Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7689 del 02/04/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 7689 Anno 2014
Presidente: RUSSO LIBERTINO ALBERTO
Relatore: AMBROSIO ANNAMARIA

SENTENZA

sul ricorso 23293-2010 proposto da:
DOZZIO CAGNONI ELISABETTA,

DOZZIO CAGNONI UGO

DZZGU044S21A741J, in proprio ed in qualità di eredi
di DOZZIO CAGNONI GIOVANNI, elettivamente domiciliati
in ROMA, VIA DEL MASCHERINO 72, presso lo studio
dell’avvocato PETRILLI ANTONELLA, rappresentati e
2014
201

difesi dall’avvocato IANULARDO MARIA giusta procura
speciale a margine;
– ricorrenti contro

AGENZIA DEL DEMANIO;

GvaAl
1

Data pubblicazione: 02/04/2014

- intimata –

avverso la sentenza n. 1879/2009 della CORTE
D’APPELLO di MILANO, depositata il 29/06/2009, R.G.N.
1753/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

ANNAMARIA AMBROSIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARIO FRESA che ha concluso per il
rigetto del ricorso;

2

udienza del 23/01/2014 dal Consigliere Dott.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con

citazione

notificata

in

data

10.10.2001

l’Amministrazione finanziaria dello Stato, oggi Agenzia del
Demanio, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano
Ugo ed Elisabetta Dozzio Cagnoni, in proprio e nella qualità

al risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione abusiva
di un’area demaniale sulle rive del lago di Como di circa mq.
3.300, di cui mq. 3.155 di parco annesso a una villa e mq.
116,96 di specchio d’acqua per approdo. A fondamento della
domanda esponeva che: l’area in questione era stata concessa a
Giovanni Dozzio Cagnoni sino alla data del 16.02.1979 giusta
decreto del Ministero dei Lavori Pubblici; che – una volta
scaduta la concessione – il concessionario si era sempre
rifiutato di corrispondere i canoni richiesti
dall’amministrazione in sede di rinnovo della concessione; che
il Tribunale di Como, adito in via di opposizione alla
cartella esattoriale emessa a seguito dell’iscrizione a ruolo
del complessivo importo di canoni per £ 342.018.880, pur
ritenendo illegittima la procedura di riscossione mediante
ruolo, aveva accertato che l’occupazione del bene,
originariamente assentita a titolo precario, in assenza di
formale rinnovo della concessione ovvero di una nuova
concessione, non poteva ritenersi protratta legittimamente
oltre il termine del 16.02.1979; che, pertanto, a partire da
tale data le parti convenute avevano illegittimamente occupato
l’area in questione senza titolo, limitandosi a corrispondere
la somma simbolica di £ 250.000.

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di eredi di Giovanni Dozzio Cagnoni, per sentirli condannare

Resistevano

i

convenuti,

deducendo,

tra

l’altro,

l’eccessività delle pretese dell’Amministrazione e la
prescrizione annuale dei canoni mensili.
Con sentenza in data 21.02.2006, il Tribunale di Milano
rigettava le domande, ritenendo che il protrarsi

fosse riconducibile agli schemi del fatto illecito di cui
all’art. 2043 cod. civ., ma postulasse l’applicazione in via
analogica dell’art. 1591 cod. civ. ovvero anche il ricorso
all’azione di arricchimento senza giusta causa; e poiché,
secondo il Tribunale, la domanda dell’Amministrazione era
stata formulata in relazione all’art. 2043 cod. civ.,
risultava precluso l’accertamento sotto diverso profilo che
avrebbe comportato il mutamento della causa petendi.
La decisione, gravata da impugnazione, in via principale,
dall’Agenzia del Demanio e, in via incidentale, dai Dozzio
Cagnoni che insistevano sull’eccezione di prescrizione, era
riformata dalla Corte di appello di Milano, la quale con
sentenza in data 29.06.2009 condannava gli appellati al
pagamento dell’importo di C 302,850,66 oltre accessori e spese
dei due gradi.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per
cassazione Ugo ed Elisabetta Dozzio Cagnoni, in proprio e
nella qualità di eredi di Giovanni Dozzio Cagnoni, svolgendo
cinque motivi.
Nessuna attività difensiva è stata svolta da parte
intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE

