Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7706 del 18/03/2021

Cassazione civile sez. II, 18/03/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 18/03/2021), n.7706

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe (da remoto) – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22686/2019 proposto da:

O.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANDREA

MAESTRI, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

RAVENNA, VIA MEUCCI 7;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 46/2019 della CORTE d’APPELLO di TORINO

depositata il 07.01.2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

O.M. proponeva appello avverso l’ordinanza del 14.6.2017 con la quale il Tribunale di Bologna aveva rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale, chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o, in subordine, della protezione sussidiaria o, in ulteriore subordine, di quella umanitaria.

Il richiedente aveva dichiarato di essere nato in (OMISSIS) e di aver lasciato il Paese per timore di conseguenze negative cagionate da pratiche occulte di matrice voodoo.

Con sentenza n. 46/2019, depositata in data 7.1.2019, la Corte d’Appello di Bologna rigettava l’appello, ritenendo di condividere la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni e di mancanza di attualità del pericolo di danno grave, già espressa dalla Commissione Territoriale e dal Tribunale. La credibilità delle dichiarazioni era stata correttamente valutata dal primo Giudice alla luce dei criteri legali di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità. Il Tribunale, pur ritenendo il richiedente non credibile, affermava l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (per il quale nessuna indicazione era stata fornita) e della protezione sussidiaria. Con riferimento al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non poteva essere legittimata la presunzione di rifiuto di giustizia senza avere la prova che l’istante avesse effettivamente richiesto la protezione. Nè sussisteva nella zona di provenienza (Edo State) una violenza indiscriminata in una situazione di conflitto armato. Anche la domanda di protezione umanitaria doveva essere rigettata, non avendo il Tribunale ravvisato particolari fattori di vulnerabilità, nè dal punto di vista soggettivo nè da quello oggettivo.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione O.M. sulla base di due motivi. Resiste il Ministero dell’Interno con cntroricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo il richiedente lamenta la “Violazione e falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3) D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, art. 14, lett. b); D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6″, deducendo che qualora il Giudice avesse attivato il suo potere istruttorio al fine di integrare il quadro probatorio si sarebbe reso conto di quanto la pratica voodoo sia diffusa e temuta nella cultura africana, specie in quella nigeriana e come il cristianesimo non risulti incompatibile con essa. Pertanto, appare plausibile il timore del ricorrente per tali pratiche magiche, malgrado la sua appartenenza alla religione cristiano-cattolica. Ma vista la brutalità dei riti voodoo, che spesso prevedono l’impiego di sangue e talvolta di veri e propri sacrifici umani, nella fattispecie troverebbe applicazione D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), in relazione al timore di un danno grave alla persona; e le stesse considerazioni sarebbero idonee a fondare il riconoscimento della protezione umanitaria.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l'”Omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5) in riferimento ai presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria”. Il Giudice d’appello non avrebbe tenuto conto dei timori derivanti dalle pratiche voodoo come elementi utili ad integrare i presupposti oggettivi idonei al riconoscimento della protezione umanitaria. La Corte di merito avrebbe potuto impiegare, al fine dell’accertamento delle condizioni per il riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, le stesse circostanze allegate dal ricorrente per vedersi riconoscere una delle due forme maggiori di protezione. Sussiste, quindi, il dovere per il Giudice di motivare anche in relazione alla forma di protezione residuale. Infine, si evidenzia come il difetto di credibilità sia stato impiegato come ragione per escludere il riconoscimento della suddetta forma di protezione. Si sottolinea che l’ottica occidentale, impiegata dai Giudicanti, ha natura sostanzialmente razionale, per cui il timore di pratiche occulte appare assurdo, mentre l’ottica africana è sostanzialmente tribale-spirituale, per cui certi timori possono essere effettivamente vissuti da chi li espone.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i due motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – I motivi sono inammissibili, sotto il profilo della carente esposizione dei fatti, nonchè della specificità dei motivi.

2.2. – Secondo l’insegnamento di questa Corte (seguito anche dal presente collegio: Cass. n. 21452 del 2020), nel ricorso per cassazione è essenziale la sussistenza del requisito, prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, dell’esposizione sommaria dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, da effettuarsi necessariamente in modo sintetico, con la conseguenza che la relativa mancanza determina l’inammissibilità del ricorso, essendo la suddetta esposizione funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte (Cass. n. 10072 del 2018; conf. Cass., sez. un., n. 11308 del 2014; ex plurimis Cass. n. 21452 del 2020; Cass. n. 4029 del 2020).

Nella fattispecie in esame, il ricorrente non ha ritenuto di far precedere ai motivi di ricorso tale necessaria parte espositiva, che risulta assai carente anche nella incerta formulazione dei motivi stessi; circostanza, questa, che non ne consente la completa e necessaria comprensione e la verifica della loro ammissibilità.

L’esposizione sommaria dei fatti risponde, infatti, non già ad una esigenza di mero formalismo, bensì a consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass., sez. un., n. 22860 del 2014; Cass., sez. un., n. 1772 del 2013). Pertanto, detto requisito è volto a garantire la regolare e completa instaurazione del contraddittorio e può ritenersi soddisfatto, allorquando il contenuto del ricorso consenta al giudice di legittimità, in relazione ai motivi proposti, di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto della impugnazione (Cass. n. 16103 del 2016), senza dovere ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. n. 21137 del 2013).

2.3. – Laddove poi (rilevato che l’esigenza sottesa alla esposizione sommaria è appunto quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa), va posto in rilievo il contenuto, del tutto frammentario e disordinato, con cui sono state trattate le situazioni prese, di volta in volta, in considerazione.

3. – Ma, nei termini in cui formulati, i motivi difettano completamente anche di specificità.

Costituisce principio largamente consolidato che, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorso deve contenere i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero, peraltro, che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014) anche (e soprattutto) in riferimento alla necessaria individuabilità delle singole rationes decidendi della spiegata controversia.

Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015). Così, dunque, i motivi di impugnazione che prospettino (come nella specie) un vizio di legittimità (non solo senza la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche senza idonee argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie) sono altrettanto inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass. n. 18021 del 2016).

3.1. – Secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito (peraltro in termini generali) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Essendo, viceversa, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una adeguata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020).

3.2. – Le proposte censure, così come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

4. – Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare a controparte le spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2021

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