Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7745 del 08/04/2020

Cassazione civile sez. III, 08/04/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 08/04/2020), n.7745

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26441/2016 proposto da:

REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 12, presso lo studio

dell’avvocato GRAZIANO PUNGI’, rappresentata e difesa dall’avvocato

ROBERTA VENTRICI;

– ricorrente –

contro

PAOB SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 405, presso lo

studio dell’avvocato FABIO CIRAMI, rappresentata e difesa dagli

avvocati MARZIALE GIDARO, SERGIO GIDARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1407/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 08/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha chiesto

che si dichiari improcedibile il ricorso per cassazione della

Regione Calabria.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Regione Calabria ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1407/16, dell’8 settembre 2016, della Corte di Appello di Catanzaro, che – rigettando il gravame da essa esperito contro l’ordinanza n. 3953/13, del 29 novembre 2013, pronunciata ex art. 702-ter c.p.c., dal Tribunale di Catanzaro – ha condannato l’odierna ricorrente a pagare alla società PA.OB. S.r.l. la somma di Euro 79.978,08, quale quota gravante sulla medesima Regione, e pari al 30% dell’importo complessivo, del corrispettivo dovuto a tale società per prestazioni socio-sanitarie.

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di essere stata convenuta in giudizio, nelle forme del processo sommario di cognizione, innanzi al Tribunale di Catanzaro, per essere condannata al pagamento di quanto dovuto alla società PA.OB, oltre interessi per ritardato pagamento ai sensi del D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231.

L’allora attrice, assumeva, infatti, di aver stipulato con l’Azienda Sanitaria Provinciale territorialmente competente (quella di Catanzaro), ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 8-quinquies, un accordo contrattuale per l’erogazione di prestazioni sociosanitarie. In particolare, sul presupposto di aver conseguito dalla suddetta ASP quanto dovutole a titolo di corrispettivo, ovvero il 70% dell’importo complessivo ad essa spettante, l’attrice domandava la condanna della Regione Calabria al pagamento della restante quota del 30%, gravante sul Fondo Sociale regionale, sulla base dell’insorgenza, in capo all’odierna ricorrente, di una obbligazione “ex lege”, secondo quanto previsto dalla L.R. Calabria 5 dicembre 2003, n. 23, art. 7, come modificato della successiva L.R. 5 ottobre 2007, n. 22, art. 17. In subordine, l’attrice proponeva domanda di condanna della Regione al pagamento di un indennizzo, a titolo di indebito arricchimento, di pari importo, ex art. 2041 c.c..

Si costituiva in giudizio la Regione Calabria, opponendosi alla avversaria domanda sulla base di una serie di argomentazioni.

Essa deduceva, in primo luogo, l’impossibilità giuridica di configurare una obbligazione “ex lege” a proprio carico, con conseguente inopponibilità di un contratto al quale era rimasta estranea, secondo il chiaro disposto dell’art. 1173 c.c., che esclude la possibilità di configurare un’obbligazione di fonte legale in presenza di un contratto. In ogni caso, eccepiva che il contratto non le fosse comunque opponibile, stante la sua difformità rispetto alle Linee Guida emanate dalla Giunta regionale con Delib. n. 685 del 2002, secondo cui, nella fase di stipula degli accordi contrattuali, è sempre necessaria la partecipazione, a pena di invalidità del contratto, del Dirigente generale del Dipartimento delle politiche sociali, allorchè l’accordo implichi oneri a carico del Fondo Sociale. Peraltro, la nullità, o comunque l’invalidità del contratto, veniva argomentata sul rilievo che lo stesso sarebbe stato privo sia dell’indicazione della spesa afferente il Fondo Sociale, che della necessaria copertura finanziaria.

Conclusivamente, l’allora convenuta assumeva anche la non assoggettabilità del contratto in questione alla disciplina prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2002, in materia di interessi moratori nelle transazioni commerciali, stante il fine solidaristico della prestazione erogata da PA.OB., nonchè la configurabilità del rapporto instaurato con l’ASP in termini di concessione di servizi.

Accolta dall’adito Tribunale la domanda, la Regione Calabria proponeva gravame, reiterando le medesime argomentazioni già sopra illustrate, vedendosi, tuttavia, rigettare lo stesso dalla Corte catanzarese.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione la Regione Calabria, sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – si ipotizza violazione o falsa applicazione della L.R. Calabria 18 luglio 2008, n. 24, art. 13, comma 2 (peraltro, erroneamente indicata nell’epigrafe del motivo come L. n. 24 del 2004), nonchè della L.R. 5 dicembre 2003, n. 23, art. 7, come modificato della successiva L.R. 5 ottobre 2007, n. 22, art. 17, oltre che degli artt. 1173 e 1322 c.c., deducendosi, inoltre, omesso esame su “punti decisivi della controversia”.

