Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7604 del 18/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 18/03/2021, (ud. 11/02/2021, dep. 18/03/2021), n.7604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30391-2018 proposto da:

IRETI SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 39, presso lo

studio dell’avvocato FRANCESCA GIUFFRE’, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIANCARLO CANTELLI;

– ricorrente –

contro

M.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 368/2018 del TRIBUNALE di PARMA, depositata il

12/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’11/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. PORRECA

PAOLO.

 

Fatto

CONSIDERATO

che:

M.L. conveniva in giudizio la Ireti, s.p.a., già Iren Emilia, s.p.a., per ottenere la restituzione delle somme versate a titolo di IVA sulla tariffa di igiene ambientale, del Comune di Parma, di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49, c.d. TIA1, e sulla tariffa integrata ambientale, dello stesso Comune, di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 238, c.d. TIA2, da considerare non corrispettivi di servizi ma tributi e come tali non assoggettabili alla suddetta imposta indiretta;

il Giudice di pace accoglieva la domanda con pronuncia confermata dal Tribunale che, per quanto qui rileva: in primo luogo, disattendeva l’eccezione di carenza di legittimazione passiva formulata dall’appellante per le fatture “recapitate” fino al 2009, osservando che, al di là delle vicende societarie susseguitesi, “le società che governavano il servizio di escussione della tariffa di igiene ambientale” avevano “trasmesso all’utenza una missiva con la quale si preannunciava che per effetto della fusione Iren Emilia subentra(va) ad Enia in tutti i contratti che resta(va)no validi senza che sia necessaria alcuna comunicazione”: ciò aveva giustificato l’incolpevole affidamento sull’unicità del rapporto, legittimando l’attore a pretendere che ne rispondesse la società convenuta, in ogni caso determinandosi, con il pagamento, un effetto solutorio inquadrabile anche, in chiave processuale in termini sostitutivi, e in chiave sostanziale come gestione di affari, salva regolazione dei rapporti tra i creditori; in secondo luogo, affermava la natura tributaria di entrambe le tariffe, la prima, pacificamente applicata dal Comune dal 2000 fino al 2009, in quanto confermata anche dalla giurisprudenza costituzionale, la seconda perchè, a prescindere dalla differenza nominalistica, in realtà portatrice delle medesime caratteristiche strutturali;

avverso questa decisione ricorre per cassazione la Ireti s.p.a. formulando tre motivi.

Diritto

RITENUTO

che:

con il primo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., e dell’art. 2697 c.c., poichè il Tribunale avrebbe errato nell’omettere di valutare la documentazione da cui emergeva la diversità del soggetto legittimato passivamente a seguito delle vicende societarie, da individuare in Iren, s.p.a., senza che nella comunicazione richiamata dal giudice di merito potessero rinvenirsi i requisiti indispensabili per ritenere sussistente una confessione stragiudiziale, sicchè l’evocazione dell’effettività della tutela sarebbe stata impropria e, al contempo, mancante la prova della legittimazione e titolarità passive pretese;

con il secondo motivo – con cui si possono cumulare le censure riportate nei paragrafi da 2.2. a 2.3.1. – si prospetta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, del D.L. n. 208 del 2008, art. 5, comma 2 quater, convertito dalla L. n. 13 del 2009, della L. n. 133 del 1999, art. 6, comma 13, e del D.M. 24 ottobre 2000, n. 370, in uno all’omesso esame di un fatto decisivo e discusso, poichè il Tribunale avrebbe errato nell’ignorare la pacifica circostanza per cui il Comune di Parma, con provvedimenti del 30 giugno 2010, aveva adottato la TIA2, qualificata espressamente come tariffa civilistica e non tributo dal D.L. n. 78 del 2010, art. 14, comma 33, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, laddove, al contempo, anche la TIA1 avrebbe dovuto qualificarsi nei medesimi termini posto che, con la soppressione della TARSU, si era determinata una privatizzazione del rapporto in termini complessivamente sinallagmatici, desumibile dalla stessa denominazione tariffaria che la riconduceva a un corrispettivo diverso dai diritti, canoni o contributi che la direttiva n. 2006/112/CE esclude dall’assoggettamento all’imposta armonizzata sul valore aggiunto perchè percepiti da soggetti pubblici, o equiparati, in relazione ad attività o comunque operazioni poste in essere quali pubbliche autorità;

con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il c.d. doppio contributo non avrebbe dovuto porsi a carico della deducente che aveva proposto un appello fondato;

