Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7775 del 20/03/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/03/2019, (ud. 15/11/2018, dep. 20/03/2019), n.7775

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9406/2013 R.G. proposto da:

SGS Italia spa, in persona dei legali rappresentanti pro tempore

rappresentata e difesa dall’Avv. Damiano Vaudo, con domicilio eletto

in Roma, via della Panetteria, n. 15, presso lo studio dell’Avv.

Mariateresa Avitabile;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, sezione staccata di Livorno, n. 108/14/12, depositata il 4

ottobre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 novembre

2018 dal Consigliere Manzon Enrico.

Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Giacalone Giovanni, che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 108/14/12, depositata il 4 ottobre 2012 la Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, respingeva l’appello proposto dalla SGS Italia spa avverso la sentenza n. 66/06/11 della Commissione tributaria provinciale di Livorno che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di rettifica con il quale le si contestava, quale spedizioniere doganale coobbligato in solido con l’importatore PI-MA Fibre srl, la diversa origine della merce indicata nella relativa dichiarazione di importazione.

La CTR osservava, in particolare, che non era fondata l’eccezione della società contribuente appellante concernente la contabilizzazione “a posteriori” dei dazi d’importazione, stante l’accertata difformità dell’origine della merce, non essendosi dimostrata da parte dello spedizioniere (nè dell’importatore) l’esercizio di quella diligenza idonea ad ingenerare una, scriminante, condizione di “affidamento incolpevole” circa tale circostanza; inoltre che nemmeno si poteva configurare la sussistenza della esimente di cui all’art. 220 CDC, non essendovi stata alcuna attività decettiva attiva da parte dell’Autorità doganale del Paese (Malesia) indicato come di “origine” del prodotto importato.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo sei motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle dogane.

La ricorrente successivamente ha depositato memorie difensive.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo la ricorrente lamenta:

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – il vizio di extra/ultra petizione, in relazione alla affermata definitività dell’avviso di rettifica oggetto del processo e quindi alla sua impugnabilità “diretta”;

– ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione/falsa applicazione di plurime disposizioni legislative sia in relazione alla affermata definitività dell’atto impositivo impugnato ed al mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale;

-subordinatamente – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – il vizio motivazionale, relativamente alle prime due sub – censure.

La censura è complessivamente infondata.

Anzitutto va rilevata l’inammissibilità del profilo di critica inerente la definitività dell’atto impositivo di che si tratta, stante la natura evidente di obiter dictum della correlativa affermazione del giudice tributario di appello che ha solo enunciato “in astratto” l’affermazione censurata, ma non ne ha fatto derivare “in concreto” una declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo della lite, a causa del mancato esperimento delle procedure amministrative previste dagli artt. 66 TULD e ss..

Quanto al subordinatamente dedotto vizio di motivazione è possibile limitarsi a ribadire che “In materia di ricorso per cassazione, il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione di fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia e non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, potendo l’eventuale vizio di motivazione su questione di diritto, in presenza di una corretta decisione del giudice di merito della quesitone sottoposta al suo esame, dar luogo alla correzione della stessa ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 29886 del 13/12/2017, Rv. 646295 – 01).

Orbene, va rilevato che, incontestato in fatto che il contraddittorio endoprocedimentale non vi sia stato, il mancato rilievo decisorio dato a tale circostanza non può che formare oggetto di una critica della sentenza impugnata in termini di violazione di legge, così come del resto la ricorrente deduce nel secondo profilo della censura in esame e nel motivo successivo e non ne può pertanto essere dedotto alcun vizio di motivazione ai sensi della previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella versione applicabile ratione temporis ossia quella attualmente vigente, tenuto conto del fatto processuale che la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo che la novella è entrata in vigore e che la stessa si applica al giudizio di cassazione anche in materia tributaria; cfr. Cass. Sez U., n. 8053/2014).

Si deve infatti rilevare che con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente denuncia la violazione/falsa applicazione dell’art. 97 Cost., della L. n. 212 del 2000, art. 12, del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, nonchè del principio comunitario dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale nonchè in via gradata profila questioni di compatibilità unionale e di legittimità costituzionale di dette norme ordinarie interne, poichè la CTR ha comunque ritenuto non avere effetto invalidante dell’atto impositivo impugnato il mancato rispetto di tale principio.

