Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7769 del 18/03/2021

Cassazione civile sez. III, 18/03/2021, (ud. 18/11/2020, dep. 18/03/2021), n.7769

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29082-2019 proposto da:

S.K., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CONCA D’ORO

184/190, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO DISCEPOLO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE ANCONA;

– intimato –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– resistenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 29/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/11/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il ricorrente S.K. è cittadino del (OMISSIS), da cui racconta di essere fuggito per avere, durante una rissa, per legittima difesa, accoltellato un uomo, poi morto; fatto, questo, a seguito del quale non solo era ricercato dalla polizia ma altresì dalla famiglia della vittima, ritenuta molto potente al punto da incendiare, per minaccia, il negozio in cui il ricorrente lavorava.

S. è fuggito in Libia, dove ha conosciuto una donna che ha sposato e che, dopo averlo raggiunto in Italia, dove lui si era successivamente trasferito, ha ottenuto lo status di rifugiata e dalla quale ha avuto il figlio A. nato in Italia.

La commissione territoriale ha negato la protezione internazionale e quella umanitaria richiesta dal ricorrente.

Il Tribunale, adito con ricorso avverso la decisione amministrativa negativa, ha deciso conformemente a quest’ultima.

Ora S. ricorre con quattro motivi. V’è costituzione del Ministero.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

p..- La ratio della decisione impugnata.

Il Tribunale, in sostanza, non smentisce il racconto del ricorrente, piuttosto ritiene che proprio a considerarlo veritiero, quel racconto non giustifica la protezione, in quanto il ricorrente rischia sanzioni per un reato effettivamente commesso, circostanza che di per sè non può garantire protezione al suo autore. Ritiene poi che in (OMISSIS) non ci sia una situazione di conflitto armato generalizzato e, quanto alla protezione umanitaria, osserva che, sebbene il ricorrente abbia in Italia un figlio minore ed una moglie cui è riconosciuto lo status di rifugiata, non vi sono ragioni di carattere umanitario che impediscano il rimpatrio, considerata tra l’altro la mancata integrazione in Italia e che se l’unico motivo è la presenza del minore, da un lato, potrebbe in ipotesi decidersi il rimpatrio di quest’ultimo, dall’altro, potrebbe spettare al ricorrente un permesso temporaneo sui cui è competente a decidere il Tribunale dei minorenni.

p..- Queste rationes sono contestate con quattro motivi.

Il primo motivo denuncia sostanzialmente violazione della L. n. 25 del 2008.

Il ricorrente sostiene che il provvedimento amministrativo di rigetto è stato tradotto nella sua lingua quanto al dispositivo, ma non quanto alla motivazione.

Posta la questione al Tribunale, quest’ultimo ha obiettato che, non essendo il giudizio davanti a sè un giudizio sull’atto, bensì sul rapporto, non rileva affatto che l’atto amministrativo sia nullo, dovendo il giudice decidere comunque nel merito della richiesta di protezione.

Il motivo è infondato, ma la motivazione va corretta.

La circostanza stessa che la L. 25 del 2008, art. 5 imponga di tradurre gli atti della procedura amministrativa significa che all’interessato è attribuito un diritto – quello, per l’appunto, a conoscere il testo degli atti – che, se violato, costui può far valere davanti al Tribunale, a cui viene devoluta la cognizione delle situazioni giuridiche asseritamente lese dal provvedimento amministrativo di rigetto, compreso il diritto a conoscere le ragioni di quel rigetto: dunque non si tratta di un giudizio sull’atto, ma sul diritto.

Ciò detto, è regola posta da questa corte che ” l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un “vulnus” all’esercizio del diritto di difesa” (Cass. 13769/2020; Cass. 18723/2019).

E’ pacifico, e del resto non messo in dubbio neanche dal Tribunale, che la motivazione del provvedimento amministrativo non è stata tradotta (lo è stato il solo dispositivo) nella lingua del ricorrente, o in una a questi nota; tuttavia, non risultano pregiudizi alla parte, o almeno quest’ultima non li ha allegati, risultando piuttosto che davanti al Tribunale il contenuto del provvedimento amministrativo è stato contestato e dunque era noto.

p..- Il secondo motivo denuncia violazione della L. 251 del 2007, artt. 7,8,9,10 e dell’art. 10 Cost..

Il ricorrente si duole del fatto che il Tribunale non ha adeguatamente considerato le conseguenze del rimpatrio, atteso il reato di cui egli è accusato, e non ha tenuto in considerazione che per l’omicidio è prevista la pena di morte, sanzione che l’art. 10 Cost. considera come ostativa al rimpatrio.

