Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7758 del 20/03/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/03/2019, (ud. 04/10/2018, dep. 20/03/2019), n.7758

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino L. – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27824/2012 R.G. proposto da:

FIDAUTO s.r.l., in liquidazione in persona del suo legale

rappresentante pro tempore rappresentata e difesa giusta delega in

atti dall’avv. Luigi Quercia e dall’avv. Livia Ranuzzi presso lo

studio di quest’ultima elettivamente domiciliata in Roma, al Viale

del Vignola n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia n. 23/7/12 depositata il 17/12/2012, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

04/10/2018 dal consigliere Succio Roberto.

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra la Commissione Tributaria Regionale ha accolto l’appello dell’Amministrazione Finanziaria, confermando la legittimità dell’avviso di accertamento per IRPEG, IRAP ed IVA 2003, IVA ed IRAP 2004, IRES 2004, IVA ed IRAP 2005, IRES 2005;

– avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione il contribuente, con atto affidato a cinque motivi;

– Resiste l’Amministrazione Finanziaria con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo e il secondo motivo di ricorso, che sono identici e quindi in sostanza costituiscono unica censura, si denuncia la nullità della sentenza gravata per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e 56 e dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la CTR illegittimamente pronunciato su un capo autonomo della sentenza di primo grado con il quale era stata risolta una autonoma questione controversa non impugnata nè contestata dall’appellante;

– il motivo è infondato;

– dalla lettura dell’atto di appello dell’Ufficio, trascritto in ricorso, non si evince con adeguata chiarezza la censura, tra le altre, mossa alla statuizione della CTP riferita al profilo in parola; ciò anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 16049 del 29/07/2005) in tema di processo tributario, la regola stabilita dall’art. 56 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado e non specificamente riproposte in appello si intendono rinunciate, deve essere coordinata col principio regolatore di detto processo, che è – almeno per quanto riguarda la sua introduzione – un processo d’impugnazione degli atti autoritativi dell’amministrazione finanziaria indicati nel cit. D.Lgs., art. 19. Ne consegue che le ragioni poste a base dell’atto impositivo impugnato si intendono acquisite al giudizio, senza che l’amministrazione finanziaria, che non sia impugnante, abbia l’onere di riproporle, potendo dette ragioni ritenersi sottratte al dibattito processuale soltanto a seguito di precisa volontà manifestata dall’amministrazione stessa; (sulla base dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto infondato il motivo di ricorso con cui si denunciava l’inammissibilità dell’appello dell’ufficio, per non avere lo stesso riproposto le ragioni poste a base della pretesa fiscale, rilevando come, nella specie, l’ufficio avesse comunque espressamente ribadito la richiesta di conferma dell’atto impugnato); in tal senso si vedano conformi anche (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 3330 del 12/02/2008 e Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12181 del 26/05/2009);

– il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere illegittimamente la CTR ritenuto (quanto alle movimentazioni bancarie dei conti intestati ai soci, che sono state ritenute relative a maggior reddito della società) gravante sugli intestatari dei conti (soci) e non sulla società l’onere di fornire prova contraria a fronte delle contestazioni dell’Ufficio;

– il motivo è infondato;

– questa Corte ha ritenuto di dover distinguere le situazioni, tra di loro costituenti casi diversi, nelle quali è necessario per l’Ufficio dar prova dell’intestazione fittizia del conto bancario rispetto alle situazioni nelle quali le circostanze sono indice della riferibilità delle operazioni finanziarie alla società; salva in entrambi i casi la prova contraria il cui onere incombe in capo al contribuente;

