Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7747 del 05/04/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/04/2011, (ud. 04/03/2011, dep. 05/04/2011), n.7747

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

TACCHIFICIO LACHI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAMERINO n. 15, presso lo studio

dell’avvocato CIPRIANI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato BORRI PAOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CORETTI

ANTONIETTA, CALIULO LUIGI, CORRERA’ FABRIZIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 782/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 02/07/2007 R.G.N. 912/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/03/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA per delega CORETTI ANTONIETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 22.2.2005, il Tribunale di Arezzo aveva accolto la domanda di accertamento negativo dell’obbligo contributivo proposta dalla s.r.l. Tacchificio Lachi nei confronti dell’INPS e dichiarato che la prima nulla doveva a titolo di contributi in ordine all’accertamento ispettivo dell’8.8.2003.

Con sentenza del 2.7.2007, la Corte di Appello di Firenze, in accoglimento del gravame dell’INPS, rigettava la domanda avanzata della società appellata e condannava la stessa al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio.

Sosteneva la Corte territoriale che la circostanza – pacifica – che la lavoratrice si fosse occupata di eseguire rifiniture su scarpe prodotte dal Tacchificio presso il proprio domicilio (pacifica), con attrezzature e materiali forniti dalla società e senza alcuna organizzazione imprenditoriale, e che la stessa non prestasse attività lavorativa per altri committenti rappresentassero elementi idonei a configurare un vero e proprio rapporto di lavoro a domicilio. In particolare, valorizzava il dato della inesistenza di una micro unità imprenditoriale, atteso che la lavoratrice aveva assunto il ruolo di mera esecutrice esterna di una fase lavorativa propria del ciclo produttivo dell’azienda.

Propone ricorso per cassazione la società Tacchificio Lachi, affidando l’impugnazione a due motivi.

Resiste con controricorso l’INPS.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società Tacchificio Lachi a r.l. deduce la violazione e falsa applicazione della L. 18 dicembre 1973, n. 877, art. 1, circa i caratteri identificativi del rapporto di lavoro a domicilio (art. 360 c.p.c., n. 3), assumendo che la mancanza di organizzazione imprenditoriale non possa rappresentare l’unico criterio distintivo idoneo a configurare la fattispecie del lavoro a domicilio, prescindendosi da ogni riscontro relativo all’esistenza della subordinazione, sia pure con caratteristiche proprie del tipo di rapporto posto in essere. In particolare, rileva che avrebbe dovuto valutarsi nel caso concreto la sussistenza o meno di un ineludibile obbligo per la lavoratrice di prestare la sua attività di rifinitrice senza libertà di accettare o rifiutare il lavoro commessole e senza discrezionalità in ordine ai tempi di consegna del lavoro stesso e che nella specie tale accertamento era stato del tutto omesso, onde non era emersa la presenza di tali imprescindibili requisiti, idonei a configurare un rapporto di subordinazione.

Osserva la ricorrente che, secondo l’impostazione della corte territoriale, non sarebbe possibile distinguere il lavoro a domicilio dalla prestazione d’opera autonoma di carattere artistico o creativo, svolta presso la propria abitazione . La società pone, a conclusione della parte argomentativa del motivo, quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il secondo motivo lamenta la mancata o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, quale quello della sussistenza del vincolo di subordinazione (art. 360 c.p.c., n. 5): assume che la motivazione risulta mancante o insufficiente con riguardo alla sussistenza del vincolo della subordinazione tra la collaboratrice e l’imprenditore committente e che ciò costituisce il fatto controverso e decisivo per il giudizio, atteso che, in ogni caso, ai fini della configurabilità di un rapporto di lavoro a domicilio, le direttive, quand’anche consacrate in un programma di massima, dovevano, comunque, essere impartite.

Deve, preliminarmente, osservarsi che la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice di merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata od autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi che rivelano l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto, attraverso la valutazione delle risultanze processuali e sono idonei a ricondurre Sa prestazione al suo modello, costituisce apprezzamento di fatto, che, se immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (in tali termini Cass. 17 gennaio 2004 n. 669).

Quanto alla tipologia lavorativa in oggetto la stessa realizza una forma di decentramento produttivo, in cui l’oggetto della prestazione del lavoratore assume rilievo non già come risultato, ma come estrinsecazione di energie lavorative, resa in maniera continuativa all’esterno dell’azienda, e però organizzata ed utilizzata in funzione complementare o sostitutiva del lavoro eseguito all’interno di essa, e, correlativamente, il vincolo di subordinazione viene a configurarsi come inserimento dell’attività del lavoratore nel ciclo produttivo aziendale, della quale la prestazione lavorativa da lui resa, pur se in ambienti esterni all’azienda e con mezzi ed attrezzature anche propri del lavoratore stesso, ed eventualmente anche con l’ausilio dei suoi familiari, purchè conviventi e a carico, diventa elemento integrativo (cosiddetta subordinazione tecnica) (cfr. Cass 15 novembre 2004 n. 215949).

