Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7733 del 06/04/2020

Cassazione civile sez. I, 06/04/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 06/04/2020), n.7733

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1062/2019 proposto da:

O.E., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Cristina Perozzi in forza di procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 04/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis depositato il 29/5/2018, O.E., cittadino della Nigeria, ha adito il Tribunale di Ancona- Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva lamentato una ingiusta persecuzione subita ad opera di alcuni membri della sua famiglia, appartenenti alla setta dei cultisti, senza possibilità di affidarsi alla polizia, notoriamente corrotta. In particolare uno zio, aderente a una setta cultista, lo avrebbe aggredito per motivi ereditari con un machete e lui per difendersi lo aveva colpito a sua volta con un coltello, ferendolo.

Con decreto del 4/12/2018 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso O.E., con atto notificato il 29/12/2018, svolgendo tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 6/2/2019, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 112 (c.p.c.) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4, e la mancata traduzione della decisione della Commissione Territoriale e della sentenza di appello, per lui incomprensibile e dovuta per legge.

Il ricorrente censura inoltre la violazione del principio del non refoulement di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e delle norme costituzionali e convenzionali circa un processo giusto ed effettivo.

La censura è manifestamente infondata.

Secondo questa Corte in tema di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 5, non può essere interpretato nel senso di prevedere fra le misure di garanzia a favore del richiedente anche la traduzione nella lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio, in quanto la norma prevede la garanzia linguistica solo nell’ambito endo-procedimentale e inoltre il richiedente partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, in grado di comprendere e spiegargli la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano (Sez. 1, n. 23760 del 24/09/2019, Rv. 655336 – 01; Sez. 1 n. 18863 del 12/7/2019).

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4 e n. 5, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 (c.p.c.), D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 11 e 17 e art. 2 Cost. e art. 10 Cost., comma 3, per difetto di motivazione in relazione alla mancata concessione della protezione sussidiaria.

2.1. Il ricorrente lamenta vizio motivazionale perchè la motivazione addotta nel provvedimento impugnato sarebbe meramente apparente e tautologica.

2.2. La censura è infondata.

Quanto ai profili di protezione sussidiaria cosiddetti personalizzati, riconducibili al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) il Tribunale a pagina 7, p. 5.5., ha addotto una specifica motivazione, non specificamente censurata da parte del ricorrente, poichè la minaccia da lui rappresentata si riferiva ad un solo evento. Al proposito il ricorrente non spende alcuna considerazione critica nel ricorso per rappresentare la sussistenza di un pericolo grave e individuale alla propria persona, non tutelato e non tutelabile dalle pubbliche autorità, limitandosi a generiche considerazioni priva di capacità di confutazione della decisione impugnata.

2.3. Inoltre il Tribunale ha approfonditamente analizzato nelle pagine da 4 a 7 la situazione generane dalla Nigeria e della zona di provenienza del ricorrente sulla base della consultazione di varie fonti informative internazionali citate e illustrate, pervenendo all’esclusione della sussistenza di una situazione di conflitto armato interno comportante il rischio di esposizione a violenza indiscriminata per i civili, rilevante D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c).

A fronte di ciò il ricorrente articola un dissenso riversato nel merito, fondato esclusivamente su precedenti giurisprudenziali di merito di segno contrario, ovviamente relativi a diverse vicende, situazioni e risultanze processuali.

3. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione dell’art. 353 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 11 e 17 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione alla mancata erronea concessione della protezione umanitaria.

3.1. Il riferimento all’art. 353 c.p.c. in tema di remissione al primo giudice per ragioni di giurisdizione da parte del giudice di appello, è oggettivamente incomprensibile e comunque non esplicato.

Inconferente appare il riferimento all’art. 112 c.p.c. poichè sulla domanda di permesso umanitario il Tribunale ha puntualmente pro nunciato nel p. 6, pagg. 7-9.

3.2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge.

Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 01, in tema di protezione umanitaria, ha affermato il principio secondo cui l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez.1, 23/02/2018, n. 4455).

3.3. Il Tribunale ha escluso sia la sussistenza di una condizione di specifica e personale vulnerabilità soggettiva del richiedete, sia la dimostrazione da parte sua di un significativo percorso di integrazione sociale e lavorativa in Italia, non adeguatamente configurabile nella frequenza di corsi di formazione e di lingua e in attività di volontariato, nè nella generica promessa condizionata di un impiego con assunzione a tempi ridotti con retribuzione inferiore all’assegno sociale.

Il ricorrente non espone alcuna condizione di vulnerabilità personale del richiedente limitandosi ad allegare la situazione generale della Nigeria e un generico riferimento alla propria vicenda personale, e a rivendicare, in modo inammissibilmente generico, la dimostrazione da parte sua di una stabile occupazione in Italia con assunzione a tempo determinato, che sarebbe stata erroneamente valutata dal Tribunale.

A tal proposito tuttavia le considerazioni del ricorrente, che, fra l’altro, chiamano inammissibilmente questa Corte a confrontarsi con le pretese risultanze istruttorie, si riferiscono a un documento non trascritto,nè sintetizzato e neppure individuato nella sua esatta collocazione negli atti processuali.

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di Euro 2.100,00, per compensi oltre spese prenotate a debito come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente” dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

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