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dell’occupazione, oltre la scadenza della concessione, non

1. La Corte di appello ha riformato la decisione di prime
cure, ritenendo che il Tribunale avesse errato, vuoi a
ritenere che non fosse possibile riqualificare l’azione
proposta, dal momento che il mutamento della causa petendi non
implicava la modificazione dei fatti costitutivi della

ritenere che il corretto inquadramento della domanda
postulasse l’azione di cui all’art. 1591 cod. civ. (da
applicarsi in via analogica) ovvero quella di cui all’art.
2041 cod. civ., con esclusione dell’azione di risarcimento
danni

ex

art. 2043 cod. civ. per illecito aquiliano. In

particolare la Corte di appello – precisato che, tra i due
inquadramenti dell’azione suggeriti dal Tribunale, il meno
convincente,

in concreto,

era quello che postulava la

qualificazione della domanda dell’Agenzia del Demanio
nell’ambito dell’azione di arricchimento, in quanto

«la

domanda in concreto proposta dall’Agenzia stessa sembrava e
sembra più attendibilmente sussumibile nella categoria
dell’illecito » –

ha ritenuto che il chiaro riferimento

all’abusiva detenzione e all’illecito comportamento dei
convenuti, ben potesse giustificare, salva la valutazione
della fondatezza nel merito,
ammissibilmente proposta

«la qualificazione di un’azione

sub specie

di risarcimento da

responsabilità extracontrattuale (o, alternativamente,
contrattuale in estensione o analogia dell’art. 1591 c.c.»,
anche perché le differenti ricadute sul piano della
prescrizione dell’inquadramento dell’azione, nell’ambito della
responsabilità contrattuale o extracontrattuale, non erano

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domanda, come dedotti dalla parte attrice, vuoi anche a

apprezzabili in concreto, attesa l’esistenza di idonei atti
interruttivi endoquinquennali.
Passando alla valutazione del merito della domanda, la
Corte di appello ha rilevato che la domanda era senz’altro
fondata, atteso che, allo scadere dell’originaria concessione,

restituzione, essendo questo riferito a un preciso termine
finale, osservando che il fatto che la concessione potesse
essere ulteriormente rinnovata (alla condizione che gli
appellanti accettassero i nuovi canoni nella misura
determinata

ex lege)

non privava di rilievo la già

preesistente situazione di abusiva occupazione

«così come

nella parallela fattispecie di cui all’art. 1592 c.c., la
possibilità di un successivo accordo tra locatore e conduttore
sul ripristino del rapporto a nuove condizioni non sarebbe in
grado in sé (…) di escludere con efficacia retroattiva il
carattere illecito dell’abusiva preesistente occupazione (…)».
Ha, infine, motivatamente dissentito da alcune argomentazioni
e conclusioni del c.t.u. pervenendo a determinare l’importo
dovuto per l’illegittima occupazione del bene demaniale nella
maggior misura indicata in dispositivo, precisando che non vi
era ultrapetizione, atteso il carattere dichiaratamente
indicativo della richiesta di condanna formulata
dall’appellante anche

«nella diversa somma che dovesse

ritenersi dovuta».
2. Il ricorso – avuto riguardo alla data della pronuncia
della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e
antecedente al 4 luglio 2009) – è soggetto, in forza del