La configurabilità della subordinazione, sia pure attenuata, che caratterizza il lavoro a domicilio, deve, invece, escludersi allorquando il lavoratore goda di piena libertà di accettare o rifiutare il lavoro commessogli, ovvero abbia piena discrezionalità in ordine ai tempi di consegna del lavoro stesso, escludendo tali modalità della prestazione un effettivo inserimento del lavoratore a domicilio nel ciclo produttivo aziendale che comporta una piena e sicura disponibilità del prestatore di lavoro ad eseguire i compiti affidatigli e a soddisfare le esigenze e finalità programmate dall’impresa (cfr. Cass 11 maggio 2002 n. 6803). E’ stato, poi, affermato da questa Corte che, nei casi in cui l’accertamento e la valutazione delle modalità in argomento lascino spazi di incertezza ed ambiguità è utile avere riguardo anche alla volontà delle parti, espressa nella regolamentazione del loro rapporto, nonchè ad altri elementi, da sempre ritenuti capaci di caratterizzare il rapporto in termini di subordinazione o autonomia, quale il possesso da parte del lavoratore a domicilio di macchinari e attrezzature idonei ad attestare l’esistenza di una piccola impresa e/o la sua natura artigianale (cfr. Cass 6803/2002 cit.).

Con riguardo all’ipotesi considerata, non può ritenersi, alla luce dei principi riportati come affermati da questa Corte, che i parametri da porre a base della valutazione sono stati violati, atteso che la esistenza di una facoltà della lavoratrice di accettare ovvero di rifiutare il lavoro commissionatole ovvero di stabilire autonomamente i tempi di consegna non risultano richiamati dalla società come elementi posti a sostegno della domanda, nè vengono indicati i termini in forza dei quali si era agito in sede di accertamento negativo dell’obbligo contributivo. Peraltro, come rilevabile dal contenuto della sentenza I impugnata, è stato in modo de tutto condivisibile valorizzato, evidentemente proprio in ragione della incertezza ed equivocità di altri dati, il dato obiettivo della inesistenza di una microunità imprenditoriale, idonea a configurare un’autonomia organizzativa della lavoratrice. D’altronde, la natura ed il contenuto propri del tipo di attività resa, limitata alla rifinitura delle calzature prodotte dal Tacchificio, e, quindi, caratterizzata da un limitato e specifico contenuto professionale, rendevano non necessarie costanti ed articolate direttive circa il lavoro da svolgere da parte del committente, nel cui ciclo produttivo doveva la lavoratrice ritenersi stabilmente inserita, riguardando la sua prestazione lavorativa prodotti oggetto dell’attività del committente ed essendo la stessa svolta incontestatamente senza ausilio di manodopera salariata e con utilizzazione di macchinari ed attrezzature di proprietà di quest’ultimo.

Vera è che, in tema di riparto dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto grava sempre su colui che si afferma titolare del diritto stesso ed intende farlo valere, ancorchè sia convenuto in giudizio di accertamento negativo, con la conseguenza che la sussistenza del credito contributivo dell’INPS, preteso sulla base di verbale ispettivo, deve essere comprovata dall’Istituto con riguardo ai fatti costitutivi rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria (cfr. in tale senso, da ultimo, Cass 10 novembre 2010 n. 22862); tuttavia, nello specifico, la facoltà della lavoratrice di incidere sui tempi di consegna o di accettare ovvero rifiutare le singole commesse, ovvero la pattuizione di un prezzo con il committente di volta in volta devono ritenersi elementi la cui sussistenza doveva fare carico, dal punto di vista dell’assolvimento del relativo onere probatorio, alla società contribuente, non potendo di certo richiedersi una prova negativa al riguardo da parte dell’istituto, una volta accertata la presenza di elementi che connotavano in termini di subordinazione il rapporto de quo.

La società avrebbe dovuto offrire dimostrazioni utili alla sua tesi, ritenute dalla corte di merito, con motivazione esaustiva ed immune da vizi, non fornite, essendo stato evidenziato che non erano emersi dal materiale probatorio acquisito agli atti de processo spunti di alcun genere per confortare una scelta diversa da quella posta in essere, avallata in modo confortante dalla assenza di autonomia operativa di ogni genere in capo alla lavoratrice Nella specie, non ravvisandosi nell’iter argomentativo del Giudice d’appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, anche il secondo motivo di ricorso deve essere disatteso.

Per concludere, il ricorso va rigettato e va confermata la sentenza impugnata, per essere la stessa supportata da una motivazione che, oltre ad essere congrua e priva di salti logici, ha fatto corretta applicazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 10,00 per esborsi, Euro 2.000,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2011

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