermando la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, in quanto la stessa è corretta sia sul piano logico che giuridico. L’appellante, comunque, anche in questa sede, non ha dimostrato che i beni pubblicitari per cui è causa siano esenti dall’imposta di pubblicità”.

Così argomentando la CTR ha scelto di utilizzare, in primo luogo, una motivazione per relationem, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice sia sul piano logico che giuridico, e ciò dopo aver dato conto che l’appellante aveva “reiterato quanto eccepito ira primo grado…”, circostanza quest’ultima che le consentiva di non procedere ad una specifica confutazione delle deduzioni svolte in sede di gravame, atteso che queste ultime erano già state valutate dal primo giudice, con esito che la medesima CTR ha ritenuto di condividere. In secondo luogo, la medesima sentenza ha aggiunto che i motivi del rigetto della pretesa del contribuente derivano dall’assenza di prova circa la ricorrenza dei presupposti che consentono di invocare il beneficio dell’agevolazione dall’imposta di pubblicità.

Tale motivazione risulta pertanto conforme al principio, cui il Collegio intende dare continuità, secondo cui la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purchè il rinvio sia operato sì da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata, mentre va cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame. (Cass., sez. 1, 19/07/2016, n. 14786, Rv. 640759 – 01; Cass. sez. L, del05/11/2018 (Rv. 651516 – 01).

Tale ultima ipotesi non è configurabile nel caso in esame, avendo la CTR dato conto sia del rapporto di identità tra le deduzioni svolte in primo grado ed i motivi di appello, sia della logicità delle conclusioni raggiunte dalla sentenza impugnata, sia dell’assenza di prove idonee a dimostrare la ricorrenza dei presupposti che avrebbero potuto legittimare la richiesta della esenzione invocata dal ricorrente, in tal modo evidenziando di aver valutato criticamente i motivi di gravame.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, comma 1, lett. b-bis), della L. n. 75 del 2002, art. 2-bis, e del Decreto 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3, (modalità operative per la determinazione dei trasferimenti erariali compensativi ai comuni del Ministero dell’economia e delle finanze), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 aprile 2003, n. 79. Erroneità manifesta”.

La ricorrente, premesso di essere un’azienda che opera attraverso postazioni, site in spazi privati e pubblici, di strutture destinate alla riproduzione fotografica (foto tessera, stampa digitale, biglietti da visita) e di ristoro, sostiene che i cartelli e le scritte ivi apposte costituiscono l’insegna delle stesse, in quanto destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ciascuna postazione.

La sentenza impugnata, pertanto, avrebbe errato nell’escludere la natura di insegne ai mezzi esposti sulle attrezzature in questione, ponendosi peraltro in contrasto con il principio espresso da questa Corte (Cass., sez. 5, 30/10/2009, n. 23021e Cass. 4/3/2013 n. 5337), secondo il quale il D.Lgs. n. 15 novembre 1993, n. 507, art. 17, comma 1-bis, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 10, non consentirebbe di introdurre distinzioni in ordine all’eventuale presenza di un possibile “concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell’insegna”.

La pronuncia della CTR di Perugia, peraltro, si porrebbe in manifesta violazione del D.M. Economia e finanze 7 gennaio 2003, che, nel dettare le modalità operative per la determinazione dei trasferimenti erariali compensativi ai Comuni, all’art. 2, capo 3, precisa che “rientrano nella fattispecie esenti anche le insegne di esercizio che contengono indicazioni relative ai simboli e ai marchi dei prodotti venduti, ad eccezione del caso in cui questi ultimi siano contenuti in un distinto mezzo pubblicitario esposto, cioè in aggiunta ad una insegna di esercizio …”.

Inoltre, tutte le “insegne” in questione non superavano il limite di mq 5, come fissato dalle norme invocate ai fini della operatività dell’esenzione, con la conseguenza che le stesse devono ritenersi esenti dall’imposta di pubblicità ai sensi delle norme richiamate nell’intitolazione del motivo.

Infine, anche la considerazione contenuta nella sentenza resa dalla CTP, secondo la quale le cabine fotografiche non possono essere considerate sedi di esercizio dell’attività, ad avviso della ricorrente risulterebbe contraria al disposto del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1-bis, atteso che tale norma non richiede in alcun modo che la cabina costituisca sede primaria o secondaria dell’attività nel senso al quale le Camere di commercio si possono riferire.

