Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7622 del 31/03/2020

Cassazione civile sez. I, 31/03/2020, (ud. 17/01/2020, dep. 31/03/2020), n.7622

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 158/2019 proposto da:

A.Y., elettivamente domiciliato Roma presso la cancelleria

della Corte di cassazione rappresentato e difeso dall’Avvocato

Fraternale Antonio;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1750/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 14/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/01/2020 da DI MARZIO MAURO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – A.Y., cittadino della Guinea, ricorre due mezzi, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 14 gennaio 2018, con cui la Corte d’appello di Ancona ha respinto l’appello avverso ordinanza del locale Tribunale di rigetto, in conformità al precedente provvedimento della competente Commissione territoriale, della sua domanda di protezione internazionale o umanitaria.

2. – Non svolge difese l’amministrazione intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5 e 14, nella parte in cui viene espresso un giudizio di sostanziale non credibilità del ricorrente ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con conseguente omesso esame della situazione di instabilità politico – democratica del luogo di provenienza del richiedente, con rischio di un serio pericolo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, nonchè il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, laddove non viene compiuta una valutazione comparativa sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili ai sensi dell’art. 360 c.p.p., comma 1, n. 3.

2. – Il ricorso inammissibile.

2.1. – E’ inammissibile il primo motivo.

2.1.1. – L’inammissibilità discende anzitutto dalla circostanza che il ricorso si fonda per un verso sulle dichiarazioni del richiedente dinanzi alla Commissione territoriale e, per altro verso, su un contratto di lavoro da lui stipulato, indicati come allegati a pagina 6 del ricorso.

Ora, stabilisce l’art. 366 c.p.c., comma 2, n. 6, che il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda. In proposito questa Corte ha in più occasioni avuto modo di chiarire che detta disposizione, oltre a richiedere l’indicazione degli atti e dei documenti, nonchè dei contratti o accordi collettivi, posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale tali fatti o documenti risultino prodotti, prescrizione, questa, che va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Il precetto di cui al combinato disposto delle richiamate norme deve allora ritenersi soddisfatto qualora l’atto o il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475).

Nel caso in esame, viceversa, i menzionati documenti non sono localizzati, e cioè non è chiarito dove essi siano reperibili all’interno del fascicolo delle fasi di merito, fascicoli che del resto neppure risultano prodotti.

2.1.2. – Il motivo è inoltre inammissibile perchè, sotto il velo della denuncia di un vizio di violazione di legge, intende in realtà rimettere in discussione la valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine alle dichiarazioni del richiedente, considerato che la Corte territoriale, in conformità con quanto già ritenuto dal Tribunale (e conseguentemente con preclusione del motivo spiegato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in applicazione dell’art. 348 ter c.p.c., u.c.), ha per un verso ritenuto che le dichiarazioni in questione, sinteticamente analizzate nel loro specifico contenuto (pagina 5 della sentenza impugnata), fossero connotate da un elevato ed ingiustificato grado di genericità (pagina 4 della stessa sentenza), e, per altro verso, affermato, con richiamo delle fonti, che la Guinea sia uno Stato in cui la situazione di insicurezza è riferibile, più che altro, ai cittadini e agli interessi occidentali, mentre la criminalità, pur diffusa, risulta attestata su livelli non allarmanti, esclusa la sussistenza di un conflitto armato generalizzato, ovvero indici specifici di pericolosità, quali la presenza di gruppi armati che controllano il territorio, difficoltà di accesso per la popolazione a forme di assistenza umanitaria, significativo numero di vittime fra la popolazione civile come conseguenza di un quadro di violenza generalizzata.

Viceversa, il motivo non pone in alcun modo in discussione il significato e la portata applicativa delle norme richiamate in rubrica.

2.2. – E’ inammissibile il secondo motivo.

Il ricorrente, anzitutto, muove dall’erroneo presupposto che, a fondamento del riconoscimento della protezione umanitaria, potrebbero essere dedotte le medesime circostanze fatte valere a sostegno del riconoscimento delle due misure maggiori, giacchè, al contrario, la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. maggiore (Cass. 7 agosto 2019, n. 21123): con l’ulteriore conseguenza che, nel caso in esame, è del tutto incomprensibile quali sarebbero le specifiche ragioni, individuali, di vulnerabilità del soggetto.

Sviluppando il concetto espresso nella massima trascritta, vale difatti osservare che:

-) il riconoscimento dello status di rifugiato si fonda su una situazione di individuale persecuzione, sia pure non necessariamente attuale, ma anche fondatamente temuta, determinata da uno dei cinque motivi (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica) normativamente considerati dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, lett. e), secondo la specificazione contenuta nell’art. 7, che definisce e circoscrive la nozione di atti di persecuzione;

-) il riconoscimento della protezione sussidiaria richiede non una situazione di persecuzione, bensì un non soltanto meno intenso, ma concettualmente diverso rischio effettivo, per il soggetto, di subire un grave danno, secondo la previsione poi declinata dallo stesso D.Lgs., art. 14;

-) la concessione della protezione umanitaria richiede la sussistenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano, ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, gravi motivi di carattere umanitario, ribadisce il D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3, i quali intanto acquistano rilievo, in quanto l’autorità chiamata a decidere non accolga la domanda di protezione internazionale nelle due forme previste.

E’ dunque palese che le tre forme di protezione si fondano sulla sussistenza di situazioni di fatto distinte, poste tra loro in relazione di reciproca esclusione, ovvero la persecuzione individuale, il grave danno (che non ascende al rango di gravità degli atti pur solo fondatamente paventato di individuale persecuzione) ed i gravi motivi, necessariamente ulteriori, di carattere umanitario: situazioni che integrano le distinte causae petendi normativamente poste a base di ciascuna di esse, di guisa che la situazione dedotta a sostegno di una delle domande non può essere invocata a supporto delle altre

Ne deriva, che almeno di norma, non è consentito, perchè non ha senso sul piano dell’osservanza del precetto normativo, confondere e miscelare i fatti narrati a suffragio della domanda di protezione di volta in volta proposta, sì da determinare confusione e sovrapposizione delle diverse causae petendi. E sicuramente tale mescolanza non può essere agitata nel corso del giudizio di legittimità allo scopo di rafforzare una delle diverse domande che si assuma disattesa.

Ciò detto, occorre anche aggiungere che in questo caso non è pertinente la pretesa di raffronto tra la situazione di integrazione del richiedente in Italia, e quella in cui verrebbe a trovarsi in caso di rientro nel Paese di origine, giacchè la Corte territoriale ha affermato – e l’affermazione non è specificamente censurata – che la recente stipula di un contratto di lavoro non dimostra da sola un grado di integrazione nel contesto italiano tale da precludere il rientro del richiedente in patria;

3. – Nulla per le spese. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso, dando atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, pur dovuto l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione civile, il 17 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2020

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