Si censura la sentenza impugnata laddove, condividendo quanto già ritenuto dal primo giudice, ha affermato che – ai sensi della L.R. n. 24 del 2008, art. 13, comma 2 – le Aziende Sanitarie Provinciali sarebbero gli unici soggetti legittimati a stipulare accordi con le strutture private accreditate, anche nel caso di prestazioni sociosanitarie, gravanti sul Fondo Sociale regionale e non su quello sanitario, accordi opponibili alla Regione sebbene privi della sottoscrizione del Dirigente generale del Dipartimento avente competenza proprio sul Fondo Sociale.

Si sarebbe ignorato, in questo modo, il fatto che le predette ASP hanno competenza a sottoscrivere i contratti con strutture private accreditate solo ed esclusivamente per quel che concerne il Fondo sanitario regionale, secondo quanto risulterebbe dalla L.R. n. 24 del 2008, art. 3, comma 6 e art. 13, comma 2, nonchè dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8-quinquies e dalla L.R. n. 23 del 2003, art. 36, comma 2.

Si evidenzia, inoltre, come il necessario e imprescindibile raccordo tra la spesa gravante sul Fondo Sociale e la programmazione annuale di spesa per prestazioni assistenziali sia stato realizzato attraverso le già ricordate Linee Guida, approvate con Delib. Giunta Regionale n. 685 del 2002, le quali prevedono, nella fase della stipula degli accordi contrattuali “de quibus”, la partecipazione necessaria, a pena di nullità, del Dirigente generale del Dipartimento delle politiche sociali, proprio perchè unico soggetto legittimato ad impegnare le somme dell’apposito capitolo di bilancio afferente le spese sociali.

Sul punto, la sentenza impugnata, nel qualificare tale Delibera come un provvedimento amministrativo e non un regolamento, ha ritenuto che lo stesso sia stato superato dalla L.R. n. 24 del 2008, art. 13, comma 2, affermazione, quest’ultima, che viene ritenuta erronea, considerato che l’art. 3, comma 6, della stessa L.R., ha previsto che, per il settore socio-sanitario, le attività gestionali disciplinate dalla medesima legge siano svolte d’intesa con le strutture regionali competenti in materia di politiche sociali, sulla base di un apposito protocollo operativo assunto con Delib. Giunta Regionale.

In forza di questi rilievi viene anche formulata la censura di violazione dell’art. 1322 c.c., sul presupposto che, in occasione della stipula degli accordi contrattuali suddetti e nell’esercizio del potere di autonomia contrattuale, le parti si sarebbero assoggettate alla osservanza di una regolamentazione che, nel realizzare l’interesse alla programmazione della spesa socio-sanitaria, prevedeva la partecipazione attiva del Dirigente generale del Dipartimento per le politiche sociali.

Si ribadisce, inoltre, l’impossibilità di ravvisare nella specie un’obbligazione “ex lege”, conclusione che sarebbe in contrasto con l’art. 1173 c.c., stante l’impossibilità di configurare un debito di fonte legale in presenza di un contratto, assumendosi, infine, il vizio di omessa pronuncia su punti decisivi della controversia, in relazione alla dedotta violazione, oltre che di tale norma, anche dell’art. 81 Cost., secondo cui nessuna legge può essere fonte di una nuova spesa, in difetto di indicazione delle misure di copertura finanziaria della stessa.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza violazione o falsa applicazione della L.R. Calabria 2 febbraio 2002, n. 8, artt. 43, 44 e 45, oltre che dei principi di contabilità e di finanza pubblica.

Si censura la sentenza impugnata laddove, nel rigettare uno specifico motivo di appello, ha ritenuto di escludere la nullità/inesistenza/invalidità o inopponibilità del contratto per la mancata indicazione di spesa e della copertura finanziaria, essendo secondo il giudice d’appello – già definiti dalla Regione i volumi delle prestazioni da acquistare e le relative tariffe, sicchè il contratto risponderebbe alle forme legali prescritte e allo schema predisposto dalla Regione, non occorrendo, pertanto, alcuna preventiva copertura finanziaria.

