Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7696 del 06/04/2020

Cassazione civile sez. lav., 06/04/2020, (ud. 08/05/2019, dep. 06/04/2020), n.7696

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9506/2015 proposto da:

S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RUGGERO

LEONCAVALLO 2, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO CENCI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.R.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO

25, presso lo studio dell’avvocato PAOLO LONGO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10100/2013 del TRIBUNALE di ROMA, depositata

il 03/04/2014 R.G.N. 8918/2009.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il Consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che:

il giudice del lavoro di Roma accoglieva, in parte, la domanda proposta da S.M., diretta ad ottenere il riconoscimento di differenze retributive per il lavoro svolto alle dipendenze di D.R.R. sin dal 15 novembre 2004 e fino al 19 maggio 2006;

la sentenza di primo grado veniva appellata dal D.R., cui resisteva il S.;

la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 10100 in data 25 novembre 2013 – 3 aprile 2014 riformava in parte l’impugnata pronuncia, con la condanna dell’appellante al pagamento soltanto dell’indennità di preavviso, pari a 764,60 Euro, e del t.f.r. in ragione di 1672,07 Euro, oltre accessori di legge, compensate le spese di secondo grado;

premesso che l’attore aveva chiesto differenze retributive per un totale di Euro 9557,82 e che il giudice adito aveva accolto la domanda per la minor somma di 8917,87 Euro, condannando il convenuto inoltre alla regolarizzazione contributiva, secondo la Corte capitolina, in base alle testimonianze raccolte, risultava in primo luogo infondata la pretesa risarcitoria avanzata in via riconvenzionale dal convenuto circa asseriti errori commessi dal dipendente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa. Era, inoltre, provato il rapporto di lavoro subordinato dedotto dal S. riguardo all’ordinario orario di lavoro e alle mansioni svolte, mentre così non era in ordine al preteso orario straordinario, al mancato godimento di ferie, al lavoro festivo o notturno e al mancato godimento di permessi. Peraltro, visto che nella lettera di recesso la stessa parte convenuta aveva riconosciuto l’indennità di preavviso, quindi dovuto, quanto alla retribuzione ordinaria la Corte territoriale rilevava che dalle buste paga in atti, sottoscritte dall’appellato, emergeva che la somma mensilmente corrispostagli ammontava a Euro 1117,31 e che la medesima somma risultava indicata nei conteggi redatti dal lavoratore, sicchè nulla in proposito poteva essergli riconosciuto. Di conseguenza, posto che la sentenza di primo grado aveva quantificato le spettanze pretese dal dipendente in ragione di Euro 5619,15 per retribuzione ordinaria, Euro 764,60 per indennità sostitutiva di preavviso, Euro 862,05 per ferie ed Euro 1672,07 a titolo di t.f.r., dalla complessiva somma di Euro 8917,87 occorreva detrarre quanto riconosciuto in prime cure per differenze retributive ordinarie ed indennità ferie;

