Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7757 del 08/04/2020

Cassazione civile sez. III, 08/04/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 08/04/2020), n.7757

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5490/2018 proposto da:

GEDI GRUPPO EDITORIALE SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, C.E. nella qualità di giornalista,

M.E. nella qualità di direttore responsabile del quotidiano

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZA DEI CAPRETTARI

70, presso lo studio dell’avvocato VIRGINIA RIPA DI MEANA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIA VACCHINI;

– ricorrenti –

contro

L.E., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

ELVIO STRAPPAFELCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1387/2017 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/01/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha chiesto

il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.E., giornalista del gruppo Editoriale l’Espresso, ha pubblicato sul sito (OMISSIS) e su quello (OMISSIS) alcuni articoli corredati da video, nei quali, riferendo di episodi di doping in cui era stato coinvolto il ciclista R., menzionava quale autore della somministrazione delle sostanze il Dott. L.E., riferendo altresì che, per i fatti di doping avvenuti nel (OMISSIS), quest’ultimo era stato radiato dalla Federazione sportiva, ed era altresì stato condannato con sentenza definitiva dalla Corte di Appello, a 14 mesi con la condizionale.

Il L. ha ritenuto diffamatorie queste attribuzioni sul suo conto, ed ha agito per il risarcimento del danno, citando in giudizio oltre che l’autore degli articoli, ossia il suddetto C., altresì il direttore responsabile M.E., ed il Gruppo Editoriale l’Espresso.

Il Tribunale, in primo grado, ha ritenuto che gli articoli incriminati rientrassero nel diritto di cronaca e di critica e che dunque operasse l’esimente dell’esercizio del diritto, escludendo pertanto la diffamazione.

Invece la corte di appello, adita dal L., con diversi motivi di impugnazione, ha ritenuto non operante l’esimente del diritto di cronaca e di critica, e ciò in ragione delle inesattezze che caratterizzavano la narrazione dei fatti rendendoli non veritieri.

Ha liquidato dunque un ammontare di 5 mila Euro a titolo di risarcimento del danno, ed ha ordinato, quale forma accessoria, la pubblicazione della sentenza per estratto sul quotidiano (OMISSIS) e sul sito internet di quest’ultimo. Avverso tale sentenza propongono ora ricorso per Cassazione sia il C. che il direttore M.E., che il gruppo Editoriale l’Espresso, con sette motivi. V’è costituzione del L. con controricorso, e richiesta di rigetto delle censure dei ricorrenti, che depositano memorie. Il Pubblico Ministero ha concluso per il rigetto.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- La decisione di appello ritiene diffamatori gli articoli, e dunque non operante il diritto di cronaca, in ragione del fatto che il giornalista non avrebbe riferito la verità dei fatti, ma li avrebbe riportati con alcune imprecisioni ed inesattezze, che infirmano la detta verità, e rendono quindi impossibile affermare l’esimente, la quale, innanzitutto presuppone che il fatto riferito sia vero.

In particolare, secondo la corte di appello, due sarebbero le inesattezze tali da compromettere la verità del fatto.

In primo luogo, il giornalista ha riferito che il L. sarebbe stato radiato dalla Federazione, mentre è pacifico che egli si è dimesso prima della decisione disciplinare, che di conseguenza si è conclusa con una archiviazione; in secondo luogo, il giornalista ha ritenuto che il L. era stato condannato con sentenza definitiva della corte di appello a 14 mesi, quando invece la sentenza, lo stesso giorno della pubblicazione, veniva impugnata in Cassazione, che poi l’ha confermata, con la conseguenza che non poteva ritenersi definitiva.

La corte di merito ha ritenuto dunque che il giornalista non ha controllato i fatti prima di riferirli ed ha, da tale negligenza, dedotto il dolo eventuale della diffamazione.

2.- I tre responsabili ricorrono come sette motivi.

2.1.- Con il primo motivo denunciano violazione, per erronea interpretazione, dell’art. 2043 c.c., art. 595 c.p. e L. n. 47 del 1948, art. 11.

Ritengono che le inesattezze in cui è incorso il giornalista sono marginali rispetto alla sostanza del fatto attribuito al Dott. L., e che imprecisioni o inesattezze marginali non rendono falsa la notizia, altrimenti vera.

La corte di merito avrebbe dunque errato nell’attribuire a tali marginali inesattezze ed imprecisioni la portata di incrinare la sostanziale verità del fatto, in tal modo erroneamente escludendo l’esimente del diritto di cronaca.

2.2.- Con il secondo motivo la medesima censura di cui al primo motivo (e dunque per violazione delle medesime norme), viene fatta rispetto al diritto di critica, ossia per censurare la decisione di appello nella parte in cui, ritenendo rilevanti quelle marginali inesattezze, oltre che il diritto di cronaca, ha escluso quello di critica.

2.3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art. 2043 c.c., art. 595 c.p., L. n. 47 del 1948, art. 11), oltre che omesso esame di un fatto rilevante e controverso, ed anzi, la violazione di legge è postulata quale conseguenza di tale omissione, non avendo la corte di merito adeguatamente letto l’articolo nel suo insieme, ed essendosi invece limitata alle singole ed inesatte espressioni.

2.4- Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 595 c.p., art. 47 c.p. e art. 51 c.p., oltre che della L. n. 47 del 1948, art. 11, sul presupposto che la corte avrebbe dedotto dalla negligente condotta del giornalista di mancata verifica della esattezza delle espressioni usate, il di lui dolo eventuale, senza considerare che, proprio la marginalità degli errori contenuti nell’articolo, esclude l’elemento soggettivo.

