Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7599 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 08/03/2022, (ud. 07/12/2021, dep. 08/03/2022), n.7599

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA E. Luigi – Presidente –

Dott. SUCCIO Robert – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13993/2013 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio eletto in Roma, via Dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

CO.ET s.a.s. di C.G. & c. in persona del suo legale

rappresentante pro tempore, e i sigg.ri C.G.,

C.E., CO.EL., G.R. tutti rappresentati e

difesi giusta delega in atti dall’avvocato Cristina Rey (con

indirizzo PEC in atti cristinarey.pec.ordineavvocatitorino.it);

– controricorrenti –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Piemonte n. 699/01/16 depositata il 25/05/2016 non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del

07/12/2021 dal Consigliere Dott. Succio Roberto.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con la sentenza di cui sopra il giudice di secondo grado ha accolto

l’appello dei contribuenti limitatamente agli interessi passivi e all’iva sulle fatture nella misura differenziata indicata nell’appello e in parte qua pertanto annullato l’avviso di accertamento impugnato per IVA ed IRAP 2008 in capo alla società e i conseguenti avvisi di accertamento per IRPEF 2008 in capo ai soci quale reddito da partecipazione;

– ricorre l’Agenzia delle Entrate con atto affidato a cinque motivi; resistono con controricorso la società e i soci; nelle more, il ricorrente sig. C.E. ha proposto istanza di definizione della controversia D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6 a fronte della quale l’Amministrazione ha opposto il diniego;

– tal diniego non risulta esser stato qui impugnato di fronte a questa Corte e pertanto il presente giudizio prosegue nei confronti di tutte le sopra individuate parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 4 e 5 ai fini delle imposte sul reddito e del D.P.R. n., n. 633 del 1972, art. 52, comma 7 ai fini iva nonché dell’art. 109 TUIR, comma 4 e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la CTR mancato di ritenere inammissibili i documenti prodotti dalla società contribuente, non consegnata all’Ufficio nella fase di controllo e prodotta solo in sede contenziosa; inoltre il secondo motivo denuncia, con riferimento sempre alle produzioni documentali di cui si è detto, la nullità della sentenza gravata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per avere ancora la CTR fondato la propria decisione su documenti prodotti tardivamente in primo grado e prodotti poi per la prima volta in sede di appello;

– i motivi in parola contestano quindi entrambi la sentenza impugnata per avere – in sintesi – utilizzato ai fini della decisione documentazione non utilizzabile in quanto essa non è stata resa disponibile all’Ufficio durante l’attività di controllo e comunque è stata prodotta in giudizio tardivamente in primo grado e prodotta poi quale nuovo documento in secondo grado. Gli stessi, quindi, possono esaminarsi congiuntamente. Quanto al primo profilo dedotto nei motivi, rileva il Collegio come si evinca dal ricorso per cassazione (pag. 2 secondo capoverso dell’atto) e dalla sentenza impugnata (pag. 2 quartultima riga; pagg. 3 e 6) che l’Ufficio ebbe a richiedere – tramite l’invio di questionario – la consegna di documentazione alla società contribuente;

– orbene, come questa Corte ha recentemente chiarito occorre distinguere (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16757 del 14/06/2021) l’ipotesi in cui l’Amministrazione Finanziaria richieda al contribuente documenti mediante questionario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in materia di imposte dirette, ovvero del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in materia di IVA, da quella in cui detta documentazione si richiesta nel corso di attività di accesso, ispezione o verifica D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 33, quanto all’imposizione reddituale ed del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 52, quanto all’IVA. Infatti – ferma restando la necessità, in ogni ipotesi, che l’amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale indicazione di quanto richiesto, accompagnata dall’espresso avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza – nel primo caso, il mancato invio nei termini concessi della suindicata documentazione equivale a rifiuto, con conseguente inutilizzabilità della stessa in sede amministstativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all’atto della sua produzione con il ricorso, che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova e’, comunque, onerato; nel secondo caso, invece, la mancata esibizione di quanto richiesto ne preclude la valutazione a favore del contribuente solo ove si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile la documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull’amministrazione finanziaria;