la sentenza di appello è stata impugnata da S.M. mediante ricorso per cassazione come da atto in data 1 – 2 aprile 2015, affidato a due motivi, cui ha resistito D.R.R. con controricorso notificato l’11 maggio 2015.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo parte ricorrente ha dedotto “omessa ed insufficiente valutazione su un punto decisivo della controversia circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, in quanto la sentenza impugnata si era limitata ad una pronuncia che non aveva tenuto in adeguata considerazione quella di primo grado, nè il ricorso introduttivo con gli allegati conteggi, unitamente ai documenti versati in atti. La Corte d’Appello, dunque, non aveva tenuto in debito conto, o meglio aveva omesso di considerare, la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di differenze retributive come da conteggi allegati al ricorso di cui all’art. 414 c.p.c., tra i quali la 13a mensilità, le spettanze dovute per il mese di maggio 2006, nonchè quanto opposto dall’attore con la sua memoria difensiva del 4 febbraio 2008 in risposta alla comparsa di costituzione con domanda riconvenzionale del convenuto. Nè la Corte distrettuale aveva considerato che nell’anno 2006 la retribuzione mensile del lavoratore non doveva più essere di 1117,31 bensì di 1160,28 Euro, tenuto conto degli scatti di anzianità. Neppure erano state considerate le omesse contestazioni da parte resistente ai conteggi allegati all’atto introduttivo del giudizio. Inoltre, la stessa Corte aveva mancato di valutare che la prova dell’avvenuta corresponsione dei crediti da lavoro subordinato spettava a parte datoriale. Per l’anno 2004 i giudici di appello, poi, non avevano tenuto conto che dalla busta paga, relativa al mese di dicembre, versata in atti sub doc. n. 8 in allegato al ricorso introduttivo, emergeva come esso ricorrente avesse percepito a titolo di competenze la somma di Euro 1000, circostanza confermata anche dal CUD 2005 per l’anno di imposta 2004, da cui emergeva che per detto anno erano stati corrisposti “compensi: Euro 1000,00”. Pertanto, era evidente che la Corte d’Appello aveva completamente ignorato le buste paga concernenti l’anno 2004, nonchè le differenze retribuzione ordinaria dovuta come da conteggi per il lavoratore relativi a quell’anno; tutto ciò nonostante fosse stato accertato che il rapporto di lavoro decorreva tra le parti fin dal 15 novembre 2004 e non già dal 4 gennaio 2005. Di conseguenza, esso ricorrente aveva diritto ad una retribuzione mensile di Euro 1117,31 sia per i 15 giorni di novembre, sia per il dicembre 2004, anno dunque in relazione al quale spettavano differenze retributive per complessivi Euro 433,19. Quanto, poi, all’anno 2005, la Corte d’Appello non aveva considerato che sebbene fosse stato accertato l’orario full time – h. 9.00/18,00 – come da prove testimoniali espletate, per contro dalle buste paga per i mesi di ottobre e novembre emergeva chiaramente l’applicazione di un part-time con riduzione al 50% dello stipendio, donde un compenso mensile di Euro 568,65 lordi, laddove la stessa Corte d’Appello aveva accertato il diritto del dipendente ad uno stipendio mensile per retribuzione ordinaria nella misura di Euro 1117,31 lordi, nonchè l’orario pieno full time (9-13 e 14-18), al pari di quanto ritenuto dal primo giudicante. Di conseguenza, erano dovute le differenze retributive per mensilità ordinarie di ottobre e novembre 2005, pure con relativi ratei di tredicesima. Dunque, la Corte distrettuale aveva omesso ogni valutazione in ordine alla 13a mensilità per gli anni 2004, 2005 e 2006, ciò che aveva formato oggetto di specifica domanda come da ricorso introduttivo ed allegati conteggi, nonchè riconosciuta dal giudice di primo grado, nell’ambito della complessiva somma di 561945 Euro, relativa al totale delle differenze retributive ivi quantificate, avuto altresì riguardo alle ammissioni in proposito fatte da parte convenuta come da memoria difensiva depositata in primo grado e notificata il 2 gennaio 2008, a pagina sei, ultime righe. Pertanto, in relazione all’anno 2004 spettavano 433,19 Euro, mentre per l’anno 2005 erano dovuti ulteriori Euro 445 (mesi di ottobre e novembre + differenza per tredicesima pari a 48 Euro). Inoltre, secondo il ricorrente, la Corte capitolina non aveva considerato quanto spettate a titolo di tredicesima (Euro186,22 per il 2004 + Euro 46,56 per il 2006 + Euro 1071,94 per il 2006 = 1304,72);

con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato errata applicazione dell’art. 2697 c.c., in tema di onere probatorio, poichè il giudice del gravame aveva ritenuto non esistente la prova del mancato godimento di ferie, della lavorazione durante i periodi di festività e del mancato godimento di permessi. “Riduttivo, infatti, appare il richiamo presente nella pronuncia oggetto del presente giudizio di legittimità ove si intende motivare un rigetto con la perifrasi “non vi è prova del mancato godimento” soprattutto se posto in parallelo con la norma generale della positività della prova. In altri termini, ogni soggetto processuale (sia nella posizione attiva che passiva) è onerato (non obbligato) a proporre i c.d. elementi di prova “positiva” ovvero esistente in natura e che siano nella sua piena disponibilità o rientranti nella sfera dei terzi. Certamente le stesse parti non possono essere onerate oltre detti presupposti. Sulla circostanza è stata proprio codesta eccellentissima Corte adita a “disegnare” i limiti dell’inciso “onere della prova” posto a carico delle parti processuali sin dalla Corte di Cassazione a sezioni unite del 10 gennaio 2006 n. 141…

Sulla base di quanto sopra statuito, la Corte di appello non ha considerato come le ferie e i permessi siano riconosciuti dal c.c.n.l. in proporzione al grado di anzianità lavorativa.