Si tratterebbe, secondo la ricorrente, di affermazione che sconta, anche in questo caso, l’erroneità, e conseguente illegittimità, della commistione tra il Fondo per le prestazioni sanitarie e quello per le prestazioni sociali. Di qui, pertanto, l’ipotizzata violazione delle norme regionali suddette, dalle quali si desume che, in mancanza di copertura finanziaria, il necessario “provvedimento” che dispone un impegno di spesa non potrà determinare la prenotazione contabile, in quanto, in sede di controllo preventivo di regolarità contabile, il necessario visto (cui consegue la registrazione dell’impegno), sarà ricusato. Il provvedimento, dunque, non superando la verifica di regolarità contabile, non potrebbe produrre i suoi effetti, secondo generalissimi principi di diritto amministrativo.

Siffatta disciplina, peraltro, sarebbe coerente con quanto previsto dal D.Lgs. 28 marzo 2000, n. 76, oltre che con i principi generali di contabilità pubblica, desumibili dal R.D. 23 maggio 1924, n. 827, dalla L. 31 dicembre 2009, n. 196 e dal D.Lgs. 30 giugno 2011, n. 123.

3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si ipotizza violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2002, oltre che degli artt. 8 e 13 dell’accordo contrattuale “de quo”, nonchè violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. e).

Si ribadisce la tesi della non applicabilità alla presente fattispecie della disciplina sugli interessi moratori di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, in considerazione del fatto che il rapporto instauratosi tra l’ASP e la società PA.OB. avrebbe natura concessoria.

A corroborare, inoltre, la conclusione concorrerebbe la L. 30 ottobre 2014, n. 161, art. 24, comma 1, il quale, nello stabilire – con norma di interpretazione autentica – che il D.Lgs. n. 231 del 2002, si applica ai contratti previsti dall’art. 3, comma 3, del cosiddetto “codice dei contratti pubblici” (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163), non ha fatto alcun richiamo, invece, alla fattispecie della concessione di servizi, contenuta del medesimo art. 3, comma 12, alla quale sarebbe da ricondurre l’accordo contrattuale oggetto di giudizio.

Infine, si deduce come la sentenza impugnata non abbia tenuto conto nè della circostanza che il contratto sottoscritto prevedesse espressamente, in caso di ritardato pagamento, l’applicazione dei soli interessi legali, nè del fatto che, essendo la Regione Calabria interessata dal Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario, con Decreto 4 agosto 2011, n. 70, il Presidente della Giunta Regionale (proprio nella qualità di commissario “ad acta” per l’attuazione del Piano suddetto) ha integrato il contenuto dell’accordo contrattuale “de quo”, stabilendo la non applicabilità delle norme di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, ai contratti stipulati dalle ASP con le strutture accreditate. Non varrebbe, infatti, l’argomento utilizzato dalla sentenza impugnata secondo cui quello in questione costituirebbe un mero atto di indirizzo, trattandosi, invece, di un provvedimento di natura autoritativa, come tale avente efficacia generale e vincolante, secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza costituzionale (viene citata Corte Cost. n. 237 del 2007).

Tra l’altro, essendo stato tale provvedimento adottato dal Presidente della Giunta Regionale come Commissario di Governo, domiciliato “ex lege” presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato, in difetto di regolare instaurazione contraddittorio nei suoi confronti in detta qualità, il provvedimento non poteva essere nè annullato nè disapplicato dal giudice ordinario.

4. Ha resistito la società PA.OB., con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In via preliminare, la controricorrente, nel ritenere assolutamente incompleta la ricostruzione dei fatti contenuta nel ricorso della Regione, procede ad una analitica descrizione degli stessi.

Deduce, pertanto, di aver concluso, in data 28 aprile 2010, con l’ASP di Catanzaro, un accordo contrattuale per l’erogazione di prestazioni socio-sanitarie residenziali, in favore di anziani non autosufficienti e non assistibili a domicilio. Il contratto in questione, per la remunerazione delle prestazioni, faceva espresso riferimento alla L.R. Calabria n. 22 del 2007, artt. 17 e 18, secondo cui gli oneri relativi alle prestazioni rese da essa PA.OB. gravavano, nella misura del 70%, sul Fondo sanitario regionale, gestito dalle ASP, e nella misura del restante 30%, sul Fondo Sociale regionale, poi divenuto Fondo regionale per le prestazioni socio-sanitarie, ai sensi della L.R. Calabria 23 dicembre 2011, n. 47, art. 49.

