Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7708 del 18/03/2021

Cassazione civile sez. II, 18/03/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 18/03/2021), n.7708

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22977/2019 proposto da:

Q.I., rappresentato e difeso dall’avvocato LORENZO TRUCCO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 74/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 11/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– la Corte d’appello di Torino rigettò l’impugnazione proposta da Q.I. avverso la decisione di primo grado, che aveva confermato la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione internazionale avanzata dal medesimo;

ritenuto che quest’ultimo ricorre sulla base di un solo motivo avverso la sentenza d’appello e che il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

ritenuto che il ricorrente lamenta violazione e/o erronea applicazione dell’art. 5, comma 6 e art. 19, D.Lgs., in relazione all’art. 10 Cost., comma 3 e all’art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3, per non essere stato riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria, evidenziando che:

– la Corte locale non aveva considerato che la protezione umanitaria costituisce ipotesi atipica e residuale di protezione;

– non aveva tenuto conto delle drammatiche esperienze vissute dal richiedente, nè dell’avvenuta integrazione in Italia, attraverso lo svolgimento di un’attività lavorativa, che lo aveva reso autonomo;

– che era iniquo dare per ininfluente un tale percorso d’inserimento;

– che la protezione minore qui invocata costituiva adempimento doveroso dell’art. 3 Cost. e dell’art. 8 Carta edu, ove si consideri la sproporzione evidente tra le libertà democratiche del nostro Paese e quelle assicurate in Ghana;

considerato che la censura è inammissibile, valendo quanto segue:

a) la Corte locale, in primo luogo giudica non credibile la narrazione del richiedente (costui aveva affermato di aver lasciato il Ghana perchè, mentre lavorava nell’officina propria, spesso gli accadeva di svenire, svenimenti che, gli era stato detto, erano dipendenti da un maleficio, sicchè era stato tenuto isolato dalla comunità), in quanto “generica, non circostanziata, contraddittoria e non riconducibile a un reale vissuto”; valutazione, questa, comprovata dal fatto che il ricorrente nei tre anni di presenza in Italia (di cui il primo trascorso presso la Croce Rossa) non aveva evidenziato disturbo di sorta;

b) aveva, indi, escluso, sulla base delle COI aggiornate consultate che in Ghana fosse riscontrabile una situazione di violenza diffusa e incontrollata, distinguendosi, al contrario, “per essere un Paese politicamente democratico e stabile, caratterizzato da una crescente qualità della vita e da uno sviluppo economico sostenuto”;

c) aveva negato sussistere i presupposti per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria mancando i seri motivi contemplati dalla legge, peraltro neppure adombrati dall’appellante, nel mentre “il grado di integrazione sociale non può essere il motivo unico per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, dovendo comunque essere presente una violazione, ovvero il pericolo di violazione dei diritti umani”, pericolo non ipotizzabile nel caso in esame;

considerato che l’esposto motivo non super il vaglio d’ammissibilità, tenuto conto di quanto segue:

a) quanto alla situazione generale in Ghana il ricorrente contesta le conclusioni della sentenza impugnata, sorrette da adeguato supporto informativo, limitandosi a manifestare la propria contrarietà, senza contrapporre evidenze di segno contrario;

b) quanto alle addotte drammatiche esperienze vissute, nulla viene puntualmente contrapposto alla motivazione resa sul punto dalla decisione;

c) quanto, infine, alla mancata valorizzazione del processo d’integrazione, va osservato che questa Corte, a partire dalla sentenza n. 4455/2018, ha affermato il principio secondo il quale il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Rv. 647298);

d) a tale principio la Corte locale si è attenuta, avendo effettuato il giudizio di comparazione, all’esito del quale ha escluso la sussistenza del presupposto della vulnerabilità, poichè, a fronte della prospettata integrazione in Italia, l’appellante si era limitato a addurre genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine, situazione questa che trovava smentita nei report consultati;

e) in conclusione, piuttosto palesemente le critiche, nella sostanza, risultano inammissibilmente dirette al controllo motivazionale, in spregio al contenuto dell’art. 360, c.p.c., vigente n. 5, in quanto, la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c., da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il soccombente ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore del costituito Ministero nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della qualità della causa, del suo valore e delle attività svolte;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del Ministero controricorrente, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese anticipate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2021

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