Quindi, nel momento in cui viene statuito in un provvedimento giurisdizionale l’assenza di prova in ordine alle ferie e ai permessi, si viola quanto statuito da codesta Corte unitamente al principio riconducibile all’art. 24 Cost., che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge in modo da renderne impossibile o troppo difficile l’esercizio (Corte Cost. 21 aprile 2000 n. 114). Senza contare come la domanda riconducibile al pagamento delle ferie e permessi non abbia costituito specifico motivo di gravame, come anche attestato dalla stessa Corte d’Appello nella citata sentenza n. 10100/2013. Si chiede pertanto che la sentenza n. 10100/2013 emessa dalla Corte d’Appello di Roma in data 25 novembre 2013 e depositata il 3 aprile 2014 venga cassata senza rinvio… Con ogni conseguente provvedimento. Vinte le spese onorari competenze da distrarsi a sottoscritto procuratore il quale si dichiara antistatario. Ai fini del contributo unificato la causa di valore pari a Euro 5620 in quanto rientrante in materia di lavoro il ricorrente è esentato dal pagamento in quanto come da dichiarazione sostitutiva di certificazione della situazione reddituale o economica D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, ex art. 461, lett. o, il signor S.M. nell’anno antecedente restaurazione del giudizio non ha avuto un reddito familiare risultante dall’ultima dichiarazione superiore all’importo previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 76 e cioè non ha avuto un reddito superiore ad Euro 33.298,99…”;

tanto premesso, entrambe le censure vanno disattese in base alle seguenti ragioni;

ed invero, quanto alla prima doglianza, la stessa appare inammissibile, attesa la carenza di compiute allegazioni da cui poter desumere le asserite omesse valutazioni, mancando soprattutto adeguata enunciazione del ricorso introduttivo del giudizio e segnatamente dei relativi conteggi con le corrispondenti voci a cura di parte attrice, in relazione ai quali si imputano in effetti le manchevolezze della pronuncia qui impugnata;

sul punto, quindi, il ricorso appare carente in ordine ai requisiti di specificità e di autosufficienza, però occorrenti a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, di guisa che è precluso l’esame nel merito delle censure illustrate, però irritualmente, con il primo motivo;

inconferenti appaiono, altresì, le doglianze illustrate con il secondo motivo, laddove in ordine alle pretese creditorie ivi menzionate, ulteriori rispetto agli ordinari emolumenti dovuti da parte datoriale, si pretende in effetti una indebita inversione dell’onere probatorio, dovendosi invece escludere nella specie l’ipotizzata errata applicazione dell’art. 2697 c.c., del resto in conformità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte in proposito, secondo cui gli elementi costitutivi dei diritti al riguardo vantati devono essere allegati e dimostrati da chi li rivendica, per cui soltanto in seguito all’esito positivo di tale prova parte datoriale è tenuta a dimostrare il pagamento delle relative obbligazioni (cfr. Cass. lav. n. 12311 del 21/08/2003: il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute ha l’onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, risultando irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggior facilità nel provare l’avvenuta fruizione delle ferie da parte del lavoratore. Infatti l’indennità sostitutiva si configura come emolumento di natura retributiva, essendo posta in relazione a lavoro prestato con violazione di norme a tutela del lavoratore e per il quale il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione e, secondo i criteri generali, l’onere probatorio si ripartisce esclusivamente facendo riferimento alla posizione processuale, restando rispettivamente a carico di chi vuol far valere un diritto ovvero di chi ne contesti l’esistenza, la estinzione o la modifica. Conforme Cass. lav. n. 22751 del 03/12/2004. Analogamente, secondo Cass. lav. n. 26985 del 22/12/2009, il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute ha l’onere di provare l’avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l’espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell’indennità suddetta, mentre incombe al datore di lavoro l’onere di fornire la prova del relativo pagamento. Conforme, id. n. 8521 del 27/04/2015. V. parimenti in motivazione Cass. lav. n. 9599 del 29/01 – 19/04/2013: “… Invero, come ripetutamente affermato da questa Corte, ai sensi dell’art. 2697 c.c., grava sul lavoratore l’onere di provare il mancato godimento delle ferie, delle festività ed anche dei permessi (ex plurimis, Cass. n. 26985/2009; Cass. 22751/2004; Cass. 12311/2003)….”);

peraltro, del tutto irrituale appare l’accenno al fatto che circa il pagamento delle ferie non vi sarebbe stato specifico gravame ex adverso, non solo perchè la questione risulta dedotta in modo assolutamente generico, anche qui perciò in difetto degli indispensabili requisiti di specificità e di autosufficienza, ma anche in quanto il preteso vizio (di ultrapetizione ovvero di pertinenti motivi di appello – in entrambi i casi quindi in ordine ad errores in procedendo) non è stato debitamente denunciato ex art. 360 c.p.c., n. 4, univocamente in termini di nullità, per violazione dell’art. 112, ovvero dell’art. 434 c.p.c.;

