Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7676 del 24/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 24/03/2017, (ud. 14/12/2016, dep.24/03/2017),  n. 7676

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1423/2015 proposto da:

S.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

AGRI, 1, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO NAPPI, che lo

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ASVO S.P.A. AMBIENTE SERVIZI VENEZIA ORIENTALE P.I. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA SAN TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio

dell’avvocato ANTONINO DIERNA, rappresentata e difesa dall’avvocato

RENATO SPERANZONI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 229/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 08/07/2014 r.g.n. 78/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/12/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso al Tribunale di Venezia in data 11.4.2012 S.G., dipendente della società ASVO spa, impugnava il licenziamento intimatogli in data 2.12.2010 “per superamento del periodo di aspettativa”, chiedendo dichiararsene la invalidità ed inefficacia ed emettersi le statuizioni consequenziali.

Deduceva:

– da un lato, che la aspettativa era ancora in corso al momento del licenziamento;

– dall’altro, che il periodo di aspettativa non era stato comunque superato per avere egli reiteratamente messo a disposizione le proprie energie lavorative, che la società resistente aveva rifiutato illegittimamente.

Con sentenza del 18.1.2013 (nr. 44/2013) il giudice del lavoro rigettava la domanda.

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 3.4- 8.7.2014 (nr. 229/2014), rigettava l’appello proposto dal S..

Osservava che il ricorrente era stato assente per malattia continuativamente e che il periodo di comporto – di cui all’art. 42 del CCNL FEDERAMBIENTE – si era concluso in data 10.3.2010.

Il lavoratore aveva chiesto di usufruire della aspettativa non retribuita di 270 giorni prevista dal CCNL in prolungamento del comporto, venendo a ciò autorizzato, con decorrenza dall’11.3.2010.

In data 27.9.2010 il S. aveva chiesto di rientrare al lavoro; in data 4.10.2010 era stato sottoposto a visita medica aziendale e dichiarato non idoneo alla mansione. La ASVO (lettera del 5.10.2010) aveva dunque respinto la sua richiesta di rientro in servizio e, successivamente, con lettera del 2.12 – 6.12.2010 gli aveva comunicato la risoluzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di aspettativa.

Infondata era la deduzione del mancato superamento del periodo di aspettativa in ragione della richiesta di rientro al lavoro; il lavoratore al momento della richiesta aveva già certificato la sua malattia fino al 30 settembre 2010 e prima di essere sottoposto alla visita di idoneità la permanenza della malattia dall’1 ottobre all’11 dicembre 2010.

La possibilità per il lavoratore di riprendere la attività lavorativa prima del decorso del periodo di prognosi certificato non esonerava il datore di lavoro dal provvedere ad una visita medica di idoneità ad opera di un organo-terzo, con conseguente impossibilità che la sola richiesta di rientro- non sorretta neanche da idonea certificazione – valesse a costituire in mora il datore di lavoro.

Non si era verificato un mutamento del titolo della assenza.

Il S. era rimasto sempre assente per impedimento a prestare la attività lavorativa – circostanza comune sia alla assenza per malattia che alla inidoneità – e non aveva proposto ricorso avverso il giudizio di inidoneità del medico competente, come previsto dal D.Lgs. n. 81 del 2008.

Il voler sostenere che la società non aveva licenziato il ricorrente per inidoneità alla mansione al fine di non assolvere all’obbligo di repechage era una ipotesi sfornita di ogni riscontro, anche perchè il ricorrente non aveva enunciato alcuna mansione compatibile con il suo stato di salute.

Era infondato anche il motivo d’appello con cui si assumeva il mancato superamento del periodo di aspettativa di 270 giorni; il recesso era stato comunicato in data 2 dicembre 2010 ma era pervenuto nella sfera del destinatario il successivo giorno 6 dicembre, divenendo efficace allorchè erano decorsi i 270 giorni di aspettativa.

A tale riguardo il computo del periodo di aspettativa non doveva effettuarsi a norma dell’art. 2963 c.c., ma secondo la norma del contratto collettivo, che prevedeva il diritto alla aspettativa per il periodo di 270 giorni “calendariali”.

Per la cassazione della sentenza ricorre S.G., articolando sei motivi.