Riferisce, altresì, la controricorrente che, nell’attuazione del Piano di rientro dal deficit sanitario, il Consiglio regionale della Calabria approvava la L.R. 26 febbraio 2010, n. 8, il cui art. 32, comma 3, abrogava della citata L.R. n. 22 del 2007, artt. 17 e 18, disponendo che gli oneri per le strutture socio-sanitarie, a partire dall’anno 2010, fossero interamente a carico del Fondo sanitario regionale. Tuttavia, con successivo decreto del 9 settembre 2010, n. 9, il Presidente della Giunta regionale, della qualità di commissario “ad acta” per l’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo, statuiva la disapplicazione della norma da ultimo citata, ovvero della L.R. n. 8 del 2010, art. 32.

Di conseguenza, in esecuzione del decreto “de quo”, veniva data disposizione alle ASP di procedere alla stipula dei contratti relativi all’anno 2010 tenendo conto della ripartizione degli oneri relativi alla remunerazione delle prestazioni socio-sanitarie già prevista della L.R. n. 22 del 2007, citati artt. 17 e 18. Peraltro, della L.R. n. 8 del 2010, citato art. 32, veniva dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 123 del 4 aprile 2011.

Ciò premesso, la controricorrente assume come la Regione Calabria – per tali ragioni – non abbia mai dubitato di essere, sia pure in quota parte, obbligata nei confronti delle strutture che, nell’anno 2010, hanno erogato prestazioni socio-sanitarie, nonchè, in particolare, di essa PA.OB..

Presentate dalla medesima, infatti, fatture per l’importo di Euro 186.890,24, in relazione a prestazioni rese nell’anno 2010, la Regione provvedeva a corrisponderle il minore importo di Euro 106.912,16; di talchè, per conseguire la differenza fra le due somme, l’odierna controricorrente decideva di adire il Tribunale di Catanzaro, ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c..

Tanto puntualizzato, sotto il profilo della ricostruzione dei fatti di causa, la controricorrente eccepisce, preliminarmente, l’improcedibilità del ricorso introduttivo ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2), per omesso deposito da parte della ricorrente di copia autentica della sentenza impugnata, essendosi la Regione Calabria limitata a depositare soltanto una copia fotostatica, o meglio “analogica”, della sentenza notificatale, telematicamente, proprio dal difensore di essa PA.OB..

Inoltre, viene eccepita l’inammissibilità del ricorso introduttivo ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), per insufficiente e imprecisa esposizione dei fatti di causa, in particolare perchè la Regione Calabria avrebbe fatto precedere l’illustrazione dei motivi di ricorso da una fugace, generica e imprecisa descrizione dello svolgimento del primo e del secondo grado di giudizio, omettendo ogni accenno al contenuto, se non addirittura travisandolo, tanto del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, quanto delle due pronunce rese dai giudici di merito.

Ciò detto, sempre in via preliminare, la controricorrente richiede a questa Corte di non voler tener conto, ai fini della definizione del presente giudizio, delle sentenze rese, in questa stessa sede di legittimità e sempre sul ricorso della Regione Calabria, relativamente a crediti per prestazioni socio-sanitarie azionati da soggetti diversi dalla odierna controricorrente (si tratta delle sentenze nn. 22037, 22038, 22039, 23067 del 2016). Difatti, gli argomenti utilizzati da tali pronunce – e facenti leva sul fatto che la Regione sarebbe priva di ogni competenza rispetto alla stipulazione dei contratti intervenuti fra le ASP e i soggetti accreditati per l’erogazione delle prestazioni socio-sanitarie, nonchè sulla circostanza che la L.R. n. 23 del 2003, art. 7, nello stabilire, per la remunerazione delle prestazioni “de quibus”, le quote percentuali del 70 e del 30% a carico del fondo sanitario regionale e di quello sociale, avrebbe dettato una norma destinata ad assumere rilievo solo sul piano interno, vale a dire dei rapporti fra la Regione e l’Azienda competente per territorio – non sono mai stati mai posti all’attenzione nè dei giudici di merito nè di questa Corte, con riferimento alla fattispecie che forma oggetto del presente giudizio.