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gli appellanti erano già in mora ex re rispetto all’obbligo di

combinato disposto di cui al d.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58,
alla disciplina di cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg.
come risultanti per effetto del cit. d.Lgs. n. 40 del 2006.
Si applica, in particolare, l’art. 366 bis cod. proc. civ.,

l’ultra-attività della norma

(ex multis,

cfr. Cass. 27 gennaio

2012, n. 1194), a tenore della quale, nei casi previsti dai
nn. l, 2, 3 e 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. l’illustrazione
di ciascun motivo deve, a pena di inammissibilità, concludersi
con la formulazione di un quesito di diritto; mentre la
censura prevista dal n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. deve
concludersi o almeno contenere un momento di sintesi (omologo
del quesito di diritto), da cui risulti
indicazione»

«la chiara

non solo del “fatto controverso”, ma anche, se

non soprattutto, la “decisività” del vizio.
E’ il caso di precisare sin da ora che, secondo i canoni
elaborati da questa Corte per la rilevanza dei quesiti ex art.
366 bis cod. proc. civ., il quesito di diritto deve essere
specifico e riferibile alla fattispecie (cfr. Cass., Sez. Un.,
5 gennaio 2007, n. 36), nonché risolutivo del punto della
controversia, tale non essendo la richiesta di declaratoria di
un’astratta affermazione di principio da parte del giudice di
legittimità (cfr. Cass., 3 agosto 2007, n. 17108); inoltre,
con esso non può introdursi un tema nuovo ed estraneo ( cfr.
Cass., 17 luglio 2007, n. 15949). In sostanza il quesito di
diritto deve comprendere (tanto che la carenza di uno solo di
tali elementi comporta l’inammissibilità del ricorso: Cass. 30

7

stante l’univoca volontà del legislatore di assicurare

settembre 2008, n. 24339) sia la riassuntiva esposizione degli
elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; sia la
sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal
quel giudice; sia ancora la diversa regola di diritto che, ad
avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di
(c.d. quesito di fatto)

richiesta dalla seconda parte dell’art. 366

bis

cod. proc.

civ. in relazione al vizio motivazionale deve consistere in
una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e
riassuntivamente destinata, che ne circoscriva puntualmente i
limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di
formulazione del ricorso e di valutazione della sua
ammissibilità (Sez. Unite, 01 ottobre 2007, n.20603). Tale
requisito non può, dunque, ritenersi rispettato quando solo la
completa lettura dell’illustrazione del motivo – all’esito di
un’interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione
della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto
ed il significato delle censure (Cass., ord. 18 luglio 2007,
n. 16002).
2.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia falsa
applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 cod. proc.
civ. con riferimento all’asserita possibile sussunzione della
fattispecie concreta dedotta in giudizio nella sfera
dell’illecito aquiliano. Al riguardo parte ricorrente deduce
che correttamente il Tribunale aveva escluso che la
responsabilità per la ritardata restituzione potesse derivare
dalla violazione del generico dovere del

neminem ledere,

trattandosi dell’inadempimento dell’obbligo specifico di

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specie. Mentre «la chiara indicazione»

restituzione della cosa alla scadenza del rapporto. A
conclusione del motivo si formula a questa Corte il seguente
quesito ai sensi dell’art. 366

bis

cod. proc. civ.:

«la

responsabilità derivante in capo all’utente di un bene
demaniale lacuale in forza di un’occupazione protrattasi per

fronte del protrarsi del pagamento di una somma pari
all’ultimo canone fissato con decreto di concessione e
pacificamente accettato dalla P.A. parimenti all’occupazione
stessa, ha natura aquiliana o contrattuale?».
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia vizio di
motivazione per contraddittorietà della motivazione

«essendo

state valutate le risultanze di causa in modo difforme a
quanto disposto dal primo giudice Tribunale di Milano».
2.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione
o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n.3 cod.
proc. civ. in riferimento alla quantificazione del

quantum

debeatur. A conclusione del motivo si chiede a questa Corte ai
sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: «in materia di canoni
demaniali o di indennità di occupazione ad essi equiparati,
quali criteri di valutazione devono essere applicati per la
loro determinazione?».
2.4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia vizio di
ultrapetizione in ordine alla misura del

quantum debeatur ex

art. 360 n.4 cod. proc. civ. con riferimento agli importi dei
corrispettivi realizzati dall’Agenzia del Demanio riguardanti
gli anni fino al 2009. A conclusione del motivo si chiede a
questa Corte ai sensi dell’art. 366