Resiste con controricorso la società ASVO spa, illustrato con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente ha denunziato violazione e falsa applicazione dell’art. 2963 c.c., art. 155 c.p.c. e dell’art. 42 del CCNL FEDERAMBIENTE.

La censura investe la statuizione della Corte di merito relativa al criterio di computo del periodo di aspettativa di 270 giorni previsto dal contratto collettivo.

Il ricorrente ha dedotto che il computo dei giorni calendariali previsto nel contratto collettivo era stato erroneamente interpretato dalla Corte territoriale come criterio convenzionale diverso da quello codicistico mentre esso non differiva da quello dell’art. 2963 c.c., a tenore del quale i giorni si computano secondo il calendario comune.

Le parti collettive avevano utilizzato la espressione “giorni calendariali” unicamente per indicare il computo nel periodo di aspettativa dei giorni festivi, in contrapposizione al computo dei soli “giorni lavorativi” previsto da altre disposizioni dello stesso contratto collettivo (ad esempio: l’art. 68 CCNL).

Doveva pertanto applicarsi la norma del codice civile, secondo cui nel computo non doveva essere considerato il giorno iniziale mentre doveva considerasi per intero il giorno finale; da ciò derivava che l’ultimo giorno di aspettativa era il giorno 6.12.2010 e che il lavoratore era liberamente licenziabile solo dal successivo giorno 7.12; il licenziamento era stato intimato dal 6.12.2010, allorquando erano decorsi 269 giorni di aspettativa.

Il motivo è infondato.

E’ stato accertato in sentenza che il periodo di aspettativa di 270 giorni decorreva dal giorno 11 marzo 2010.

La questione posta concerne la computabilità del giorno iniziale dell’11 marzo 2010, giacchè non computandolo (secondo quanto dispongono l’art. 2963 c.c. e l’art. 155 c.p.c.), come assunto nel motivo, il periodo di 270 giorni veniva a scadere il giorno 6 dicembre 2010 sicchè il licenziamento sarebbe divenuto efficace prima del decorso dell’aspettativa.

La Corte di merito ha invece considerato nel computo dell’ aspettativa anche il giorno iniziale (11 marzo 2010) ed ha ritenuto scaduta la aspettativa il 5 dicembre 2010 e comunicato il licenziamento il primo giorno utile (6 dicembre 2010).

Ha affermato che nella fattispecie la previsione del CCNL derogava al criterio previsto nelle norme codicistiche.

Tale statuizione è immune dalle censure sollevate.

Deve muoversi dal principio secondo cui al fine di verificare se sia stato superato o meno il periodo di comporto contrattuale (e dunque anche della aspettativa collegata al comporto) le regole di cui all’art. 2963 c.c. e art. 155 c.p.c., trovano applicazione soltanto in assenza di clausole contrattuali di diverso contenuto (cfr. Cass. nr 6554/2004 e nn. 8358 e 7925/99 in tema di computo del termine fissato a mesi).

Nella fattispecie di causa la Corte di merito ha rinvenuto tale diversa disposizione nell’art. 42, lett. D comma 2 del contatto collettivo FEDERAMBIENTE, secondo cui il periodo di aspettativa è della durata massima di “270 giorni calendariali”. Tale interpretazione è corretta; la norma collettiva deve essere interpretata, in altri termini, nel senso della previsione di un criterio di computo specifico – (quello del calcolo dei giorni calendariali) – che deroga alle previsioni dell’art. 2963 c.c. e art. 155 c.p.c., sulla non computabilità del dies a quo.

Ciò trova una ragionevole spiegazione nel fatto che il periodo di aspettativa di cui si discute non è un termine di compimento di una attività ma un termine di tolleranza di una condotta di astensione (dal lavoro), che è piena sin dal primo giorno di concessione della aspettativa, in prosieguo del comporto; non si poneva dunque la esigenza – posta a base delle previsioni codicistiche di slittamento del termine iniziale – di computare nel termine soltanto tutti i giorni pieni ed utili.

Da quanto esposto consegue che correttamente il giudice dell’appello ha affermato che la comunicazione del licenziamento era intervenuta allorquando il periodo di comporto era decorso.

Il secondo ed il terzo motivo, in quanto connessi, devono essere esaminati congiuntamente.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto omesso esame di un fatto decisivo del giudizio.

Ha indicato quale fatto decisivo non esaminato in sentenza la circostanza che egli aveva richiesto di essere riammesso a riprendere servizio non una sola volta – come esposto in sentenza – ma due volte.