Per ragioni di stretta connessione e per la conseguentemente necessaria coerenza espositiva, questa censura va trattata unitariamente con quella enucleata nel secondo profilo della prima. Ciò posto, le censure sono infondate, anche se per ragioni giuridiche tutt’affatto diverse da quelle affermate dalla CTR Toscana.

Pur vero che su tale punto decisionale la sentenza impugnata si pone in evidente contrasto con la giurisprudenza di questa Corte (v. per tutte S.U. n. 24823/2015) e con quella della Corte di giustizia dell’UE (di cui infra), tuttavia non risultano corrette le contrarie argomentazioni in diritto sviluppate dalla ricorrente, sicchè in ultima analisi deve considerarsi corretto il contenuto dispositivo della decisione del giudice tributario di appello e quindi ne va corretta la motivazione ex art. 384 c.p.c., u.c., per le ragioni che seguono.

Va anzitutto osservato che questa Corte (Cass. civ., Sez. VI, 23 maggio 2018, n. 12832) ha recentemente ribadito l’orientamento secondo cui, relativamente agli avvisi di rettifica in materia doganale – quale pacificamente quello in oggetto – precedenti alla entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (art. 1, comma 1) convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 44, che ha introdotto al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, il comma 4 – bis, non trova applicazione la L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (Cass. n. 8399/13; Cass. nn. 10070/14, 9799/14, 9800/14, 9801, 9802/14, 9803/14, 10070/14, 15032/14, 15033/14, 15034/14, 15035/14, 15036/14, 15037/14, 2592/14, 25973/14, 25074/14, 25975/14). In particolare, va precisato che la norma dello Statuto del contribuente che si assume violata, ed in ordine alla quale viene richiesto il sindacato di legittimità, è invocata a torto, in quanto la disciplina procedimentale in essa contenuta non trova, comunque, applicazione al procedimento di revisione doganale in esame che è regolato da uno “jus speciale”.

Invero, il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, nel testo vigente “ratione temporis”, prevede infatti che, quando dalla revisione eseguita d’ufficio dell’accertamento divenuto definitivo – ancorchè le merci che hanno formato l’oggetto siano state lasciate alla libera disponibilità dell’operatore o siano già uscite dal territorio doganale – emergono inesattezze, omissioni, o errori relativi agli elementi presi a base dell’accertamento, “l’ufficio procede alla relativa rettifica e ne da comunicazione all’operatore interessato notificando apposito avviso di rettifica motivato” (commi 1, 5 e 6). Entro trenta giorni dalla data della notifica dell’avviso, l’operatore può contestare la rettifica ed in tal caso viene redatto apposito verbale dall’Ufficio doganale “ai fini della eventuale instaurazione dei procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dal TU delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con D.P.R. n. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 66 e ss.”.

In considerazione del suddetto quadro normativo, i procedimenti amministrativi cui rinvia la norma consentono proprio la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, posto che il procedimento amministrativo in questione è preordinato a garantire un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente è posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, deducendo le prove opportune, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica.

In sostanza il sistema del TU n. 43 del 1973, cui rinvia il D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, realizza, attraverso il procedimento contenzioso amministrativo, una forma anticipata di contraddittorio pieno, che, solo in seguito, è venuta ad essere sostituita da una diversa modalità di assicurazione della garanzia del contraddittorio “…ma soltanto a far data dalla entrata in vigore del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1 (art. 1, comma 1) convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 44, che ha introdotto al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 4 – bis” intervento normativo successivamente completato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 12, conv. dalla L. 26 aprile 2012, n. 27 (recante “disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficienza e potenziamento delle procedure di accertamento”) con l’abrogazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 7 e parzialmente comma 6 e la conseguente eliminazione del sistema dei ricorsi amministrativi contenziosi in materia doganale.