9

bis

cod. proc. civ.:

&GbLi(

lungo tempo oltre la scadenza della concessione demaniale, a

«entro quali limiti deve essere dedotta la domanda
dell’Agenzia del Demanio in ordine alla misura dei
corrispettivi non realizzati?».
2.5. Con il quinto motivo di ricorso si denuncia violazione
o falsa applicazione di norme di diritto

ex art. 360 n.3 cod.

dovute a titolo indennitario-risarcitorio. A conclusione del
motivo si chiede a questa Corte ai sensi dell’art. 366

bis

cod. proc. civ.: «gli atti strumentali propri dell’istruttoria
di un procedimento amministrativo, volto all’emanazione di un
provvedimento di concessione demaniale, sono da ritenersi
interruttivi della prescrizione ?»
3. Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili.
3.1. I motivi primo, terzo, quarto e quinto, denuncianti
violazioni di legge sostanziale o processuale, sono
inammissibile per inosservanza dei canoni sopra enunciati in
ordine alla formulazione del quesito di diritto di cui
all’art. 366 bis cod. proc. civ., atteso che i quesiti che li
corredano non recano la riassuntiva indicazione degli aspetti
di fatto rilevanti, del modo in cui i giudici del merito li
hanno rispettivamente decisi, delle diverse regole di diritto
la cui applicazione avrebbe condotto a diversa decisione,
risolvendosi in interrogativi astratti e generici, privi di
riferibilità al caso concreto e di decisività, tali cioè da
non consentire di individuare la soluzione adottata dalla
sentenza impugnata e di precisare i termini della
contestazione (cfr. Cass., Sez. Un., 19 maggio 2008, n. 12645;
Cass., Sez. Un., 12 maggio 2008, n. 11650; Cass., Sez. Un., 28

10

proc. civ. in ordine all’intervenuta prescrizione delle somme

-

settembre 2007, n. 20360), nonchè di circoscrivere la
pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto
(cfr., Cass., Sez. Un., 26 marzo 2007, n. 7258).
Valga in particolare considerare quanto segue:
– il quesito a corredo del primo motivo, per un verso,

protrarsi del pagamento di un canone «pacificamente accettato
dalla P.A. parimenti all’occupazione stessa»)

che non trovano

riscontro nella decisione impugnata e sono, anzi, da essa
smentiti e, per altro verso, ignora il nucleo centrale delle
argomentazioni dei giudici di appello,

laddove

in

applicazione di principio consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte secondo cui l’accertamento del tipo di
responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate
dall’attore – è posto in evidenza come la domanda introduttiva
del giudizio era stata concepita in termini tali da
abbracciare ogni titolo idoneo ad ottenere la reintegrazione
della P.A.; sotto quest’ultimo profilo appare evidente che
l’inadeguatezza del quesito non è altro che il riflesso della
stessa genericità delle deduzioni a sostegno del motivo;
– il quesito a corredo del terzo motivo è incompleto nella
formulazione della

regula iuris

che i ricorrenti ritengono

applicabili alla fattispecie e avulso da quella adottata nel
provvedimento impugnato, risolvendosi nella richiesta astratta
alla Corte di stabilire di stabilire «i

criteri di

valutazione» nella determinazione di canoni o indennità, senza
indicarne neppure le ragioni;

il quesito a corredo del quarto motivo è del tutto

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muove da condizionanti riferimenti di specie (quali il

incomprensibile ad una lettura autonoma dal precedente motivo
e assolutamente inidoneo a rappresentare il vizio di
ultrapetizione, denunciato nella rubrica del motivo;
– anche il quesito a corredo dell’ultimo motivo è astratto,
in