Dopo la prima richiesta la società, a seguito della visita del medico aziendale del 4.10.2010, aveva rifiutato la prestazione non già in ragione del suo stato di malattia ma per inidoneità alla mansione (comunicazione del 5.10.2010 riprodotta nel ricorso). Egli, dunque, con lettera del 19.10.2010 (pure riprodotta con la attuale impugnazione) aveva chiesto di essere assegnato ad altre mansioni compatibili con il suo stato di salute, ponendo nuovamente a disposizione le proprie energie lavorative; alla offerta della prestazione la società ASVO aveva fornito risposta con missiva del 27.10.2010 (del pari riprodotta).

La Corte d’appello aveva omesso l’esame della seconda lettera di messa in mora e della relativa risposta e perciò di rilevare che tra i due dinieghi al rientro vi era una fondamentale differenza:

– nel primo caso, il lavoratore era stato ritenuto dal medico aziendale inidoneo alla mansione;

– nella comunicazione del 27.10.2010 la società rifiutava la sua riammissione in servizio perchè lo riteneva inidoneo non solo alla mansione assegnata ma ad ogni altra equivalente nonchè a quelle di livello inferiore. Era stata la stessa società a valutare la sua inidoneità a svolgere qualsiasi mansione e non anche un organo terzo.

Tale questione era stata posta nel ricorso introduttivo del giudizio e nel ricorso in appello ed era potenzialmente decisiva.

3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto violazione e

falsa applicazione del D.Lg. n. 81 del 2008, artt. 41 e 42, dell’art. 5 della direttiva CE 2000/78 e degli artt. 1267 e 2697 c.c..

Ha assunto che il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, denunziato con il secondo motivo, aveva ulteriormente prodotto la violazione delle norme di diritto citate nella rubrica del motivo.

Ha censurato la affermazione della sentenza impugnata secondo cui il ricorrente avrebbe dovuto enunciare la mansione compatibile con il suo stato di salute.

Ha dedotto:

– Che doveva essere il medico competente e non il datore di lavoro a dichiarare la sua inidoneità a qualsiasi mansione;

– Che il datore di lavoro a fronte della inidoneità specifica avrebbe dovuto adibire il lavoratore a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori, sussistendo un obbligo in tal senso D.Lgs. n. 81 del 2008, ex art. 42.

Il datore di lavoro a fronte della offerta da parte del lavoratore delle energie lavorative non avrebbe potuto rifiutare la riammissione in servizio ma avrebbe dovuto riorganizzare il lavoro per consentirgli il rientro, dando la prova di tale tentativo di riorganizzazione della attività e delle ragioni della sua inattuabilità.

La società si era invece limitata ad autocertificare una presunta inidoneità ad ogni mansione, senza l’intervento di alcun medico.

Il motivo è inammissibile.

Esso è fondato non già sulla ricostruzione del fatto operata in sentenza ma su di una ricostruzione del fatto alternativa a quella accertata nella sentenza impugnata; la sentenza ha infatti affermato che il licenziamento era avvenuto non già per inidoneità alla mansione ma per superamento del periodo di aspettativa.

Tale accertamento di fatto non è contestabile in questa sede sotto il profilo del vizio di motivazione (secondo motivo).

A tenore dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il vizio di motivazione non è deducibile in sede di legittimità in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (ovvero fondata in primo ed in secondo grado sulle stesse ragioni inerenti alle questioni di fatto), come nella fattispecie di causa.

La disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall’11 settembre 2012 (D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2); nel presente giudizio l’atto di appello è stato depositato in data 30.1.2013, con conseguente preclusione alla deduzione in sede di legittimità di motivi attinenti alla valutazione del fatto da parte del giudice del merito.

4. Con il quarto motivo il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 2110 c.c., dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, dell’art. 42 CCNL FEDERAMBIENTE.

Ha censurato la statuizione della Corte territoriale secondo cui il sostenere che la società non aveva licenziato il ricorrente per inidoneità al solo fine di non assolvere l’obbligo di repechage era una mera ipotesi, non suffragata da alcun elemento.

Il ricorrente ha dedotto che la sequenza dei fatti, a fronte delle sue richieste di rientro in servizio, attestava la preoccupazione della società, che lo aveva licenziato prima che egli potesse utilmente ripresentarsi in azienda.

