Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 765 del 13/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 13/01/2017, (ud. 29/09/2016, dep.13/01/2017),  n. 765

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27152-2014 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTON GIULIO

BARRILI 49, presso lo studio dell’avvocato DANIEL DE VITO,

rappresentato e difeso dall’avvocato VALERIO FREDA;

– ricorrente –

MINISTERO ECONOMIA FINANZE (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1155/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 13/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/09/2016 dal Consigliere Dott. COSENTINO ANTONELLO;

udito l’Avvocato FREDA Valerio, difensore del ricorrente che si

riporta agli atti;

udito l’Avvocato TORTORA Fabio, (Avv. Generale dello Stato) difensore

del resistente che si riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO GIANFRANCO che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. C.L., in proprio e quale amministratore della società Cementi Ariano srl, ha proposto ricorso contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze per la cassazione della sentenza con cui la corte d’appello di Napoli, riformando la sentenza del tribunale di Ariano Irpino, ha rigettato (salvo che in punto di quantificazione della sanzione) l’opposizione da lui proposto avversa l’ordinanza ingiunzione con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze gli aveva applicato una sanzione pecuniaria di ammontare pari al 5% dell’importo delle transazioni in contanti da lui effettuate presso la Cassa Arianese di Mutualità (di seguito, C.A.M.), della quale era socio, dell’illecito amministrativo di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 1, convertito in legge con la L. n. 197 del 1991; tale articolo (abrogato nell’ambito della revisione della disciplina antiriciclaggio operata con il D.Lgs. n. 231 del 2007, ma applicabile alla fattispecie ratione temporis) vietava le transazioni finanziarie in contanti senza il tramite di intermediari abilitati per importi eccedenti il limite di Euro 12.500 (originariamente, L. 20.000.000).

Il ricorso si articola su quattro motivi.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale su due motivi.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 29.9.16, per la quale non sono state depositate memorie illustrative ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso principale si censura la statuizione della sentenza gravata che ha disatteso l’eccezione di prescrizione L. n. 689 del 1981, ex art. 28, sollevata dall’opponente.

La corte d’appello – premesso che l’ordinanza ingiunzione era stata notificata oltre cinque anni dopo la data della notifica del precedente atto interruttivo (il verbale di contestazione) – ha ritenuto che la prescrizione fosse stata interrotta dall’invito a comparire per un’audizione endoprocedimentale rivolto dall’Amministrazione al trasgressore con lettera del 20.7.09. Al riguardo la corte partenopea argomenta che detta lettera, ancorchè indirizzata non al sig. C. ma a tal M.D., dovesse ritenersi rivolta anche al sig. C. sulla scorta di un ragionamento presuntivo fondato sulle seguenti risultanze:

– la suddetta lettera di invito a comparire per l’audizione era stata recapitata al sig. M. presso il di lui difensore, avv. Freda;

– l’avv. Freda difendeva e rappresentava anche il sig. C.;

– la memoria difensiva redatta in data 17.2.05 dall’avv. Freda per il sig. C. si concludeva con la richiesta di audizione personale del C. medesimo;

esisteva in atti uno scambio di mail tra l’avv. Freda e il Ministero relativo al differimento della data dell’audizione fino al 2.10.09, nonchè un verbale di audizione del 2.9.10 (attestante la presenza dell’avv. Freda, pur se da quest’ultimo non sottoscritto) contenete un elenco numerico di “posizioni” che comprendeva anche il numero dell’ordinanza ingiunzione opposta dal C. ed un elenco di nomi che comprendeva anche quello del C..

Con il mezzo di ricorso in esame, riferito al vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2943 c.c., in cui la corte distrettuale sarebbe incorsa ascrivendo portata interruttiva della prescrizione alla menzionata lettera di invito a comparire del 20.7.09, ancorchè la stessa non fosse indirizzata al sig. C..

La doglianza non può trovare accoglimento, perchè la decisione della sentenza gravata risulta conforme all’orientamento costantemente espresso da questa Corte (tra le tante Cass. 28238/08) alla cui stregua, in tema di sanzioni amministrative, l’audizione del trasgressore, prevista dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 18 e la relativa convocazione, sono idonei a costituire in mora il debitore, ai sensi dell’art. 2943 c.c., atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria.