A tal proposito si osserva che i procedimenti amministrativi cui rinvia la norma consentivano la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, atteso che: a) il TU n. 43 del 1973, art. 66, prevede che l’operatore presenti ricorso gerarchico avverso l’avviso di rettifica “producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili”; b) dal combinato disposto del TU n. 43 del 1973, art. 70, u.c. e art. 76, comma 1, emerge che solo all’esito dell’indicato procedimento amministrativo contenzioso – nel caso di decisione parzialmente o totalmente sfavorevole al ricorrente gerarchico – si determina la “definitività” dell’avviso di accertamento in rettifica ed il contribuente è legittimato ad esperire il ricorso giurisdizionale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21 avverso l’atto impositivo.

Perciò non sussiste, come invece sostenuto dalla ricorrente, una violazione dei principi unionali in materia di contraddittorio preventivo, con conseguente disapplicazione delle norme in esame, in quanto l’orientamento giurisprudenziale sopra indicato è in linea con i suddetti principi.

Infatti, la Corte di giustizia, sez. 5, 3 luglio 2014, cause riunite C129/13 e C-130/13, Kamino International Logistics, dopo avere ricordato che il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante (sentenze n. C-349/07 Sopropè, punti 33 e 36, nonchè sentenza n. C-277/11, M.M., punti 81 e 82), ha ricordato che, quando il diritto dell’Unione non fissa nè le condizioni alle quali deve essere garantito il rispetto dei diritti della difesa nè le conseguenze della violazione di tali diritti, tali condizioni e tali conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purchè i provvedimenti adottati in tal senso siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (v. Corte giust., G. e R., punto 35, nonchè giurisprudenza ivi citata). Siffatta soluzione è applicabile alla materia doganale nella misura in cui l’art. 245 codice doganale rinvia espressamente al diritto nazionale, precisando che “le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri”, fermo restando che gli Stati membri possono legittimamente consentire l’esercizio dei diritti della difesa secondo le stesse modalità previste per la disciplina delle situazioni interne purchè esse siano conformi al diritto dell’Unione e, in particolare, non compromettere l’effetto utile del codice doganale (sentenza G. e R.,cit., punto 36).

Inoltre, la Corte unionale, con la successiva sentenza resa in data 20.12.2017 nella causa C-276/16, Preqù, ha quindi precisato che le disposizioni del diritto dell’Unione, come quelle del codice doganale, devono essere interpretate alla luce dei diritti fondamentali e che le disposizioni nazionali di attuazione delle condizioni previste all’art. 244 codice doganale comunitario, comma 2, per la concessione di una sospensione dell’esecuzione devono, in mancanza di una previa audizione, garantire che tali condizioni non siano applicate o interpretate restrittivamente (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 2014, Kamino International Logistics e Datema Hellmann Worldwide Logistics, C129/13 e C-130/13, EU:C:2014:2041, punti 69 e 70). Secondo la Corte UE, se il destinatario di avvisi di rettifica dell’accertamento, come quelli di cui trattasi nel procedimento principale, ha la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione di detti atti fino alla loro eventuale riforma e se il giudice nazionale verifica che nell’ambito del procedimento amministrativo, le condizioni di cui all’art. 244 codice doganale non sono applicate in modo restrittivo, non può ritenersi pregiudicato il rispetto dei diritti della difesa del destinatario degli avvisi di rettifica dell’accertamento.

In definitiva quindi, deve rilevarsi che la Corte di giustizia UE ha affermato che il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando al Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913/92 del Consiglio, art. 244, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal Reg. (CE) 16 novembre 2000, n. 2700/2000 del Parlamento Europeo e del Consiglio, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione di detto regolamento, art. 244, comma 2, da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione, qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato.

La Corte UE (con la medesima pronuncia 20.12.2017 nella causa C276/16, Preqù, cit.) ha, infine, tenuto a rimarcare che l’obbligo incombente sul giudice nazionale di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione non ha sempre come conseguenza l’annullamento della decisione impugnata, laddove quest’ultima sia stata adottata in violazione dei diritti della difesa. Ed infatti, una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere ascoltati, determina l’annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso.

Da ultimo non si ravvisano i presupposti per sollevare questione di costituzionalità delle norme in esame, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto, come detto, il particolare procedimento di ricorso amministrativo, previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, quale applicabile ratione temporis, tutelava adeguatamente il diritto al contraddittorio del contribuente e, quindi, il diritto di difesa del medesimo.