Ha censurato altresì la sentenza per avere affermato che il licenziamento anche ove intimato prima della scadenza del comporto non sarebbe stato nullo ma solo temporaneamente inefficace.

Ha da ultimo lamentato la violazione dell’art. 42 del CCNL igiene ambientale, che alla lettera E) prevedeva il licenziamento del dipendente “superati i termini di conservazione del posto” e “perdurando l’assenza per infermità”; a tenore della richiamata previsione il datore di lavoro poteva intimare il licenziamento soltanto dopo avere accertato la perdurante assenza per malattia del dipendente laddove il licenziamento era stato intimato ancor prima della scadenza della aspettativa.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente nuovamente censura la ricostruzione del fatto da parte del giudice del merito ed, in particolare, l’accertamento della assenza di prova di un utilizzo distorto del potere di licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Inoltre la considerazione in diritto, pure contenuta nella decisione, secondo cui anche un eventuale licenziamento ante tempus non sarebbe stato invalido ma temporaneamente inefficace è compiuta solo ad abundantiam, avendo la sentenza affermato, con statuizione immune da censure, che il comporto scadeva in data 5.12.2010 ed il licenziamento veniva comunicato a comporto scaduto; ne deriva il difetto di interesse di parte ricorrente all’esame della censura, priva di decisività.

Appare infondata alla luce dell’accertamento, compiuto in sentenza, della intervenuta scadenza del periodo di comporto alla data del licenziamento, la censura di violazione dell’art. 42, lett. E) CCNL.

5. Con il quinto motivo il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., art. 2729 c.c., art. 2110 c.c., D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41 e dell’art. 42 del CCNL FEDERAMBIENTE.

Ha affermato che il S. era stato inviato a visita di controllo ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 41, prevedente l’obbligo del datore di lavoro di sottoporre il lavoratore a visita di idoneità al momento del rientro al lavoro dopo 60 giorni di malattia.

La visita aziendale non aveva evidenziato patologie diverse da quella alla base del certificato di malattia; il dipendente inviando i certificati medici aveva adempiuto a precisi oneri negoziali, giacchè l’art. 42, lett. D del CCNL prevedeva:

– al comma due che per la concessione della aspettativa era necessario che il lavoratore continuasse a trovarsi in stato di “assenza debitamente certificata”

– al comma 5 che per potere utilizzare i distinti periodi di aspettativa, di cui ai commi 1 e 2, il lavoratore doveva fornire la certificazione medica delle competenti strutture sanitarie.

Il motivo è inammissibile.

Esso non sfugge al rilievo che la censura investe questioni di fatto (le malattie risultanti dai certificati medici inviati e dalla visita aziendale) non deducibili in questa sede di legittimità.

In punto di diritto, invece, il ricorrente neppure individua precise statuizioni della sentenza nelle quali sia rinvenibile il vizio commesso dal giudice del merito nella interpretazione o applicazione delle norme – di legge e di contratto collettivo-richiamate nella rubrica del motivo.

6. Con il sesto motivo il ricorrente ha dedotto violazione dell’art. 92 c.p.c., censurando la mancata compensazione delle spese nonostante la complessità della vicenda, le opzioni interpretative offerte dalle normative anche europee, la mancanza di occupazione del lavoratore, elementi convergenti nel senso della sussistenza di gravi eccezionali e giustificate ragioni per la compensazione delle spese.

Il motivo è infondato.

Mentre l’esercizio – da parte del giudice di merito – del potere di disporre la compensazione è stato, nel tempo, sottoposto a un controllo sempre più stringente (dalla formulazione dell’art. 92 c.p.c., alla riforma contenuta nella L. 28 dicembre 2005, n. 263 a quella della L. 18 giugno 2009, n. 69 sino al D.L. 12 settembre 2014, n. 132), con conseguente sindacabilità della motivazione posta a base dell’esercizio di quel potere, il mancato esercizio dello stesso non può essere dedotto quale motivo di illegittimità della pronuncia di merito che ha applicato il principio della soccombenza (Cassazione civile, sez. 3, 20/10/2014, n. 22224).

Il ricorso deve essere conclusivamente respinto.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002 , art. 13, comma 1 quater) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100 per spese ed Euro 3.500 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2017

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