– pertanto, fermo restando che nel caso che ci occupa ci troviamo nella prima ipotesi tra le due appena citate, il motivo sconta in primo luogo un evidente difetto di autosufficienza: non risulta dalla sentenza impugnata, né si evince dal ricorso per cassazione – nel quale nulla sul punto viene trascritto – l’esatto contenuto del questionario notificato, vale a dire quali documenti siano stati richiesti espressamente alla società, né soprattutto risulta esser stato in quel contesto formulato l’espresso avvertimento in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata ottemperanza all’invito de quo;

– da quanto sopra deriva quindi il rigetto del motivo; questa Corte ritiene che (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 7011 del 21/03/2018) l’omessa esibizione da parte del contribuente dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa solo ove l’amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale e analitica richiesta degli stessi, accompagnata dall’avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza, e che il contribuente ne aveva rifiutato l’esibizione, dichiarando di non possederli, o comunque sottraendoli al controllo, nel caso di richiesta formulata durante le verifica con uno specifico comportamento doloso volto ad impedirne l’esame. Difetta qui ogni elemento atto a far ritenere che proprio quei documenti, partitamente e “puntualmente individuati, siano stati richiesti al contribuente, e che questi sia stato in quella sede debitamente avvertito delle conseguenze in caso di mancata ottemperanza all’invito;

– venendo ora al secondo profilo oggetto del motivo di ricorso di cui sopra, lo stesso risulta parimenti non meritevole di accoglimento; è infondato;

– ritiene la Corte (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21309 del 15/10/2010) che nel processo tributario il documento irritualmente prodotto in primo grado può essere nuovamente prodotto in secondo grado nel rispetto delle modalità di produzione previste dal D.Lgs. n. 56 del 1992, art. 32 ed in forma analoga nell’art. 87 disp. att. c.p.c.; e ancora questo Giudice della Legittimità ha ulteriormente meglio precisato sul punto (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27774 del 22/11/2017) come in materia di produzione documentale in grado di appello nel processo tributario, alla luce del principio di specialità espresso dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 – in forza del quale, nel rapporto fra norma processuale civile ordinaria e norma processuale tributaria, prevale quest’ultima – non trova applicazione la preclusione di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3 (nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009), essendo la materia regolata dal citato D.Lgs., art. 58, comma 2, che consente alle parti di produrre liberamente i documenti anche in sede di gravame, sebbene preesistenti al giudizio svoltosi in primo grado;

– il terzo motivo di ricorso si incentra sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 109 TUIR, comma 4, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 e art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto deducibili i costi in parola (rectius detraibile l’iva sulle fatture passive e deducibili gli interessi passivi) ancorché non contabilizzati e quindi non indicati nel conto economico;

– tal motivo è infondato;

– va osservato dapprima, ai fini dell’imposizione del reddito, come la disciplina della deduzione degli interessi passivi secondo la disposizione vigente ratione temporis sia da ritrovarsi nell’art. 96 TUIR, nel testo in vigore dal 22/08/2008 con effetto dal 01/01/1992 così come modificato dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 82, secondo il quale “1. Gli interessi passivi e gli oneri assimilati, diversi da quelli compresi nel costo dei beni ai sensi dell’art. 110, comma 1, lett. b), sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati. L’eccedenza è deducibile nel limite del 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica. La quota del risultato operativo lordo prodotto a partire dal terzo periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007, non utilizzata per la deduzione degli interessi passivi e degli oneri finanziari di competenza, può essere portata ad incremento del risultato operativo lordo dei successivi periodi d’imposta”;

– gli interessi passivi costituiscono di un elemento negativo del reddito d’impresa la cui deduzione è quindi prevista per legge anche con riferimento al quantum, oltre che quanto all’inerenza che è sottintesa al costo stesso anche se la deduzione – appunto limitatamente al quantum ammesso – è disciplinata analiticamente dal legislatore. Tal previsione è richiamata proprio dall’art. 109 TUIR, comma 4 citato in ricorso, secondo il quale “4. Le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza. Si considerano imputati a conto economico i componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi contabili internazionali. Sono tuttavia deducibili: a) quelli imputati al conto economico di un esercizio precedente, se la deduzione è stata rinviata in conformità alle precedenti norme della presente sezione che dispongono o consentono il rinvio; b) quelli che pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per disposizione di legge (sottolineatura aggiunta). Le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi”;