Peraltro, unificando in una considerazione complessiva il profilo unionale e costituzionale della questione posta con la censura in esame, va rilevato che il giudice tributario di appello ha comunque concretamente effettuato in sede giudiziale la c.d. “prova di resistenza”, rilevando l’infondatezza e quindi la sostanziale pretestuosità dell’opposizione della società contribuente.

In altri termini, il giudizio meritale della CTR Toscana con tutta evidenza porta inevitabilmente con sè la valutazione – non ulteriormente sindacabile in questa sede – che con il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale nel caso che occupa il risultato del procedimento amministrativo non sarebbe stato diverso.

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3-5 – in via gradata la ricorrente prospetta il vizio di omessa pronuncia ovvero quello motivazionale in ordine alla questione meritale di fatto inerente la (prova della) origine della merce, fatto costitutivo principale delle pretese creditorie erariali.

La censura è infondata.

Va anzitutto in tal senso premesso e ribadito che:

– “La differenza fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione” (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25714 del 04/12/2014, Rv. 633682 – 01);

– “Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).

Orbene, va rilevato che il giudice tributario di appello, con giudizio non ulteriormente sindacabile in questa sede per i sui aspetti di merito, ha chiaramente accertato che “l’autorità doganale del paese esportatore ha riconosciuto la falsità della documentazione (che avrebbe dato luogo al trattamento daziario preferenziale)”.

Secondo i richiamati principi di diritto, tale affermazione non solo non può essere affetta dal denunciato vizio di attività ex art. 112 c.p.c., ma nemmeno può appunto essere ulteriormente valutato in termini di vizio motivazionale, in particolare, come inammissibilmente richiede la società ricorrente, sotto il profilo della mancata valutazione delle prove difensive addotte in relazione alla circostanza fattuale de qua.

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3-5 – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b), (Reg. CEE 2913/1992) ed in subordine vizio motivazionale, poichè la CTR ha affermato l’insussistenza della scriminante prevista da tale disposizione di diritto unionale derivato.

La censura è infondata.

Il giudice tributario di appello ha infatti ritenuto che non poteva darsi luogo all’esimente di cui a tale previsione normativa in quanto non sussisteva un “errore attivo” delle autorità competenti, non potendo questo essere configurato quando sia accertato che l’attestazione d’origine rilasciata dall’autorità del paese di esportazione è falsa in quanto fondata sulle dichiarazioni non veritiere dell’esportatore.

Va rammentato che le Autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali, a meno che sussistano contemporaneamente tutte le condizioni poste dal Reg. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913/1992 del Consiglio, art. 220, n. 2, lett. b).

Tale errore non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, dato che l’Amministrazione non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento appunto “attivo”, perchè il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (cfr. Cass. civ., n. 4022 del 2012).

Di conseguenza all’Autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero a posteriori, senza necessità di alcun procedimento intermedio che convalidi la non autenticità, provvedendo gli stessi organi dell’Esecutivo comunitario a fornire tramite le disposte commissioni di inchiesta le conclusioni cui debbono attenersi le Autorità nazionali (Cass. civ., n. 13680/2009). Nessuna rilevanza possono poi avere le considerazioni espresse dalla ricorrente (v. specificamente p. 59/60, 66/67 del ricorso) in ordine alla propria buona fede (rectius, diligenza), in quanto secondo questa Corte (Cass. civ. 23 novembre 2011, n. 24675) “è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo all’importatore, in considerazione dell’obbligo che grava su quest’ultimo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi”.

Tale principio, peraltro, trova conferma nella giurisprudenza unionale, che ha affermato che: “il debitore non può nutrire un legittimo affidamento quanto alla validità dei certificati EUR 1 per il fatto che essi siano stati ritenuti inizialmente veritieri dalla autorità doganale di uno Stato membro dato che le operazioni effettuate da detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi” (Corte giustizia, 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, richiamata da Corte di giustizia, 8 novembre 2012, C438/11, Lagura, in riferimento ai certificati FORM A, documenti giustificativi utili a fruire delle preferenze generalizzate unilateralmente concesse dalla UE).

Non sussistono pertanto nè la lamentata violazione di legge nè, all’evidenza, l’affermato omesso esame di fatto decisivo controverso.