– infatti si ritiene (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26173 del 06/12/2011) che in tema di accertamento dell’imposta sui redditi, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 7, (nel testo vigente “ratione temporis”), secondo cui gli Uffici finanziari e la Guardia di Finanza, previa autorizzazione degli organi a ciò deputati, possono richiedere copia dei conti intrattenuti con il contribuente, non prevede alcuna limitazione all’attività di indagine volta al contrasto dell’evasione fiscale, circoscrivendo l’analisi ai soli conti correnti bancari e postali o ai libretti di deposito intestati esclusivamente al titolare dell’azienda, in quanto l’accesso ai conti intestati formalmente a terzi, le verifiche finalizzate a provare per presunzioni la condotta evasiva e la riferibilità alla società delle somme movimentate sui conti intestati al coniuge del contribuente, ben possono essere giustificati da alcuni elementi sintomatici come il rapporto di stretta contiguità familiare, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta, l’infedeltà della dichiarazione e l’attività di impresa compatibile con la produzione di utili, incombendo in ogni caso sulla società contribuente la prova che le ingenti somme rinvenute sui conti dei familiari dell’amministratore non siano ad essa riferibili;

– ove quindi il titolare “terzo” del conto sia formalmente “terzo”, effettivamente sarà necessario, per l’Amministrazione, provare (anche in forza delle circostanze di cui sopra si è detto), che tal “terzietà” è solo apparente, fungendo il soggetto da mera testa di legno del contribuente;

– diverso è invece il caso (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 6595 del 15/03/2013) in cui, in tema di accertamento IVA relativo a società di persone a ristretta base familiare, l’Ufficio finanziario utilizzi, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dal D.P.R. n. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, nn. 2 e 7, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, riferendo alla medesima società le operazioni ivi riscontrate tenuto conto della relazione di parentela tra quelli esistente idonea a far presumere, salvo facoltà di provare la diversa origine delle entrate, la sostanziale sovrapposizione degli interessi personali e societari, nonchè ad identificare in concreto gli interessi economici perseguiti dalla società con quelli stessi dei soci;

– in questo secondo caso (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20668 del 01/10/2014) la qualità di socio in capo al soggetto sottoposto a indagini finanziarie ne riduce la lontananza dalla società alla quale partecipa, e pertanto consente all’Amministrazione di riferire al contribuente le movimentazioni, salva la prova contraria a suo carico, al fine di determinarne i maggiori ricavi non dichiarati, in quanto tali rapporti di contiguità rappresentano elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate e non disponga di proventi diversi o ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla gestione dell’attività imprenditoriale.

– Conseguentemente, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 26829 del 18/12/2014) in tema di accertamento IVA relativo a società di capitali, il D.P.R. n. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 7, (nel testo vigente “ratione temporis”), nel prevedere che gli Uffici finanziari e la Guardia di finanza, previa autorizzazione degli organi a ciò deputati, possono richiedere copia dei conti intrattenuti con il contribuente, non pone alcuna limitazione all’attività di indagine, in quanto l’accesso ai conti intestati formalmente a terzi, le verifiche finalizzate a provare per presunzioni la condotta evasiva e la riferibilità alla società delle somme movimentate sui conti intestati all’amministratore, ai soci o ai loro familiari, ben possono essere giustificati da elementi sintomatici anche presuntivi evidenziati dalla peculiare fattispecie (nella specie, la particolare ristrettezza della compagine sociale), incombendo in ogni caso sulla società contribuente la prova che le ingenti somme rinvenute sui conti dell’amministratore, o del di lui coniuge (e socio), non siano allo stesso riferibili (conformi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 12276 del 12/06/2015; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1898 del 01/02/2016; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8112 del 22/04/2016);

– quanto poi al divieto di doppia presunzione, questa Corte ha chiarito (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15003 del 16/06/2017) che in tema di accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini sui conti correnti bancari, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, l’onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui conti correnti intestati a soggetti per i quali è fondatamente ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a sua disposizione non viola il principio “praesumptum de praesumpto non admittitur” (o il c.d. divieto di doppie presunzioni o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) sia perchè tale principio è, in realtà, inesistente, non essendo riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c. nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento, sia perchè, anche qualora lo si volesse considerare esistente, esso atterrebbe esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un’altra presunzione semplice, ma non con una presunzione legale, sicchè non ricorrerebbe nel caso di specie;

– la sentenza impugnata, come si evince a pag. 5 nella quartultima riga, ha quindi poi addossato correttamente alla società ed ai singoli soci l’onere di fornire la prova contraria, e ha – all’esito – ritenuto che detta prova non sia stata fornita;