2.5. Il quinto motivo denuncia invece violazione della L. n. 47 del 1948, art. 12, nella parte in cui il giudice di merito ha condannato ad una sanzione pecuniaria il giornalista responsabile degli articoli, senza considerare che tale condanna comporta un accertamento della diffamazione e del relativo dolo, accertamento invece omesso nel caso presente.

2.6. Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 1223,2043,2059 c.c., nella parte in cui la corte di merito ha riconosciuto il danno non patrimoniale, senza che vi fosse agli atti alcuna prova del suo verificarsi, ritenendolo in re ipsa, ossia insito nella stessa natura della condotta accertata. Invece, il danno non patrimoniale riconosciuto al L. andava da questi provato, sia pure per presunzioni, ma provato.

2.7.- Con il settimo ed ultimo motivo, invece, si deduce erronea interpretazione della L. n. 47 del 1948, art. 9. Secondo i ricorrenti la corte non aveva il potere di emettere ordine di pubblicazione della sentenza, potere riservato al solo giudice penale, in caso di condanna, e non di certo a quello civile.

3.- I primi tre motivi possono esaminarsi congiuntamente: i primi due, in quanto censurano la stessa ratio, ossia la tesi secondo cui le inesattezze contenute negli articoli sono tali da incidere sulla verità del fatto narrato, e dunque da escludere il diritto di cronaca (primo motivo) e quello di critica (secondo motivo); il terzo in quanto contesta alla corte di aver valutato la rilevanza delle inesattezze leggendole singolarmente e tali considerandole, anzichè procedere ad una lettura complessiva degli articoli, e dunque valutare la rilevanza di quelle inesattezze alla luce del complessivo fatto narrato.

Essi sono fondati.

E’ vero che “qualora un giornalista, nel narrare un fatto di cronaca vero nei suoi aspetti generali, riferisca una circostanza inesatta, tale fatto non è di per sè produttivo di danno, occorrendo stabilire caso per caso, con giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente e logicamente motivato, se la discrasia tra la realtà oggettiva ed i fatti così come esposti nell’articolo abbia effettivamente la capacità di offendere l’altrui reputazione” (Cass. 23468/2010; Cass. 1233/2017).

Ma è anche vero che qui non si contesta l’accertamento in fatto, ossia quali, in fatto, siano le inesattezze in cui è incorso il giornalista e se effettivamente siano quelle accertate dalla corte; si discute piuttosto della rilevanza giuridica di tali inesattezze ossia della loro idoneità a diffamare il L..

Sotto questo punto di vista, questa Corte ha avuto modo di precisare che “in tema di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo stampa, la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili” (Cass. 17197/2015).

La regola di giudizio è dunque nel senso che sono da considerarsi marginali quelle inesattezze che non mutano in peggio l’offensività della narrazione, e che, per contro, sono rilevanti le imprecisioni che stravolgono il fatto “vero” in maniera tale da renderne offensiva la sua attribuzione a taluno. Ove cioè si ritenga che il fatto “vero” non è offensivo ed è dunque da tale da rientrare, per la sua “verità”, nel diritto di cronaca, le inesattezze che lo riguardano, per avere rilevanza giuridica, devono essere tali da trasformare quel fatto da inoffensivo a diffamatorio.

La valutazione di tale rilevanza non costituisce accertamento in fatto, ma giudizio di valore, e dunque giudizio circa la rilevanza giuridica della inesattezza.

Inoltre, è di tutta evidenza che, ai fini di un tale giudizio la rilevanza delle inesattezze va colta non valutandole di per sè, ma per il peso che esse hanno sull’intero fatto narrato, al fine di stabilire se siano idonee a rendere il fatto “falso”, e, oltre che tale, diffamatorio.

Nella fattispecie, le imprecisioni addebitate al giornalista sono due.

La prima consiste nel fatto di aver ritenuto radiato dalla Federazione sportiva il L., mentre il procedimento disciplinare, anzichè con la radiazione si era concluso con l’archiviazione, non nel merito, ma per via delle dimissioni rassegnate dal L. nelle more del procedimento, cosi che non essendo questi più iscritto non poteva essere radiato.

La seconda è di aver ritenuto condannato “definitivamente” dalla Corte di Appello il L., quando invece la condanna non era definitiva, in quanto contemporaneamente alla pubblicazione dell’articolo veniva proposto ricorso per Cassazione, rigettato poco dopo con conferma della predetta condanna.

Dalla motivazione della sentenza impugnata traspare che la corte ha omesso di effettuare una concreta verifica, limitandosi a considerare come inesatte di per sè queste due affermazioni (la radiazione e la definitività della sentenza), e a ritenere insita nella inesattezza stessa la offensività del narrato, tanto è vero che ne ricava altresì la non continenza dei toni.

E’ la regola di giudizio che è errata, in quanto assume che l’inesattezza di per sè comporta diffamazione, mentre l’inesattezza ha quell’effetto solo se trasforma il fatto da “vero” a “falso” ma in modo che quest’ultimo sia diffamatorio.

L’accoglimento dei primi due motivi comporta assorbimento degli altri, posto che si tratta di censure a rationes decidendi conseguenti alla condanna, ossia alla ritenuta diffamatorietà delle imprecisioni ed inesattezze rilevate nell’articolo, compreso l’ordine di pubblicazione, di cui al settimo motivo, che ha una sua ragion d’essere solo in caso di condanna.

Il ricorso va pertanto accolto in tali termini e la sentenza cassata con rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie primo e secondo motivo, assorbiti gli altri. Cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2020

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