Con il quinto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia della CTR oltre che sulle eccezioni già oggetto delle precedenti censure anche su quelle ulteriori di vizio motivazionale dell’atto impositivo impugnato, di difetto di prova ed in definitiva di fondatezza della pretesa creditoria erariale.

La censura è infondata.

Ribadite le considerazioni fatte sopra in ordine alle eccezioni formanti specifico oggetto dei precedenti mezzi di impugnazione per cassazione, va comunque evidenziato che il giudice tributario di appello si è puntualmente espresso con valutazioni meritali non suscettibili di “revisione” in questa sede, anche, espressamente ovvero per implicito, sulla adeguatezza della motivazione dell’avviso di rettifica de quo nonchè dell’apparato probatorio (basato su rapporto dell’OLAF) che lo supporta, quindi, in ultima analisi, sulla fondatezza della revisione daziaria in esame.

Con il sesto motivo la ricorrente solleva eccezione di giudicato esterno, affermando che con la sentenza n. 88/28/10, depositata in data 19/11/2010 e, asseritamente, passata in giudicato il 10 maggio 2012, la Commissione tributaria regionale del Piemonte, in un contenzioso in tutto analogo, ha confermato il giudizio della Commissione tributaria provinciale di Biella di annullamento di altrettanto analogo avviso di rettifica doganale, sempre riguardante importazioni di merci dalla Malesia, ritenendo in via pregiudiziale la sua invalidità per violazione del principio unionale di obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale.

La censura è inammissibile.

Dall’esame della documentazione prodotta si evince che parte ricorrente ha prodotto copia della sentenza sopra indicata, ma non ha allegato alcuna attestazione idonea ad asseverarne il passaggio in giudicato.

Orbene, questa Corte (Cass. civ. Sez. VI 18 aprile 2017, n. 9746), sul punto, ha ribadito il principio secondo cui “la parte che eccepisce il giudicato esterno ha l’onere di provare il passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio, non soltanto producendo la sentenza stessa, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere nè che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, nè che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità della sentenza” (Cass. n. 19883 del 29/08/2013).

Peraltro, va rilevato che stando alla stessa affermazione della ricorrente tale evento processuale “esterno”, in tesi preclusivo, si sarebbe verificato il 10 maggio 2012, quindi ben prima della pronuncia oggetto del presente giudizio, che è del 22 giugno 2012. Ciò constatato in fatto, si deve ribadire che “In tema di impugnazioni, qualora il giudicato esterno si sia formato nel corso del giudizio di secondo grado e la sua esistenza non sia stata ivi eccepita dalla parte interessata, la sentenza di appello che si sia pronunciata in difformità da tale giudicato è impugnabile con il ricorso per revocazione e non con quello per cassazione. (Cass. n. 22506 del 04/11/2015) ed altresì, comunque, che “Nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno intervenuto nelle more del giudizio di merito, senza tempestiva deduzione in quella sede, non è rilevabile d’ufficio” (Cass. 21170 del 19/10/2016).

Va infine esaminata la richiesta, formulata con l’ultima memoria depositata dalla ricorrente, di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia della questione se la normativa interna sia in contrasto con il principio generale del contraddittorio laddove non prevede, quando il contribuente non è stato previamente ascoltato prima dell’adozione dell’avviso di rettifica, il diritto alla sospensione automatica dell’atto in caso di presentazione del ricorso in via amministrativa, prevedendosi, invece, che la sospensione può essere consentita solo a seguito della prestazione di una garanzia. Ritiene il Collegio che non debba accogliersi tale richiesta.

Il ragionamento della società contribuente si fonda sulla considerazione che la effettività della tutela del suo diritto di difesa esige che la sospensione dell’esecutività della pretesa impositiva non sia subordinata alla prestazione di una garanzia, in quanto la stessa, prevista dall’art. 244 del CDC, può essere configurata solo nel caso in cui sia stato preventivamente instaurato il contraddittorio, sicchè, nel caso di omesso preventivo contraddittorio, la previsione di una necessaria garanzia al fine di ottenere la sospensione dell’esecutività dell’atto, in quanto onerosa, costituirebbe appunto violazione del principio di effettività del diritto di difesa.