In realtà il ricorrente, pur denunciando il vizio di violazione di legge, in sostanza critica l’accertamento di fatto del giudice territoriale secondo cui, ancorchè la lettera di invito a comparire del 20.7.09 fosse indirizzata al sig. M., doveva in effetti ritenersi che la stessa fosse rivolta anche al sig. C. e fosse stata recapitata all’avv. Freda anche nella sua qualità di rappresentante del medesimo sig. C.. Tale accertamento di fatto, tuttavia, non è censurabile sotto il profilo della violazione di legge, dedotto con il motivo di ricorso in esame. Nè la doglianza proposta dal ricorrente potrebbe essere riqualificata da questa Corte come denuncia di vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè la stessa non individua alcun fatto controverso e decisivo di cui la corte territoriale avrebbe omesso l’esame e, pertanto, non può essere ricondotta al paradigma dettato dal testo di tale disposizione risultante dalla novella recata dal D.L. n. 83 del 2012 (applicabile nel presente procedimento in ragione della data di deposito della sentenza gravata).

Con il secondo motivo – riferito al vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 1, comma 1, art. 4, commi 1 e 2, e il D.L. n. 143 del 1991, art. 6, commi 1 e 4 bis, in relazione al disposto di cui all’art. 106 T.U.B. – il ricorrente censura la statuizione della sentenza gravata che ha ritenuto che la C.A.M. non fosse abilitata allo svolgimento di operazioni extra soglia in denaro contante ai sensi del D.L. n. 143 del 1991, art. 4 (ora abrogato dal D.Lgs. n. 231 del 2007 ma applicabile alla fattispecie ratione temporis), sul rilievo che la stessa non rientrava tra i soggetti abilitati ex lege ai sensi del primo comma di tale articolo e non aveva ricevuto l’abilitazione ministeriale di cui al secondo comma del medesimo articolo. Nel mezzo di gravame si argomenta che la C.A.M. – poichè già effettuava le suddette operazioni in contanti alla data entrata in vigore del D.L. n. 143 del 1991 (essendo stata costituita l’1 marzo 1989) – doveva ritenersi abilitata alla movimentazione extra soglia di denaro contante in base al disposto del D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis (“Gli intermediari di cui ai commi 2 e 2 bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del presente decreto possono continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”). Secondo il ricorrente, in sostanza, la preesistenza della società rispetto all’emanazione del D.L. n. 143 del 1991 implicherebbe che la stessa, con la semplice comunicazione all’U.I.C., avrebbe potuto ottenere non soltanto la possibilità di continuare ad esercitare le attività di cui all’art. 6, commi 2 e 2 bis, di tale decreto legge, venendo iscritta nell’elenco, previsto dallo stesso art. 6, comma 1, degli intermediari abilitati all’esercizio in via prevalente delle attività indicate nell’art. 4, comma 2, del medesimo decreto legge (“concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzione di partecipazioni; intermediazione in cambi; servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito”); ma anche la possibilità di (continuare a) compiere operazioni di movimentazione di denaro contante oltre i limiti imposti dal ripetuto D.L. n. 143 del 1991, art. 1.

La tesi del ricorrente non può trovare accoglimento, perchè risulta in contrasto con il tenore letterale delle disposizioni in questione. Infatti, posto che l’elenco di cui all’art. 6, comma 1 (successivamente sostituito dall’elenco di cui al D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 106, T.U.B.) serviva a definire i soggetti che potevano giovarsi della qualifica di intermediari di cui all’art. 4, comma 2, l’inserimento in tale elenco (consentito, alla condizione di una semplice comunicazione all’U.I.C., ai soggetti che già prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 143 del 1991, esercitavano le attività di cui allo stesso art. 6, commi 2 e 2 bis, giusta il disposto del comma 4 bis del medesimo articolo) non implicava l’automatico riconoscimento della possibilità di poter effettuare operazioni di trasferimento di contante.