2.1. Il motivo è infondato.

La ricorrente assume, invece, che la CTR, così come il giudice tributario di primo grado, avrebbe dovuto riconoscere l’esenzione dal tributo, come prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1994, art. 17, comma 1-bis, in ragione del fatto che le strutture in questione riportavano la descrizione del servizio offerto (foto, fototessera, foto per documenti, ecc.) e, pertanto, erano destinate alla comunicazione al pubblico dello specifico servizio offerto da ogni postazione, dovendo conseguentemente qualificarsi insegne, e non pubblicità, potendo quest’ultima ravvisarsi solo in presenza di cartelli svincolati dal luogo di esercizio dell’attività.

Giova ricordare che, in linea generale, i presupposti applicativi dell’imposta di cui si discorre sono disciplinati dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 5, a mente del quale “la diffusione di messaggi pubblicitari effettuata attraverso forme di comunicazione visive o acustiche, diverse da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni, in luoghi pubblici o aperti al pubblico o che sia da tali luoghi percepibile è soggetta all’imposta sulla pubblicità prevista nel presente decreto. Ai fini dell’imposizione si considerano rilevanti i messaggi diffusi nell’esercizio di una attività economica allo scopo di promuovere la domanda di beni o servizi, ovvero finalizzati a migliorare l’immagine del soggetto pubblicizzato.

A sua volta, il medesimo D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, stabilisce i casi di esenzione dall’imposta, prevedendo al comma 1-bis, per quanto qui rileva, che “l’imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servii che contraddistinguono la sede ove si svolge l’attività cui si riferiscono, di superficie complessiva fino a cinque metri quadrati”. Il D.L. 22 febbraio 2002, n. 13, art. 2-bis, comma 6, convertito in L. 14 aprile 2002, n. 75, ha poi chiarito che “si definisce insegna di esercizio la scritta di cui al D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 47,comma 1, del regolamento di cui, che abbia la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell’attività economica. In caso di pluralità di insegne l’esenzione è riconosciuta nei limiti di superficie di cui al comma 1”.

Di analogo tenore è il richiamato D.P.R. n. 495 del 1992, art. 47, comma 1, che definisce “insegna” “la scritta in caratteri alfanumerici, completata eventualmente da un simbolo o da un marchio realiRRata e supportata con materiali di qualsiasi natura, installata nella sede dell’attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie alla stessa. Può essere luminosa sia per luce propria che per luce indiretta”.

Ne deriva che le insegne ubicate in luoghi diversi dalla sede sono soggetti all’imposta (Cass., sez. 5, 11/05/2012, n. 7348, Rv. 622894 – 01).

Ciò posto, nella fattispecie in esame, in cui pacificamente si discorre di pannelli apposti su distributori automatici (cabine per foto, foto per documenti, fototessera, ecc.), ai fini della applicazione dell’esenzione ai sensi della norma invocata dalla ricorrente, correttamente la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza dei presupposti per riconoscere l’esenzione dall’imposta, atteso che le postazioni di distribuzione automatica non possono essere configurate quali “sedi” di svolgimento dell’attività commerciale.

In proposito, va richiamato il precedente di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, che, in un analogo caso, ha escluso la riconducibilità dei distributori automatici al concetto di “sede” (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, Rv. 634248 01).

A tale conclusione la citata sentenza è pervenuta osservando che non è rinvenibile altra nozione normativa, ai fini civilistici, di sede delle persone giuridiche (qual è l’odierna ricorrente, in quanto società di capitali avente, quindi, personalità giuridica), se non quella formale (c.d. sede legale) risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto (cfr. artt. 46 e 16 c.c.), alla quale si aggiunge correntemente, per l’equiparazione a determinati effetti nei confronti dei terzi, la nozione di sede effettiva, tale intendendosi il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente cd ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti (cfr. Cass., sez. L, 12 marzo 2009, n. 6021, Rv. 607263 – 01; Cass., sez. L, 13 aprile 2004, n. 7037, Rv. 572032 – 01). Tanto premesso, risulta di intuitiva evidenza che le cabine per fototessera e/o le postazione automatiche di distribuzione di cibi o bevande non possono essere ricondotte nè al concetto di sede legale nè a quello di sede effettiva di esercizio dell’attività sociale come sopra richiamati, e neppure può ipotizzarsi un rapporto pertinenziale con la sede della società, in ragione dell’ampia diffusione territoriale che impedisce a monte la stessa configurabilità di un rapporto durevole di servizio del singolo distributore alla sede sociale.