Risulta tuttavia che la Corte di giustizia, con la pronuncia n. 276/16 causa C-276/16 Preqù Italia, ha esaminato la questione della sospensione dell’esecutività degli atti impositivi doganali nell’ambito del procedimento amministrativo ed ha precisato che:

– Il rispetto dei diritti della difesa (di cui il diritto al contraddittorio preventivo costituisce parte integrante) è un principio fondamentale dell’Unione;

– Il suddetto principio non si configura come una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale la ledere la sostanza stessa dei diritti garantiti;

– l’interesse generale dell’Unione al recupero tempestivo delle entrate proprie impone che i controlli possano essere realizzati prontamente ed efficacemente, come nel caso delle decisioni delle autorità doganali;

in caso di mancata audizione prima dell’adozione di una pretesa impositiva, la proposizione di un ricorso amministrativo avverso il medesimo non dovrebbe necessariamente avere l’effetto di sospendere automaticamente l’esecuzione al fine di garantire il rispetto del diritto ad essere ascoltati, mentre, d’altro lato, occorre che il procedimento nazionale di ricorso amministrativo avverso gli atti emessi dall’autorità doganale garantisca la piena efficacia del diritto dell’Unione e, in particolare, dell’art. 244 CDC;

– è in ragione dell’interesse generale dell’Unione al recupero tempestivo delle entrate proprie che l’art. 244 CDC, comma 2, prevede che la presentazione di un ricorso contro l’avviso di accertamento ha l’effetto di sospendere l’esecutività dell’intimazione solo a determinate condizioni, cioè quando vi sia motivo di dubitare della conformità della decisione alla normativa doganale o vi sia pericolo di un danno irreparabile per l’interessato e che, conseguentemente, le disposizioni nazionali di attuazione delle condizioni di cui all’art. 244 CDC, comma 2, devono, in caso di mancata audizione, garantire che le stesse non siano applicate o interpretate restrittivamente;

– non è pregiudicato il rispetto del diritto di difesa del destinatario dell’avviso di rettifica quanto il contribuente ha la possibilità di ottenere la sospensione dell’esecuzione fino all’eventuale riforma e le condizioni di cui all’art. 244 CDC non sono applicate in modo restrittivo, profilo che spetta al giudice nazionale valutare.

In definitiva, secondo la suddetta pronuncia, nel caso di mancata audizione del contribuente prima dell’adozione dell’atto impositivo, la possibilità di attivare il ricorso amministrativo tutela il diritto al contraddittorio del contribuente, così come la circostanza che sia prevista la possibilità di ottenere la sospensione.

Il riferimento alla non applicazione restrittiva delle condizioni di cui all’art. 244 CDC, cui parte ricorrente fa richiamo a sostegno della proprio tesi difensiva, riguarda invero quelle contenute al comma 2 del medesimo articolo, cioè la valutazione della conformità della decisione alla normativa doganale o la sussistenza del pericolo di un danno irreparabile per l’interessato, in quanto criteri di valutazione che possono prestarsi a diverse interpretazioni e, quindi, vanno applicate dal giudice nazionale in coerenza con la necessità di assicurare un diritto di difesa effettivo.

Peraltro il medesimo art. 244 CDC, al comma 3, prevede dei limiti alla stessa possibilità di disporre la sospensione dell’esecutività dell’atto in sede di ricorso amministrativo, in linea con l’esigenza generale dell’Unione al recupero tempestivo delle entrate proprie, ed è quindi tale previsione, di origine unionale, che trova applicazione, anche nel caso in cui non si è provveduto alla previa audizione dell’interessato, atteso che, secondo quanto sopra riportato, la possibilità di attivare il ricorso amministrativo tutela il diritto al contraddittorio del contribuente, così come la circostanza che sia prevista la possibilità di ottenere la sospensione.

Non sussistono pertanto ragioni per prospettare la questione pregiudiziale prospettata dalle contribuenti, posto che dalla stessa pronuncia richiamata si evincono elementi chiari per l’irrilevanza della questione.

Stante l’evoluzione giurisprudenziale interna ed unionale in particolare sulla questione, pregiudiziale, dell’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale intervenuta nelle more del giudizio di legittimità, possono compensarsene tra le parti le spese correlative.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019

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