Passando, poi, alla disamina dei singoli motivi di ricorso, del primo viene preliminarmente eccepita l’inammissibilità per difetto di specificità, giacchè esso conterebbe un’inammissibile mescolanza di censure fra loro eterogenee. Inoltre, esse presenterebbero carattere di novità, senza poi tacere del fatto che con la loro proposizione la ricorrente non avrebbe assolto l’onere argomentativo, confutatorio e demolitorio, gravante su chi ricorre per cassazione, non confrontandosi, specificamente, con quella che è la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata. Essa, in particolare, ritiene che la conclusione dell’accordo contrattuale fra l’ASP di Catanzaro e la società PA.OB. sia stato il presupposto di una più ampia fattispecie, che ha fatto sorgere l’obbligo, in capo alla Regione, di corrispondere la quota ad essa spettante per la remunerazione delle prestazioni socio-sanitarie rese da PA.OB, al pari di ogni altra struttura che operi in regime di accreditamento. In ogni caso, poi, il motivo sarebbe infondato, giacchè tutta la normativa citata, e della quale si assume la violazione, riguarderebbe le prestazioni socio-assistenziali, e non quelle socio-sanitarie erogate da essa controricorrente.

Carattere di novità presenterebbero anche le questioni oggetto del secondo e del terzo motivo. Con specifico riferimento a quest’ultimo, infatti, si evidenzia come, nel proprio atto di appello, la Regione Calabria avesse ipotizzato, per un verso, la non applicabilità della disciplina di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, solo per carenza del requisito di commerciabilità della prestazione, stante il fine solidaristico sotteso alla loro erogazione, ovvero la non disapplicabilità, da parte del giudice ordinario, del decreto – adottato dal Presidente della Giunta regionale nella sua qualità di commissario “ad acta” per l’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo del settore sanitario – che aveva escluso la corresponsione degli interessi di mora. In ogni caso, si sottolinea l’erroneità dell’interpretazione della già ricordata norma di cui alla L. n. 161 del 2014, art. 24, comma 1, atteso che il silenzio della stessa sulle concessioni di servizi, secondo l’odierna controricorrente, si spiegherebbe in ragione del fatto che queste si pongono in rapporto di “specie a genere” rispetto ai contratti di cui del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 12, comma 3, di talchè il riferimento ad essi includerebbe automaticamente anche le prime.

5. E’ intervenuto in giudizio il Procuratore della Repubblica presso questa Corte, in persona di un suo sostituto, che ha chiesto dichiararsi improcedibile il ricorso, in mancanza di attestazione, da parte del difensore del ricorrente, della conformità della propria firma apposta in calce al documento (analogico) depositato, costituente copia di quello digitale notificatogli.

6. Ha presentato memoria la controricorrente, insistendo sull’eccezione di improcedibilità del ricorso, ribadendo, per il resto, le altre eccezioni e difese.

8. Prima della celebrazione dell’adunanza camerate del 13 novembre 209, la controricorrente ha depositato un’ulteriore memoria, con cui, in particolare, ha sostenuto la possibilità di riconoscere la legittimazione passiva della Regione ai sensi del D.L. 27 agosto 1993, n. 324, art. 1, comma 10, convertito in L. 27 ottobre 1993, n. 423.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. “In limine”, vanno esaminate – e disattese – le eccezioni preliminari di improcedibilità ed inammissibilità del ricorso.

9.1. In relazione alla prima, deve rilevarsi come la notifica, all’odierna ricorrente, della sentenza dalla stessa poi impugnata sia avvenuta telematicamente, donde, allora la necessità dell’attestazione della conformità della copia analogica (“id est”, cartacea) della sentenza depositata all’originale digitale, nonchè – sempre a pena di improcedibilità del ricorso – anche della relata di notificazione e del messaggio “PEC” di ricezione, formalità, quest’ultima, “necessaria, perchè solo di lì si evince il giorno e ora in cui si è perfezionata la notifica per il destinatario” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6, ord. 22 dicembre 2017, n. 30765, Rv. 647029-01).

Difatti, anche la prova di resistenza – ovvero, l’accertamento che la notifica del ricorso si è perfezionata, per il ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza (Cass. Sez. 3, sent. 10 luglio 2013, n. 17066) – è, nella specie, negativa, giacchè la sentenza è stata pubblicata in data 8 settembre 2016, mentre la notifica del ricorso risale al sessantunesimo giorno successivo, ovvero all’8 novembre 2016 (che era un martedì).

Nondimeno, sul punto, trova applicazione quanto hanno precisato le Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 25 marzo 2019, n. 8312, Rv. 659537-03), secondo cui, “per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in Camera di consiglio”, evenienza, quest’ultima, verificatasi nel caso di specie, giusta la produzione della Regione Calabria del 15 ottobre 2019.

Il citato arresto delle Sezioni Unite ha, inoltre, chiarito che l’applicazione dei “suindicati principi” vale, “a maggior ragione, con riguardo al requisito del deposito della relata attestante la notificazione telematica decisione impugnata” (fr. p. 35, punto 2), ovvero con riferimento ad un’ipotesi che anch’essa viene qui in rilievo.