A tali considerazioni deve aggiungersi l’ulteriore rilievo, decisivo al fine di escludere che al punto automatico di esercizio dell’attività possa attribuirsi la qualificazione di “sede”, che tale concetto viene a costituire nella fattispecie in esame il presupposto per l’applicazione di una norma, quale il menzionato D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17 comma 1-bis, che prevede un’esenzione fiscale, come tale da ritenersi di stretta interpretazione (cfr. Cass., sez. 5, 30/12/2014, n. 27497, in motivazione).

La sentenza impugnata, pertanto, richiamando la decisione della CTP nella parte in cui aveva affermato che le cabine automatiche non possono considerarsi “sede” della società, ha fatto buon governo di tali principi ed è conseguentemente pervenuta ad una corretta decisione di esclusione del diritto all’esenzione, atteso che tale circostanza osta all’applicabilità del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1-bis, invocato dalla ricorrente. Resta conseguentemente assorbito l’ulteriore argomento dedotto dalla società ricorrente in riferimento alla asserita irrilevanza, ai fini dell’applicabilità della esenzione, dell’eventuale concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria della insegna stessa, siccome desumibile dal precedente di questa Corte n. 23021 del 2009 e del D.M. 7 gennaio 2003, art. 2, capo 3: tale questione, infatti, attiene al contenuto dell’insegna e presuppone che si tratti di “insegna” installata nella “sede” dell’attività cui si riferisce, requisito che, per quanto sopra evidenziato, non può ritenersi sussistente nel caso in esame.

Esclusa l’applicabilità dell’esenzione, la sentenza impugnata ha quindi correttamente confermato il rigetto del ricorso proposto in primo grado dalla DEDEM AUTOMATICA, ritenendo, con accertamento in fatto non censurato nè censurabile in questa sede, che i mezzi esposti sulle cabine dovevano considerarsi mezzi pubblicitari in ragione del loro contenuto.

Nè la ricorrente ha mai prospettato nei gradi di merito (e tantomeno in questa sede) che la pubblicità così realizzata potesse essere ricondotta ad altre ipotesi di esenzione, e specificamente a quelle previste dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 17, comma 1, lett. a) e b), riferibili alle insegne non riconducibili nella nozione di “insegna di esercizio”, contemplata dalla sola ipotesi di cui al medesimo D.Lgs., art. 17, comma 1-bis.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova”.

La ricorrente censura la sentenza impugnata per avere invertito l’onere probatorio gravante sulle parti ai sensi dell’art. 2697 c.c., erroneamente attribuendolo alla contribuente anzichè al concessionario, nella parte in cui avrebbe affermato che “… le insegne di esercizio godono dell’esenzione se inferiori a 5 mq purchè possano definirsi tali, e cioè riportino la denominazione della società produttrice, il logo della sede, la sede, i marchi dei prodotti commercializzati o dei servizi offerti, elementi che la società ricorrente non ha dimostrato di possedere”.

2.1. Il motivo deve dichiararsi inammissibile per carenza di interesse, stante l’esito del giudizio sul primo motivo.

Infatti, la prioritaria necessità, ai fini dell’applicazione dell’esenzione dall’imposta comunale sulla pubblicità, che le insegne per le quali si invochi il beneficio siano installate su strutture definibili come “sede” dell’attività, requisito nella specie rimasto escluso, rende ininfluente accertare in concreto il contenuto delle insegne oggetto di causa.

Peraltro, per completezza si osserva che il motivo risulta inammissibile anche perchè non si rapporta alla decisione della sentenza impugnata, atteso che la censura viene riferita ad affermazioni asseritamente contenute nella medesima sentenza (ossia quelle trascritte in corsivo al punto 2) che, invece, non sono affatto rinvenibili nella medesima sentenza. Quest’ultima, infatti, come sopra già evidenziato, quanto agli oneri probatori ha affermato che “l’appellante, comunque, anche in questa sede, non ha dimostrato che i beni pubblicitari per cui è causa siano esenti dall’imposta di pubblicità”.

3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla sulle spese del presente grado di giudizio, stante la mancata costituzione della parte intimata.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 (notifica del 16 maggio 2013), ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a tutolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a tutolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, dalla 5 sezione civile della Corte di cassazione, il 3 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019

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