contestualizzazione

maniera

generica,

rispetto

alla

senza

fattispecie

alcuna
concreta,

risultando, altresì, privo requisito essenziale della
specifica, diretta ed autosufficiente formulazione di un
interpello alla Corte di cassazione sull’errore di diritto
asseritamente commesso dai giudici del merito e sulla corretta
applicazione della norma quale proposta nella specie dalla
ricorrente.
Orbene l’inidonea formulazione del quesito di diritto
equivale alla relativa omessa formulazione, in quanto nel
dettare una prescrizione di ordine formale la norma incide
anche sulla sostanza dell’impugnazione, imponendo al
ricorrente di chiarire con il quesito l’errore di diritto
imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta
fattispecie (v. Cass., 7 aprile 2009, n. 8463; Cass. Sez. un.,
30 ottobre 2008, n. 26020; Cass. Sez. un., 25 novembre 2008.
n. 28054), pure in tal caso rimanendo invero vanificata la
finalità di consentire a questa Corte il miglior esercizio
della funzione nomofilattica sottesa alla disciplina del
quesito introdotta con il d.Lgs. n. 40 del 2009.
3.2. Peraltro, relativamente al quinto motivo, sussiste
un’ulteriore ragione di inammissibilità, atteso che il
ricorrente allude ad

«atti strumentali»

al procedimento

amministrativo, di cui contesta l’efficacia interruttiva

12

formulato

riconosciuta dai giudici di appello, limitandosi a un mero
richiamo all’elencazione contenuta nella sentenza impugnata,
senza debitamente ed esaustivamente riprodurne i contenuti
essenziali nel ricorso e senza neppure (cautelativamente)
allegare copia degli atti in questione (posto che, per quanto

prodotti dalla controparte, che non ha svolto attività
difensiva in questa sede), risolvendosi siffatte mancanze
nell’inammissibilità del motivo per violazione del principio
dell’autosufficienza, come codificato negli artt. 369 n. 4 e
366 n. 6 cod. proc. civ..
3.3. Infine l’unico motivo (e cioè il secondo), denunciante
vizio di motivazione, è inammissibile, in quanto non si
conclude e neppure contiene «la chiara indicazione», richiesta
dalla seconda parte dell’art. 366

bis

cod. proc. civ. in

relazione al vizio di cui all’art. 360 n.5 cod. proc. civ.,
all’uopo occorrendo un momento di sintesi, omologo del quesito
di diritto. Invero il c.d. quesito di fatto deve consistere come da questa Corte ripetutamente precisato – in un elemento
espositivo che rappresenti un

quid pluris rispetto alla mera

illustrazione delle critiche alla decisione impugnata,
imponendo un contenuto specifico autonomamente e
immediatamente individuabile, volto a circoscrivere i limiti
delle allegate incongruenze argomentative, in maniera da non
ingenerare incertezze sull’oggetto della doglianza e sulla
valutazione demandata alla Corte (confr. Cass. 10 ottobre
2007, n. 20603).
Peraltro – per quanto è dato desumere dalla stringatissima

13

emerge dalla decisione impugnata trattasi di documenti

esposizione del motivo – la censura esula dall’ambito di
quelle sussumibili nell’ambito dell’art. 360 n. 5 cod. proc.
civ. (nel testo qui applicabile anteriore all’ultima novella
di cui al d.l. n.83/2012, conv. con modif. in L. n. 134/2012),
profilando – non già un contrasto interno alle argomentazioni

giuridico posto a fondamento della decisione – bensì una
“difformità”, del tutto fisiologica, tra la sentenza di
riforma in appello e quella riformata.
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
Nulla deve disporsi in ordine alle spese del giudizio di
legittimità non avendo parte intimata svolto attività
difensiva.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Roma 23 gennaio 2014

addotte, tali da precludere l’individuazione dell’iter logico-

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