Vista la proposta formulata del relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;

Rilevato che:

il primo motivo è inammissibile;

il Tribunale, come indicato in parte narrativa, ha affermato che, al di là delle vicende societarie susseguitesi, l’eccezione di carenza di legittimazione passiva formulata dall’appellante per le fatture “recapitate” fino al 2009, era da disattendere poichè “le società che governavano il servizio di escussione della tariffa di igiene ambientale” avevano “trasmesso all’utenza una missiva con la quale si preannunciava che per effetto della fusione Iren Emilia subentra(va) ad Enia in tutti i contratti che resta(va)no validi senza che sia necessaria alcuna comunicazione”: ciò aveva giustificato l’incolpevole affidamento sull’unicità del rapporto, legittimando l’attore a pretendere che ne rispondesse la società convenuta, in ogni caso determinandosi, con il pagamento, un effetto solutorio inquadrabile anche, in chiave processuale in termini sostitutivi, e in chiave sostanziale come gestione di affari, salva regolazione dei rapporti tra i creditori;

questa specifica “ratio decidendi”, basata sull’affidamento incolpevole a prescindere dalle vicende societarie, non è idoneamente censurata se non negando apoditticamente e in modo eccentrico rispetto alle riportate statuizioni del giudice di merito, la sussistenza di una confessione stragiudiziale;

il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche mediante specifiche argomentazioni, intese motivatamente a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbono ritenersi in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla dottrina e dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (Cass., 15/01/2015, n. 635, Cass., 07/05/2019, n. 11895, pag. 5);

quanto alle norme invocate, è stato ripetutamente ribadito (Cass., 26/08/2020, n. 17821, Cass., 07/11/2019, n. 28619, Cass., 10/09/2019, n. 22525) che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli invocati artt. 115 e 116 c.p.c., opera sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè, in questa chiave, la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che dev’essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “ratione temporis” applicabile (Cass., 12/10/2017, n. 23940), fermo il limite dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5;

in questa cornice, la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea per altro verso a integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda il sopra ricordato principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta a un diverso regime; mentre la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come analogo vizio solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha finito per attribuire maggior forza di convincimento ad alcune o ad alcuni profili delle stesse, piuttosto che ad altri (Cass., 10/06/2016, n. 11892, Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 33; di recente, Cass., 26/08/2020, n. 17821);

la violazione dell’art. 2697 c.c., poi, si configura solamente se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35, Cass., 15/05/2020, n. 8994);

è evidente che nulla di tutto ciò emerge dalla censura quale formulata;

nè risulta alcuna violazione dell’art. 100 c.p.c., parimenti evocato, che afferisce all’interesse ad agire o contraddire;

peraltro nel corpo delle censure s’invoca anche l’art. 360 c.p.c., n. 5, senza dimostrare che il doppio rigetto conforme pronunciato dai giudici di merito sia stato fondato da ragioni fattuali differenti (Cass., 22/12/2016, n. 26774);

quanto al residuo merito cassatorio, il secondo motivo è fondato parzialmente, e cioè con limitato riferimento alla TIA2, con assorbimento del terzo;

questa Corte, a Sezioni Unite, ha recentemente ribadito che la tariffa di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, come interpretata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 14, comma 33, quale convertito, ha natura privatistica, ed è pertanto soggetta ad IVA ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 1 e 3, e art. 4, commi 2 e 3 (Cass., Sez. U., 07/05/2020, n. 8631 e n. 8632);