La legittimità delle operazioni in contanti extra soglia postulava infatti uno specifico provvedimento ministeriale abilitativo e nessun appiglio letterale consente di interpretare il D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis, nel senso che la comunicazione all’U.I.C. ivi contemplata facoltizzasse i soggetti che già prima dell’entrata in vigore del decreto legge esercitavano le attività di cui ai commi 2 e 2 bis dello stesso art. 6 non soltanto a continuare ad esercitare tali attività (venendo iscritti nell’elenco di cui al comma 1 dello stesso art. 6) ma anche a continuare ad effettuare operazioni in contanti extra soglia senza l’abilitazione ministeriale di cui all’art. 4, comma 2.

Nè, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, la comunicazione D.L. n. 143 del 1991, ex art. 6, comma 4 bis, inoltrata dalla C.A.M. all’U.I.C. in data 4.10.91 poteva essere intesa alla stregua di un’implicita richiesta di abilitazione ex art. 4, comma 2, dello stesso decreto legge, giacchè tale comunicazione era destinata all’U.I.C., mentre l’Amministrazione competente al rilascio dell’abilitazione all’effettuazione di operazioni in contanti extra soglia era il Ministero del Tesoro.

Del resto, dal dettato del D.L. n. 143 del 1991, art. 4, comma 2, emerge chiaramente, laddove si prevedeva che l’abilitazione all’effettuazione di trasferimento di contanti andasse rilasciata “su richiesta”, l’inesistenza di un nesso necessario tra l’esercizio prevalente di una delle attività elencate in tale comma (e quindi l’iscrizione nell’elenco di cui al primo comma dell’articolo 6 dello stesso decreto legge, ora sostituito dall’elenco di cui all’art. 106 T.U.B) e la titolarità dell’abilitazione (che l’intermediario poteva anche non richiedere) all’effettuazione di operazioni in contanti extra soglia; d’onde l’insostenibilità dell’assunto secondo cui tutti gli intermediari che esercitavano le attività di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, commi 2 e 2 bis, già all’epoca dell’emanazione di tale decreto legge si sarebbero dovuti ritenere automaticamente abilitati all’effettuazione di operazioni in contanti sol perchè essi, con la tempestiva comunicazione all’U.I.C. di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, comma 4 bis, potevano continuare ad esercitare le attività di cui al D.L. n. 143 del 1991, art. 6, commi 2 e 2 bis, ed essere iscritti nell’elenco di cui al comma 1 dello stesso articolo.

Da ultimo, milita in senso contrario alla tesi prospettata dal ricorrente anche l’interpretazione teleologica delle norme, in quanto la finalità del D.L. n. 143 del 1991, era quella di porre un freno all’utilizzo del contante in vista del contrasto alle operazioni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita, aumentando di conseguenza le garanzie di trasparenza e tracciabilità delle operazioni di movimentazione del contante; tale ratio legis risulterebbe palesemente vanificata da una interpretazione della normativa che ammettesse la possibilità di continuare ad effettuare operazioni di trasferimento di denaro contante, senza una previa abilitazione da parte del Ministero, per gli intermediari di cui al del D.L. n. 143 del 1991, art. 4, comma 2 già operanti alla data di entrata in vigore del decreto legge.

Il motivo pertanto deve essere rigettato.

Con il terzo motivo del ricorso principale – riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5 – il ricorrente censura la statuizione della corte d’appello che, disattendendo le deduzioni dell’opponente, ha ritenuto sussistente, nella specie, l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo.

La corte distrettuale ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico dell’illecito argomentando che l’esistenza di rigidi limiti quantitativi al trasferimento di denaro contante doveva ritenersi generalmente nota; che l’opponente, in quanto amministratore di una società commerciale, doveva ritenersi persona esperta nella pratica bancaria; che, infine, l’opponente era socio della C.A.M. e, quindi, era in condizione di conoscerne, informandosi, i limiti di operatività.