9.2. Non fondate sono le eccezioni di inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), oltre che per difetto di specificità dei motivi, in particolare per “mescolanza” di censure eterogenee.

9.2.1. Invero, quanto alla prima di tali eccezioni, deve osservarsi come l’inammissibilità del ricorso per cassazione, per carenza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), è limitata ai casi “in cui manchi completamente l’esposizione dei fatti di causa e del contenuto del provvedimento impugnato” (Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2014, n. 11308, Rv. 630843-01), ovvero la stessa si riveli non “funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte” (Cass. Sez. 2, sent. 24 aprile 2018, n. 10072, Rv. 648165-01), restando inteso che il carattere “sommario” dell’esposizione “implica che la stessa deve contenere il necessario e non il superfluo” (Cass. Sez. 1, sent. 27 ottobre 2016, n. 21750, Rv. 642634-01).

Nella specie, ancorchè in termini sintetici, il ricorso consente di comprendere la portata della domanda formulata in primo grado, delle difese della convenuta, dei motivi di gravame e delle parti contro cui si indirizza l’odierno ricorso.

Nè, d’altra parte, coglie nel segno l’altra eccezione, alla luce del principio secondo cui “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

Quanto alle ulteriori eccezioni e difese della controricorrente (“novità” delle questioni e non pertinenza delle sentenze di questa Corte nn. 22037, 22038, 22039 e 23067 del 2016), si dirà “infra”, nell’illustrazione dei singoli motivi.

10. Ciò premesso, il ricorso va accolto, sebbene nei limiti di seguito indicati.

10.1. Il primo motivo, che peraltro si articola – come detto – in una pluralità di censure, è fondato laddove ipotizza violazione della L.R. Calabria 18 luglio 2008, n. 24, art. 13, comma 2, nonchè della L.R. 5 dicembre 2003, n. 23, art. 7, come modificato della successiva L.R. 5 ottobre 2007, n. 22, art. 17.

10.1.1. Quanto, invece, alla censura articolata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), essa è da ritenersi inammissibile.

Al riguardo va segnalato che – essendo stato esperito dall’odierno ricorrente il gravame contro una decisione resa dal primo giudice il 29 novembre 2013 – l’atto di appello risulta, per definizione, proposto con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione posteriormente all’11 settembre 2012.

Orbene, siffatta circostanza determina l’applicazione “ratione temporis” dell’art. 348-ter c.p.c., u.c. (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonchè Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01), norma che preclude, in un caso – qual è quello presente – di cd. “doppia conforme di merito”, la proposizione di motivi di ricorso per cassazione formulati ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

10.1.2. Analogamente, pure la censura – proposta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – di violazione dell’art. 1322 c.c., risulta inammissibile, in ragione della sua novità.

Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui con il “giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 25 ottobre 2017, n. 25319, Rv. 645791-01). Ancora di recente, infatti, è stato ribadito che, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02).

10.1.3. L’esito dell’inammissibilità deve prospettarsi anche per la censura – formulata, nuovamente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – di violazione dell’art. 81 Cost..

A prescindere, infatti, da ogni altra considerazione, se la censura “de qua” venne posta all’attenzione del giudice di appello (come conferma il punto “sub” b, a pag. 3 della sentenza impugnata), senza che la stessa, però, sia stata decisa specificamente dalla Corte catanzarese, il vizio processuale da far valere sarebbe stato quello di “violazione dell’art. 112 c.p.c.”, da proporsi a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), “e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 16 marzo 2017, n. 6835, Rv. 643679-01; in senso analogo anche Cass. Sez. 6-1, ord. 12 ottobre 2017, n. 23930, Rv. 646046-01).

10.1.4. Sono, invece, fondate – come anticipato – le restanti censure di cui al primo motivo, ovvero, le dedotte violazioni della L.R. Calabria 18 luglio 2008, n. 24, art. 13, comma 2, nonchè della L.R. 5 dicembre 2003, n. 23, art. 7, come modificato della successiva L.R. 5 ottobre 2007, n. 22, art. 17 e ciò alla luce di quanto affermato da Cass. Sez. 1, sent. 31 ottobre 2016, n. 22037, Rv. 642636-02.