è stato sottolineato che il legislatore ha legittimamente interpretato la disciplina della c.d. TIA 2, dettata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, per impedire che tra le possibili varianti di senso si potesse propendere per la natura tributaria della tariffa, come, invece, era avvenuto, in epoca appena precedente, per la c.d. TIA 1;

in questa cornice, è stata rimarcato come un rilievo significativo vada assegnato al “diritto vivente” formatosi a cominciare da Cass. 21/06/2018, n. 16332, coeso nel ribadirne i principi, tutti convergenti nel senso della natura di corrispettivo della c.d. TIA 2 e, dunque, della qualificazione in termini di prelievo non tributario: nomofilachia consolidatasi con numerosissime pronunce quali quelle di Cass. n. 32250 del 2018, Cass., n. 4275 del 2019, Cass., n. 4876 del 2019, Cass., n. 14195 del 2019, Cass., n. 14753 del 2019, Cass., n. 15520 del 2019, Cass., n. 15529 del 2019, Cass., n. 16379 del 2019, Cass., n. 19296 del 2019, Cass., n. 19299 del 2019, Cass., n. 19329 del 2019, Cass., n. 19545 del 2019, Cass., n. 19544 del 2019, Cass., n. 23669 del 2019;

il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, dunque, a differenza del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, individua il fatto generatore dell’obbligo di pagamento della c.d. TIA 2 nella produzione di rifiuti, ancorando il debito all’effettiva fruizione del servizio, e, al tempo stesso, diversamente dal passato, assegna natura di “corrispettivo” alla tariffa, parametrando l’entità del dovuto alla quantità e qualità dei rifiuti prodotti;

la natura privatistica della tariffa consente di ritenere il prelievo assoggettabile ad IVA ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 3, ciò non trovando ostacolo nella circostanza che il pagamento della c.d. TIA2 (come quello della c.d. TIA 1) sia obbligatorio per legge, atteso che il citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, prevede che “le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere” costituiscono prestazioni di servizi (ai fini della assoggettabilità a IVA medesimo decreto ex art. 1) “quale ne sia la fonte”;

nella prospettiva dell’opzione legislativa è chiaro, dunque, che l’individuazione del costo con componenti predeterminate o accessorie è del tutto compatibile, trattandosi di contratti di massa, nella cornice dei quali trova idonea spiegazione anche la redistribuzione agevolativa dei costi con modalità che tengano conto, altresì, di indici reddituali;

l’approdo del “diritto vivente”, nei termini così delineati – che rendono armonica la configurazione privatistica della tariffa con l’inerenza di essa a un rapporto giuridico che registra la coincidenza tra soggetto tenuto al pagamento e soggetto beneficiario dell’attività di chi eroga il servizio (quale elemento che concorre a configurare quei reciproci obblighi come esplicativi di un rapporto sinallagmatico: cfr. sentenza n. 269 del 2017 del Giudice delle leggi) – ha trovato rispondenza nella più recente giurisprudenza costituzionale, richiamata dalle citate Sezioni Unite;

è stato così rammentato che con la sentenza n. 188 del 2018, la Consulta, nello scrutinare la legittimità di una legge regionale calabra (L.R. n. 11 del 2003) in tema di contributi di bonifica, e affrontando il problema della natura tributaria, o meno, del prelievo stesso, ha rammentato quale sia il perimetro entro il quale il legislatore statale può esercitare la sua discrezionalità in materia di politica fiscale rispetto, segnatamente, alla provvista di un servizio pubblico, essendo consentito prevedere o escludere che la prestazione patrimoniale imposta – “indipendentemente dalla qualificazione” della stessa – sia in “una relazione sinallagmatica con il servizio, seppur non in termini di stretta corrispettività”, così da conformare detta prestazione, rispettivamente, come canone o tariffa ovvero come tributo;