pertanto, il ricorso va respinto, con la conseguente condanna del soccombente al pagamento delle relative spese;

sussistono, infine, anche i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, atteso l’esito interamente negativo della qui proposta impugnazione (a nulla rilevando, invero, per quanto di competenza di questo organo giudicante, la dichiarazione di esenzione dal pagamento del contributo unificato da parte del diretto interessato, menzionata anch’essa nelle conclusioni del ricorso per cassazione), assumendo per contro rilievo assorbente l’obbligatorietà per il giudicante della declaratoria relativa al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per effetto del solo rigetto integrale dell’impugnazione, ovvero della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa, nei limiti quindi formalmente sanciti dal dettato normativo: “Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis.

– Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso” – sicchè va dato atto dei presupposti esclusivamente processuali, in base all’univoco testo della norma, perciò limitatamente alle ipotesi ivi contemplate di esito interamente negativo della proposta impugnazione. Trattasi, infatti, di obbligazione di natura tributaria che sorge direttamente dalla legge al verificarsi del relativo presupposto, rispetto al quale il provvedimento possiede mera funzione ricognitiva. Il presupposto, in altri termini, è solo quello dianzi menzionato e risultante dalla norma, la quale esige dunque dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di reiezione integrale dell’impugnazione, anche incidentale, competendo poi in via esclusiva all’Amministrazione di valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, vi sia in concreto, a causa di fattori soggettivi, la possibilità di esigere la doppia contribuzione. Qualora l’Amministrazione constati la prenotazione a debito – come nel caso del patrocinio a spese dello Stato -, le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza, tanto è vero che solo contro di esse può estrinsecarsi -se del caso- la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione. Cfr. Cass. III civ. n. 13055 del 25/05/2018, secondo cui, infatti, il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, esige dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di “respingimento integrale” dell’impugnazione, anche incidentale, competendo in via esclusiva all’Amministrazione valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, spetti in concreto la doppia contribuzione. Ne consegue che, qualora l’Amministrazione constati l’esenzione o la prenotazione a debito le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza ed è contro di esse che potrà estrinsecarsi la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione, senza che l’attestazione del giudice civile possa leggersi come di debenza della doppia contribuzione, non avendo essa tale oggetto. Pertanto, l’anzidetta declaratoria circa la sussistenza dei presupposti per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, non ha natura di condanna – non riguardando l’oggetto del contendere tra le parti in causa – bensì la sola funzione di agevolare l’accertamento amministrativo; ne deriva che tale dichiarazione non preclude la contestazione nelle competenti sedi da parte della competente Amministrazione ovvero del privato, ma non può formare oggetto di impugnazione. Cfr. al riguardo anche Cass. Sez. 6-1, n. 15166 in data 11/06/2018, secondo cui e inammissibile il ricorso per cassazione avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, poichè, trattandosi di un’obbligazione tributaria, il credito ed il procedimento per la sua riscossione spettano all’Erario che non è parte in causa, mentre la controparte del giudizio di merito è, rispetto a tale obbligazione, del tutto indifferente. V. parimenti Cass. Sez. 6-3, ordinanza n. 22867 del 9/11/2016: è inammissibile il ricorso per cassazione avverso le statuizioni della sentenza di appello che abbiano dato atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per l’erogazione, da parte del soccombente, di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, in quanto tale rilevamento, essendo un atto dovuto collegato al fatto oggettivo delle definizione del giudizio in senso sfavorevole all’impugnante, non ha un contenuto decisorio suscettibile di impugnazione, sicchè l’eventuale erroneità dell’indicazione sul punto potrà essere solo segnalata in sede di riscossione. V. ancora Cass. III civ. n. 5955 del 14/03/2014, secondo cui in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, il giudice è vincolato, pronunziando il provvedimento che la definisce, a dare atto – senza ulteriori valutazioni decisionali trattandosi di fatti insuscettibili di diversa estimazione – della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, a norma del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Cfr. pure analogamente Cass. I civ. n. 9660 del 5/4/2019 circa la natura meramente ricognitiva del provvedimento emesso ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater).

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che si liquidano in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, a favore del controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello (ove dovuto, nei sensi di cui alla motivazione che precede) per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2020

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