10.1.4.1. Invero, anche nel caso deciso da tale pronuncia era stata demandata a questa Corte la disamina di una fattispecie in cui la Regione Calabria, “pur non avendo partecipato alla stipulazione della convenzione” (intervenuta in relazione a prestazioni consistite nella “accoglienza presso strutture residenziali e semiresidenziali di persone anziane e disabili che non fossero assistibili a domicilio”), era stata ritenuta obbligata “a rispondere per la quota del corrispettivo posta a carico del Fondo Sociale”, escludendosi “a tal fine la necessità della sottoscrizione del Direttore generale del Dipartimento regionale delle Politiche Sociali, prescritta dalla citata Delib. n. 685 del 2002”; conclusione, questa, argomentata “in virtù del richiamo alla L.R. n. 24 del 2008, art. 13, comma 2, il quale demanda in via esclusiva alle aziende sanitarie la definizione degli accordi con le strutture pubbliche e private, sia pure sulla base dei piani annuali preventivi e delle valutazione dei bisogni di prestazioni, nell’ambito dei livelli di spesa e dei livelli assistenziali stabiliti dalla programmazione regionale, alla stregua di tale disposizione” (cfr. Cass. Sez. 1, sent. n. 22037 del 2016, cit.).

In particolare, anche in quel caso, la Corte di merito aveva “affermato che il contratto stipulato per iscritto dal soggetto deputato allo scopo deve considerarsi idoneo a produrre effetti anche nella sfera della Regione, per quanto riguarda la corresponsione della quota imputata al Fondo Sociale regionale”.

Orbene, questa Corte ha ritenuto, invece, che una simile conclusione non trovi “giustificazione nè nelle modalità di gestione del Fondo Sociale regionale, disciplinate dalla L.R. n. 23 del 2003, nè in quelle d’instaurazione dei rapporti con le strutture pubbliche e private abilitate alla prestazione dei servizi sociosanitari, disciplinate dalla medesima legge e da quelle relative al Servizio Sanitario Regionale” (Cass. Sez. 1, sent. n. 22037 del 2016, cit.).

Si è ritenuto, infatti, che “alla stregua di tale disciplina, che demanda alle Asl ogni potere d’intervento diretto in materia di assistenza socio-sanitaria, ivi compresa l’instaurazione di rapporti contrattuali con le strutture pubbliche e private chiamate a rendere le relative prestazioni in regime di accreditamento, riservando alla Regione esclusivamente compiti di programmazione, coordinamento e vigilanza, tra i quali è compresa anche la ripartizione tra le Asl delle risorse economiche necessarie per l’effettuazione dei predetti interventi, deve escludersi che l’esecuzione delle prestazioni rese dalla società attrice in favore degli assistiti abbia potuto far sorgere obbligazioni a carico della Regione, rimasta estranea alla stipulazione della convenzione con l’Asp (…) e comunque priva di ogni competenza al riguardo” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, sent. n. 22037 del 2016, cit.).