Il ricorrente censura tali argomentazioni sostenendo che la corte partenopea sarebbe incorsa, in un errore di prospettiva, giudicando la fattispecie come se fosse stato dedotto un errore di diritto, laddove nell’opposizione all’ordinanza ingiunzione si invocava un incolpevole errore di fatto, ossia un errore sul fatto che la C.A.M. fosse abilitata alla movimentazione extra soglia di denaro contante. Secondo il ricorrente tale errore di prospettiva avrebbe indotto la corte territoriale a trascurare l’esame di elementi di fatto decisivi quali:

a) l’incertezza obiettiva del dato normativo concernente non il divieto di movimentazione di denaro contante, ma l’abilitazione degli intermediari finanziari a tale movimentazione; incertezza desumibile dalla esistenza di tre sentenze del tribunale di Ariano Irpino che avevano riconosciuto alla C.A.M. la qualifica di intermediario abilitato;

b) il fatto, desumibile da una perizia giurata in atti, che la C.A.M. aveva effettuato oltre 39.000 operazioni in contanti nel periodo dal 1993 al 2004 (nel corso del quale, peraltro, era intervenuta una verifica ispettiva della Banca d’Italia che non aveva mosso rilievi sul punto); fatto idoneo, secondo il ricorrente, a ingenerare la convinzione che si trattasse di una pratica legittima e che, quindi, la C.A.M. fosse regolarmente autorizzata al relativo esercizio;

c) il fatto, desumibile da una perizia disposta in sede penale, che nel periodo in contestazione la C.A.M. aveva tenuto una condotta pienamente osservante degli obblighi formali imposti dalla normativa antiriciclaggio, omettendo la segnalazione delle operazioni in contanti solo in 5 casi (qualificati come errore materiale dallo stesso perito del Pubblico Ministero) su 1.190;

d) il fatto, che, come contestatola stessa C.A.M. dall’ U.I.C., nei locali della società non erano stati rinvenuti avvisi o fogli informativi e, d’altra parte, l’uso della denominazione “Cassa” era idonea a trarre in inganno sulla legittimazione della stessa C.A.M. al compimento di attività bancaria.

Nel mezzo di ricorso, inoltre, si censura specificamente il ragionamento presuntivo fondato dalla corte territoriale sulla qualità di socio dell’opponente, argomentando come tale ragionamento non tenga conto, per un verso, che l’opponente aveva compiuto solo due delle 1.205 operazioni di movimentazione di contanti contestate alla C.A.M. e, per altro verso, che la platea dei soci della C.A.M. era estremamente allargata, risultando composta da circa cinquecento persone (circostanza idonea, secondo il ricorrente, per escludere che la qualità di socio implicasse la possibilità di esercitare controlli effettivi sull’operatività della società).

Il motivo non può trovare accoglimento perchè le circostanze di fatto di cui si lamenta l’omesso esame, sopra sintetizzate, non posseggono il requisito della decisività di cui al nuovo testo (applicabile ratione temporis nel presente giudizio, come già sopra precisato) dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Tanto i fatti sopra elencati nei punti da a) a d) dell’elenco che precede, quanto i rilievi concernenti il ridottissimo numero delle operazioni in contanti contestate al ricorrente e l’ampiezza della base sociale della C.A.M., non sono idonei, di per se stessi, a sovvertire l’accertamento del giudice territoriale secondo cui l’errore dell’opponente sulla abilitazione della CAM all’effettuazione di operazioni in contanti non poteva ritenersi incolpevole, poichè il medesimo opponente, in quanto socio della C.A.M., era “in condizione di conoscere, informandosi, le attribuzioni della stessa e i limiti della sua attività, escludenti, come si è detto, il compimento delle operazioni per contanti oltre la soglia”.

La censura proposta con il terzo mezzo di ricorso consiste dunque, in definitiva, nella prospettazione di questioni di puro merito, risolvendosi in una inammissibile richiesta alla Corte di cassazione di sostituirsi alla corte territoriale nell’apprezzamento e nella valutazione delle emergenze istruttorie.

Al riguardo va ricordato che, per integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, è necessario – come questa Corte aveva chiarito già in relazione al testo di tale disposizione anteriore alla modifica recata dal D.L. n. 83 del 2012, enunciando principi validi a fortiori dopo tale modifica – che i fatti in ordine ai quali si lamenta l’omessa o insufficiente motivazione (o di cui, nei procedimenti in cui si applica il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si lamenta l’omesso esame) siano “di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito” (così Cass. nn. 25756/14, 24092/13, 14973/06).