Il motivo è fondato.

Il Tribunale, pur valutando l’imparzialità del sistema giudiziario ghanese, non ha tenuto conto alcuno della eventualità dell’applicazione della pena capitale per il reato contestato al ricorrente, che, se concretamente a rischio, impedisce il rimpatrio ex art. 10 Cost., che è escluso a prescindere ovviamente dalla fondatezza dell’accusa, ed anche nell’ipotesi in cui lo sia.

p..- Il terzo motivo denuncia violazione della L. n. 286 del 1998, art. 6.

Il ricorrente contesta il giudizio sulla protezione umanitaria, ritenendo che il Tribunale ha fatto erronea applicazione della clausola dei motivi umanitari nell’escludere che possa avere rilevanza la circostanza che egli ha un figlio minore (10 mesi al momento della decisione) e che l’allontanamento dal figlio potrebbe essere di pregiudizio per sè.

Il motivo è fondato.

Il Tribunale ha deciso tenendo in conto l’interesse del minore, ossia sostenendo che ciò che conta è l’interesse di quest’ultimo e non quello del genitore, e che se il genitore ha diritto ad un temporaneo permesso nell’interesse del figlio, e non suo, a decidere deve essere il Tribunale dei minori ex art. 31 TUI.

Ciò che il Tribunale afferma è di sicuro fondamento quando ad agire è il minore (ovviamente tramite chi lo rappresenta), caso nel quale il “diritto” del genitore di rimanere sul territorio nazionale dipende da quale sia l’interesse del figlio. Ma qua si tratta di altro.

Qui il genitore agisce per un interesse proprio, ossia asserendo che l’allontanamento dal figlio è per lui (e non per il figlio) un pregiudizio, e che questa situazione soggettiva – non essere allontanato dal figlio minore – integra un motivo di carattere umanitario di cui alla L. n. 286 del 1998.

In altri termini, si tratta di due pretese e dunque di due valutazioni diverse: una ha come attore il minore, il cui interesse è preminente e la cui tutela involge solo di riflesso quella del genitore, e se ne occupa il Tribunale dei minori (art. 31 TUI); l’altra ha come attore il genitore che domanda la tutela di un interesse proprio, ossia invoca il suo (e non quello del minore) diritto a non essere allontanato proprio in quanto padre di un minore.

Non v’è antinomia tra le due fattispecie, poichè esse non producono effetti giuridici incompatibili, dal momento che l’art. 31 TUI considera l’eventualità di un permesso temporaneo al genitore quando ciò sia nell’interesse del minore, ossia quando l’allontanamento sia di pregiudizio al minore, mentre l’art. 5, comma 6 TUIR prevede, si, un permesso di soggiorno al pari del precedente, ma per ragioni e con fondamento diversi; ossia lo consente qualora ricorrano gravi motivi di carattere umanitario ad impedire il rimpatrio, vale a dire ragioni ostative a favore del genitore e non già del minore. E’ vero che in entrambi i casi il genitore invoca il suo rapporto con il figlio minorenne, ma è evidente che, nel primo caso, il riconoscimento presuppone una positiva valutazione dell’interesse del minore, ossia che è nell’interesse di quest’ultimo evitare il rimpatrio del genitore; mentre nel secondo caso l’ostacolo al rimpatrio prescinde dall’interesse del minore ed è costituito dal fatto che il rapporto di filiazione può essere un grave motivo di carattere umanitario a vantaggio del genitore, ed a prescindere dall’interesse del figlio. Non v’è dubbio che, nei fatti, i due giudizi possano portare ad esiti differenti.

Si tratta, in conclusione, di due norme diverse (l’una l’art. 5 e l’altra l’art. 31 TUI) che si riferiscono a due diversi presupposti del permesso di soggiorno.

Il Tribunale ha supposto che l’unica prospettiva possibile fosse quella ex latere minoris e che dunque l’interesse del genitore fosse riflesso, mentre la prospettiva qui è quella dal punto di vista dell’interesse del genitore.

Va ossia verificato se l’allontanamento di un padre dal figlio minore che, essendo tra l’altro unito ad una madre rifugiata politica ha diritto di rimanere sul territorio nazionale, costituisca un motivo di carattere umanitario che impedisce il rimpatrio, a prescindere da quale sia l’interesse del minore.

PQM

La corte rigetta il primo motivo, accoglie secondo e terzo motivo, cassa in relazione ai motivi accolti, e rinvia al Tribunale di Ancona, in diversa composizione anche per le spese.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2021

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