In particolare, questa Corte ha ritenuto non condivisibile “il richiamo della sentenza impugnata alla L.R. n. 23 del 2003, art. 7, che poneva a carico del Fondo Sociale regionale una quota del corrispettivo delle predette prestazioni, trattandosi di una disposizione che, oltre ad essere stata superata dalla successiva evoluzione legislativa, non poteva comportare una responsabilità diretta a carico della Regione nei confronti delle strutture accreditate, essendo destinata ad assumere rilievo esclusivamente sul piano interno dei rapporti finanziari tra la Regione e Asl competente per territorio”. In questa prospettiva, significativo è stato ritenuto “il preambolo della già citata Delib. n. 685 del 2002, nella parte in cui si riferiva alla Delib. Giunta Regionale 10 ottobre 2000, n. 643, con cui, richiamandosi il D.Lgs. n. 502 del 2002, art. 3-septies, era stato previsto lo stanziamento in bilancio di maggiori somme per il pagamento delle rette da parte delle ASL in favore delle strutture sociosanitarie private: nella medesima prospettiva, d’altronde, l’allegato alla Delib. n. 685, pur subordinando la validità degli accordi contrattuali alla sottoscrizione anche da parte del Dirigente Generale del 15 Dipartimento della Regione Calabria, o di un suo delegato, precisava che la documentazione relativa al pagamento doveva essere inviata alle ASL, in tal modo lasciando intendere che, conformemente alla disciplina riportata, il corrispettivo era a carico dei predetti soggetti, ivi compresa la quota da imputarsi al Fondo Sociale regionale. Pertanto, anche a voler ritenere che la Regione non potesse, con un proprio atto amministrativo, stabilire le condizioni di validità degli accordi in questione, i cui requisiti soggettivi andavano individuati sulla base delle competenze previste dalla disciplina legislativa di settore, dovrebbe comunque escludersi la possibilità di desumere dalla stipulazione degli stessi l’avvenuta instaurazione di un rapporto diretto con la Regione, ed il conseguente obbligo di quest’ultima di provvedere, sia pure parzialmente, al pagamento delle rette”. La conclusione è, dunque, nel senso che, “al di fuori dei casi in cui sia la stessa legge a prevedere l’instaurazione di rapporti con i terzi, in virtù dell’inerenza dell’atto da cui derivano all’esercizio di funzioni proprie o all’intervento diretto nelle vicende di enti da essa dipendenti, la Regione rimane normalmente estranea alla concreta gestione dei servizi socio-sanitari, essendo titolare di competenze riguardanti esclusivamente la sfera della programmazione, del coordinamento e della vigilanza sugli enti operanti nel settore, con la conseguenza che, in mancanza di un’espressa disposizione di legge che lo consenta, non sono ad essa riferibili in via diretta gli effetti degli atti posti in essere dai predetti enti nell’esercizio delle rispettive funzioni. Una siffatta disposizione non è rintracciabile nel caso in esame, non potendo essere ravvisata nè nella L.R. n. 23 del 2003, art. 7, avente, come si è detto, una portata riferibile esclusivamente ai rapporti finanziari interni all’area dei servizi socio-sanitari, nè nella L.R. n. 24 del 2008, art. 13, il quale anzi, nell’attribuire esclusivamente alle ASL la competenza in ordine alla stipulazione dei contratti con le strutture accreditate, depone chiaramente in senso contrario all’efficacia diretta di tali contratti nei confronti della Regione” (in tal senso, ancora una volta, Cass. Sez. 1, sent. n. 22037 del 2016, cit.).

10.1.4.2. Orbene, nel presente caso, non vi è ragione di discostarsi da tali affermazioni, peraltro ribadite da successive pronunce di questa Corte (si vedano Cass. Sez. 1, sent. 12 maggio 2017, n. 11924 e Cass. Sez. 6-1, ord. 28 febbraio 2019, n. 5982, ambedue non massìmate, nonchè Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2018, n. 17587, non massimata sul punto).

Tra l’altro, proprio l’ultimo degli arresti appena richiamati – sul presupposto che “il sistema sanitario nazionale istituito con la L. n. 833 del 1978, è stato attuato attraverso il D.Lgs. n. 502 del 1992, che ha “regionalizzato” la sanità” – ha ritenuto che “le diversità strutturali ed il minore o maggiore accentramento delle competenze devono essere ricercati all’interno delle differenti legislazioni regionali attraverso le quali, tenendo conto delle specifiche caratteristiche territoriali, è stata riorganizzata sia la struttura operativa sanitaria locale che l’esercizio delle funzioni amministrative necessarie per il suo funzionamento” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 17587 del 2018, cit.).

Su tali basi, pertanto, è stato ribadito che “la Regione Calabria (con la L.R. n. 24 del 2008), per le prestazioni sanitarie, ha ridefinito la disciplina dell’accreditamento confermando il conferimento alle ASL della legittimazione a stipulare gli accordi con le strutture pubbliche, demandando alle aziende sanitarie locali ogni potere di intervento diretto in materia di assistenza ed escludendo, con ciò, che potessero sorgere obbligazioni a carico della Regione” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 17587 del 2018, cit.), per tale motivo escludendo che, per detta Regione, possa operare – diversamente che per altre (nella specie, la Regione Lazio) – il D.L. 27 agosto 1983, n. 324, art. 1, comma 10, convertito in L. 27 ottobre 1993, n. 423, vale a dire la norma richiamata dalla controricorrente nella propria memoria.

Il riferimento a tale previsione normativa, dunque, deve ritenersi non conferente, e ciò anche in ragione del fatto che – diversamente da quanto assume l’odierna controricorrente – la “fonte normativa” idonea a fondare la legittimazione della Regione non potrebbe individuarsi in una deliberazione della Giunta regionale.

10.2. I motivi secondo e terzo restano, invece, assorbiti dall’accoglimento – quantunque nei limiti indicati – del primo motivo di ricorso.

11. All’accoglimento del ricorso segue la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Catanzaro in diversa composizione per la decisione nel merito, alla luce dei principi dianzi enunciati, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

PQM

La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo di ricorso, dichiarando assorbiti il secondo e il terzo, cassando, per l’effetto, la sentenza impugnata e rinviando alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2020

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