– con il quarto motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 46, comma 5 e art. 47, convertito in L. 427 del 1993 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 1 e art. 23 e del D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 62, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente onerato il contribuente di un particolare onere di diligenza in ordine alla dimostrazione dell’esistenza dei requisiti necessari per l’applicazione alle operazioni contestate del regime c.d. “del margine”;

– il motivo è infondato;

– E’ noto come sia in primo luogo il diritto Eurounitario, specie nella sentenza resa dalla Corte di Giustizia nel caso Litdana (causa C-624/15 del 18 maggio 2017) ad affermare che le autorità fiscali di uno Stato membro non possono negare “a un soggetto passivo, che abbia ricevuto una fattura sulla quale vi sia menzione tanto del regime del margine quanto dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), il diritto di applicare il regime del margine, anche qualora da una successiva verifica effettuata da dette autorità emerga che il soggetto passivo – rivenditore, fornitore dei beni d’occasione, non aveva effettivamente applicato detto regime alla cessione dei beni di cui trattasi, a meno che le autorità competenti non dimostrino che il soggetto passivo non ha agito in buona fede o che non ha adottato tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo coinvolga in un’evasione tributaria, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”. Nel fare applicazione del principio di cui si è detto questa Corte ha recentemente tratteggiato il perimetro all’interno del quale – nel diritto domestico – le affermazioni della Corte di Giustizia debbono trovare attuazione sostanziale a processuale (Corte cass. SS. UU. N. 21105 del 12 settembre 2017). Nel caso che ci occupa, la sussistenza o meno dell’adeguata diligenza richiesta risulta esser stata oggetto di adeguata disamina da parte del giudice dell’appello. Non è infatti contrario al diritto dell’Unione esigere che un operatore agisca in buona fede e adotti – questo il punto che qui rileva – tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad un’evasione tributaria (CGUE, sentenza del 6 settembre 2012, Mecsek-Gabona, C-273/11, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). Il secondo giudice ha quindi, in definitiva, correttamente pronunciato, facendo in sentenza applicazione dei principi sopra detti;

– il quinto motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, in relazione tutti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto provata la maggior pretesa non in forza di elementi indiziari forniti dall’Agenzia delle Entrate, ma sulla base di mere affermazioni;

– il motivo è infondato;

– infatti, dalla lettura della sentenza si evince come gli elementi addotti dall’Amministrazione Finanziaria non fossero costituiti da mere affermazioni; essa ha invero fornito prova, sia pur presuntiva (portando la prova di un fatto certo, quale la circostanza che (pag. 5 sentenza della CTR) “alcuni dei soggetti cedenti non solo erano soggetti IVA, ma svolgevano attività di noleggio o leasing di autoveicoli”, dal quale poteva desumersi il fatto certo in ordine alla detrazione integrale dell’IVA da parte del cedente) a fronte della quale la CTR ha ritenuto, con motivazione come si è detto logica e convincente, che la società contribuente non abbia fornito adeguata prova, sia pur presuntiva, di segno contrario;

– in tal senso questa Corte ha anche precisato, in termini, (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 15630 del 24/07/2015 e conforme Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 3819 del 16/02/2018) che in tema d’IVA, il regime del margine di utile di cui al D.L. n. 41 del 1995, art. 36, convertito con modificazioni nella L. n. 85 del 1995, rappresentando un regime speciale, derogatorio dell’ordinaria disciplina fiscale degli acquisti intracomunitari, impone, oltre alla regolarità formale della documentazione contabile, che il contribuente provi la sussistenza dei relativi presupposti di fatto, risultando altrimenti inapplicabile indipendentemente dalla consapevolezza che il cessionario ne abbia; (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito e ritenuto legittimo l’avviso di accertamento fondato sull’elemento presuntivo della presenza tra i cedenti di società di autonoleggio che, utilizzando i veicoli come beni strumentali all’esercizio dell’impresa, avevano diritto di portare in detrazione l’IVA).

– conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 20.000 oltre alle spese prenotate a debito che pone a carico di parte soccombente.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2019

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