– dalla formulazione letterale della disposizione, con evidenza, si ricava che gli interessi passivi in parola siano – in forza dell’art. 96 TUIR e nei limiti di cui all’art. 109 TUIR, comma 4 – sia certamente inerenti sia certamente deducibili dal reddito d’impresa in forza di una espressa previsione di legge; il loro risultare poi da elementi certi e precisi può desumersi altrettanto sicuramente, in questo caso, dalla documentazione bancaria che ove non disconosciuta costituisce prova adeguata ai fini richiesti dalla disposizione di legge. Pertanto, quanto all’imposizione sul reddito il motivo è per tali ragioni infondato e va rigettato;

– venendo poi al profilo relativo al tributo iva, il motivo si mostra analogamente privo di fondamento, dal momento che questa Corte ritiene, con giurisprudenza del tutto costante, (tra molte, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 6921 del 17/03/2017) ove l’eccedenza iva risulti dalle liquidazioni periodiche, ma sia stata omessa la dichiarazione annuale, il contribuente, per portarla in detrazione, deve provarne, anche esibendo i registri iva e le relative liquidazioni, le fatture ed ogni altra documentazione ritenuta utile, i requisiti sostanziali, ossia che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, parimenti debitore dell’iva agli stessi attinente, e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili, rivelandosi, altresì, tale situazione compatibile con il ricorso alla procedura automatizzata, atteso che l’assenza della dichiarazione annuale rappresenta una notizia che rileva come dato storico e fattuale e consente l’avvio di tale procedura. Invero, l’Ufficio deve procedere, in sede di controllo, sulla base dei dati e degli elementi direttamente desumibili dalle dichiarazioni fiscali presentate, o meno, e di quelli in possesso dell’anagrafe tributaria. Tal affermazione conferma quanto a suo tempo chiarito nella massima sede della nomofilachia (Cass. Sez. U, Sentenza n. 17757 del 08/09/2016) poiché la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad iva e finalizzati ad operazioni imponibili;

– in sintesi, quindi, ciò che conta ai fini della detrazione iva è la sussistenza dei requisiti sostanziali, salvi gli specifici profili relativi al termine biennale riguardante il rimborso che qui non rilevano; ne deriva allora che l’Ufficio doveva effettivamente tener conto dell’iva a credito formatasi come rilevata dalle fatture prodotte, secondo l’aliquota ivi applicata, ancorché non transitate nelle scritture contabili e nella conseguente dichiarazione e rideterminare – quasi redigendo esso Ufficio la dichiarazione omessa in sostituzione del contribuente inadempiente, ovviamente nei limiti della documentazione resa disponibile da questi – i tributi così dovuti, intimandone il versamento con sanzioni e interessi nel rispetto però dei sovrani principi di neutralità richiamati dalla giurisprudenza sopra illustrata;

– il quarto motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20, per essersi limitata la CTR a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie;

– il motivo in parola è inammissibile, in quanto fuori bersaglio rispetto alla ratio decidendi della sentenza gravata;

– invero, la pronuncia impugnata non si è limitata a un acritico recepimento delle risultanze del processo penale, anzi ha dimostrato di operare valutazioni autonome rispetto ad esso, proprio “tenuto conto della autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale” (pag. 9 riga n. 10) avendo rilevato il giudice subalpino come la prova relativa agli interessi contestati e alle aliquote iva sia stata “riconosciuta anche in sede penale”; tali espressioni dimostrano come la CTR abbia valutato il materiale probatorio in atti in via autonoma, tenendo anche ma non esclusivamente solo conto di quanto accertato nel giudizio penale; così operando, la sentenza si è allineata ai principi dettati da questa Corte in forza dei quali in materia di contenzioso tributario (Cass. Sez. 6 – 5, Ord. n. 28174 del 24/11/2017; Cass.Sez. 5, Ord.6532 del 09/03/2020; e Cass.Sez. 5, Ord. n. 5 del 21/02/2020), nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio;

– in ultimo, il quinto motivo denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere il giudice del gravame mancato di esaminare quale fosse la circostanza che avrebbe impedito alla parte di ottemperare all’invito dell’Ufficio: alla luce delle decisioni che precedono detto motivo è assorbito in quanto divenuto irrilevante ai fini del decidere;

– conseguentemente, il ricorso è integralmente rigettato;

– la soccombenza regola le spese.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; liquida le spese in Euro 12.000,00 oltre a Euro 200 per esborsi, al 15% per spese generali, CPA ed IVA di legge che pone a carico di parte soccombente.

Così deciso in Roma, il 7 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

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