la Corte costituzionale, quindi, ha messo in rilievo come il legislatore “può anche passare da un sistema basato sulla fiscalità di un contributo ad uno fondato sulla corrispettività di una tariffa o di un canone, come è avvenuto nell’ipotesi della tariffa di igiene ambientale, istituita con il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49 (attuazione delle direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), inizialmente di natura tributaria (sentenza n. 238 del 2009 e, da ultimo, Corte di cassazione, Sezioni Unite, ordinanza 10 aprile 2018, n. 8822), poi sostituita dalla tariffa per la gestione dei rifiuti urbani D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 ex art. 238, (norme in materia ambientale), prestazione patrimoniale ritenuta di natura non tributaria (Corte di cassazione, Sezione terza civile, ordinanza 21 giugno 2018, n. 16332), al pari della tariffa per il servizio di fognatura e depurazione (sentenza n. 335 del 2008)”;

la menzione, sul punto, della sentenza della Consulta n. 188 del 2018, era stata già colta dalla sentenza n. 1839 del 27 gennaio 2020 delle medesime Sezioni Unite, che, nel riconoscere, in base al D.L. n. 78 del 2010, art. 14, comma 33, quale convertito, la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie aventi per oggetto la debenza della tariffa integrata ambientale di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, ha inteso evidenziare proprio alla luce della richiamata pronuncia del Giudice costituzionale – come le “scarne ed essenziali indicazioni” dell’art. 14, comma 33, “sottolineano la risolutezza delle formule utilizzate dal legislatore per il passaggio dal vecchio al nuovo sistema, disegnato dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 238”, in tale prospettiva venendo in rilievo, quali elementi di riconoscimento della natura propria della tariffa, la produzione dei rifiuti, la qualificazione del prelievo in termini di “corrispettivo” di un servizio (quello della “raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani”) e, quindi, la soppressione del tributo disciplinato dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49;

queste considerazioni hanno indotto, quindi, a ritenere che la qualificazione della c.d. TIA 2 recata dal D.L. n. 78, art. 14, comma 3, non si sia esaurita in una “operazione meramente nominalistica”;

sono stati quindi esclusi margini per poter apprezzare l’intervento legislativo d’interpretazione autentica come arbitrario e manifestamente lesivo del principio di ragionevolezza, tale da dare consistenza a un dubbio di legittimità costituzionale sulla disposizione anzidetta;

così come è stata riaffermata l’infondatezza di dubbi sulla conformità di un tale approdo alla disciplina Eurounitaria (direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto);

quanto appena osservato e ciò che si sta per aggiungere, induce a escludere una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE;

per un verso, infatti, non esiste un vincolo, per gli Stati membri, a finanziare con una specifica modalità, anche in tesi tributaria, la gestione della raccolta dei rifiuti (Corte giust., 15/07/2009, causa 254/08); per altro verso, la Corte di giustizia ha ribadito (sentenza del 22 febbraio 2018, in causa C182/17) che costituisce una prestazione di servizi fornita a titolo oneroso, soggetta all’imposta sul valore aggiunto, un’attività economica consistente nello svolgimento da parte di una società di determinati compiti pubblici in esecuzione di un contratto concluso tra tale società e, tipicamente, un comune, rimarcando, in questa prospettiva, come la determinazione forfettaria del compenso non spezza di per sè il nesso tra prestazione e corrispettivo (punto n. 37), così come l’affidamento a una società di compiti pubblici, parimenti, non è logicamente decisivo per valutare lo svolgimento di prestazioni a titolo oneroso nella medesima cornice (punto n. 40) (cfr. Cass. n. 32250/2018 e Cass. n. 19299/2019, citate);

nella fattispecie in scrutinio risulta accertato dalla sentenza gravata che il

Comune di Parma ha applicato dapprima la TIA1, e, successivamente, la TIA2; ne deriva che la sentenza impugnata risulta errata laddove non distingue

tra TIA1 e TIA2 escludendo l’assoggettamento a IVA anche della seconda; in conclusione, la sentenza va cassata per quanto di ragione.

P.Q.M.

La Corte, dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo per quanto di ragione, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Parma perchè, in diversa composizione, provveda anche sulle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2021

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