Con il quarto motivo del ricorso principale – riferito all’art. 360 c.p.c., n. 5, – il ricorrente denuncia il vizio motivazionale della statuizione con cui la corte territoriale ha ritenuto provata l’esecuzione di operazioni in contanti. Tale statuizione poggia sulla duplice ratio decidendi che l’esecuzione di tali operazioni non era mai stata precedentemente contestata dall’opponente e che, comunque, la stessa risultava documentata dalle note di cassa. Nel mezzo di gravame, per un verso, si contesta l’affermazione della corte territoriale secondo cui l’esecuzione di operazioni in contanti sarebbe stata prospettata per la prima volta in appello, deducendo che, al contrario, tale contestazione sarebbe stata svolta fin dall’opposizione all’ordinanza ingiunzione; per altro verso, si lamenta l’impossibilità di identificare le fonti di convincimento del giudice.

Anche questo motivo va disatteso, perchè non attinge efficacemente la ratio decidendi secondo cui l’esecuzione di operazioni in contanti da parte dell’opponente risultava documentata dalle note di cassa; nel mezzo di gravame, infatti, non si deduce – come necessario secondo il disposto del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, – alcun fatto decisivo trascurato nella sentenza gravata che, se considerato, avrebbe certamente modificato il convincimento della corte distrettuale in ordine alla efficacia probatoria delle note di cassa.

Il ricorso principale va quindi rigettato.

Il ricorso incidentale del Ministero dell’Economia e delle Finanze si articola su due motivi. Con il primo si denuncia il vizio di violazione di legge (con riferimento alla L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 11) in cui la corte territoriale sarebbe incorsa riducendo l’entità della sanzione dal 5% al 3%; con il secondo motivo si denuncia il vizio di violazione di legge (con riferimento all’art. 91 c.p.c.) in cui la corte territoriale sarebbe incorsa compensando per un terzo le spese dei due gradi del giudizio di merito.

Detti motivi non possono trovare accoglimento.

Quanto al primo motivo, va richiamato il costante orientamento di questa Corte (cfr. sentt. nn. 5877/04, 9255/13, 6778/15, 2406/16) secondo cui il giudice ha il potere discrezionale di quantificare l’entità della sanzione tra il minimo ed il massimo edittale, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11, quali la gravità della violazione, la personalità dell’agente e le sue condizioni economiche. Ciò premesso, il Collegio osserva che la sanzione applicata dalla corte territoriale risulta compresa tra il minimo ed il massimo edittale, cosicchè va escluso che nella specie ricorra la denunciata violazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, risolvendosi le doglianze della difesa erariale in una critica di inadeguatezza motivazionale della statuizione della sentenza gravata in punto di entità della sanzione che, tuttavia, non si è tradotta in una censura riconducibile al paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nuovo testo.

Quanto al secondo motivo, il Collegio osserva che il nuovo testo dell’art. 92 c.p.c., consente la compensazione in caso di gravi ed eccezionali ragioni esplicitamente indicate nella motivazione. La corte territoriale ha indicato in motivazione le ragioni che la hanno indotta compensare per un terzo le spese di lite, facendo riferimento alla natura controversa delle questioni di diritto trattate in causa e tale valutazione va condivisa, trattandosi di questioni su cui non esistevano precedenti di legittimità ed in relazione alle quali i precedenti di merito erano difformi.

In conclusione devono essere rigettati tanto il ricorso principale quanto quello incidentale.

Le spese del giudizio di legittimità si compensano in ragione sia della soccombenza reciproca, sia della mancanza di precedenti di legittimità sulla questione di diritto posta con il secondo motivo del ricorso principale.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, D.Lgs. 546 del 1992 si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13. Analoga statuizione non può essere pronunciata con riferimento al ricorrente incidentale, perchè la suddetta disposizione non si applica alle Amministrazioni dello Stato, le quali, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso (cfr. Cass. 5955/14 e altre).

PQM

La Corte rigetta i ricorsi principale e incidentale.

Dichiara compensate le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, D.Lgs. n. 546 del 1992 si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2017

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