Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7598 del 30/03/2020

Cassazione civile sez. I, 30/03/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 30/03/2020), n.7598

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7936/2019 proposto da:

K.A., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Consuelo Feroci, in forza di procura speciale

allegata al ricorso;

– ricorrente –

contro

Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione

Internazionale di Ancona, Ministero dell’Interno;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 09/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/02/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, depositato il 27/4/2018, K.A., cittadino del (OMISSIS), ha adito il Tribunale di Ancona – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva riferito di essere nato a (OMISSIS); di essere di religione musulmana ed etnia (OMISSIS); di aver lasciato gli studi a nove anni e a dodici di essersi trasferito in (OMISSIS), ove lavorava il padre, per aiutarlo; che tale regione era la più ricca del Paese ma era devastata dalla guerriglia dei ribelli indipendentisti del (OMISSIS); che vi era stato un assalto dei ribelli al negozio del padre, che era rimasto gravemente ferito e costretto in ospedale per sei mesi; che il riaccentuarsi degli scontri aveva portato a una grave carestia e l’attività del padre era fallita; di aver perciò deciso di abbandonare il Paese.

Con decreto del 9/2/2019 il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto, comunicato l’11/2/2019. ha proposto ricorso K.A., con atto notificato il 27/2/2019, svolgendo due motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con memoria 14/11/2019 al solo fine della partecipazione all’eventuale udienza di discussione orale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia errores in iudicando e in procedendo violazione e falsa interpretazione della Convenzione di Ginevra del 28/7/1951, ratificata con L. n. 722 del 1954, della Direttiva 2004/83/CE attuata dal D.Lgs. n. 251 del 2007 e in particolare degli artt. 2, 7, 8 e 14.

1.1. Il Giudice aveva superato i dubbi di credibilità, prospettati dalla Commissione, ma aveva respinto il ricorso sul presupposto del carattere privato dei motivi di persecuzione, cosa assurda perchè il sistema di protezione non è improntato alla tutela di situazioni di origine esclusivamente pubblica.

Era da contestare il fatto che l’Amministrazione e il Giudice non avessero ritenuto il racconto del sig. K. in difetto di prove scritte; che le minacce ricevute non fossero documentabili era fisiologico; non era la fonte delle minacce a dover essere considerata ma il loro risultato, ossia il danno grave alla vita e alla libertà.

Il Giudice, pur richiesto, si era basato esclusivamente sul racconto della vicenda fatto alla Commissione, senza proporre domande al richiedente asilo, presente e disponibile, come gli era stato richiesto e avrebbe dovuto fare se intendeva ritenere non credibile il racconto della vicenda personale.

1.2. Le censure svolte appaiono generiche, non pertinenti e anche contraddittorie.

Infatti, sotto quest’ultimo profilo, il ricorrente allega contestualmente nello stesso motivo sia che il Giudice non aveva ritenuto credibile il suo racconto, omettendo però di interrogarlo nuovamente sulla sua vicenda, sia che il racconto era stato ritenuto credibile ma il rigetto era dipeso dal carattere privato della vicenda.

1.3. In realtà il Tribunale, a pagina 2, p. 4, ha mostrato di condividere la valutazione di carente credibilità del racconto espressa dalla Commissione.

1.4. Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez. 6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez. 6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (Sez. 1, 31/1/2019 n. 3016).

Inoltre questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549-01; Sez. 6-1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571-01).

1.5. Al riguardo la Corte di appello con motivazione che soddisfa lo standard del c.d. “minimo costituzionale” ha chiarito le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente erano state ritenute inattendibili, sia per l’incapacità del ricorrente di circostanziare e dettagliare il racconto anche su elementi essenziali e determinanti, come lo stesso attentato dei ribelli del Casamance, sia per la mancata produzione di elementi a riscontro anche in ordine all’attività imprenditoriale del padre, visto che il padre, pur malato, era ancora vivo e vi erano nove sorelle in patria, sia, infine, per l’incoerenza interna delle dichiarazioni e le contraddizioni incorse sui punti principali della vicenda.

In particolare, il Tribunale ha osservato che l’attività eversiva dei ribelli risultava cessata, che vi era in atto un periodo di tregua e che vi era contraddizione con le dichiarazioni rese al momento dell’arrivo del richiedente sul territorio nazionale.

1.6. Quanto alla mancata rinnovazione dell’audizione, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che quando il richiedente impugna la decisione della Commissione territoriale in tema di protezione internazionale, e la videoregistrazione del colloquio non sia disponibile, il giudice deve necessariamente fissare l’udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto che decide il ricorso per violazione del principio del contraddittorio, a nulla rilevando che l’audizione, nella specie, sia stata effettuata davanti alla Commissione territoriale in data anteriore alla consumazione del termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del D.L. n. 13 del 2017, convertito nella L. n. 46 del 2017, essendo l’udienza di comparizione delle parti, anche in tale ipotesi, conseguenza obbligata della mancanza della videoregistrazione (Sez. 1, n. 32029 del 11/12/2018, Rv. 651982-01; Sez. 6-1, n. 17076 del 26/06/2019, Rv. 654445-01; Sez. 6-1, n. 14148 del 23/05/2019, Rv. 654198-01; Sez. 1, n. 10786 del 17/04/2019, Rv. 653473-01).

Non rileva in contrario la circostanza che il ricorrente abbia omesso di prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato un pregiudizio per la decisione di merito, in quanto la mancata videoregistrazione del colloquio, incidendo su un elemento centrale del procedimento, ha palesi ricadute sul suo diritto di difesa (Sez. 1, n. 5973 del 28/02/2019, Rv. 652815-01).

Viceversa, nel giudizio d’impugnazione, innanzi all’autorità giudiziaria, della decisione della Commissione territoriale, ove manchi la videoregistrazione del colloquio, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza – della cui mancata fissazione il ricorrente non si duole, riconoscendo invece che l’udienza era stata effettivamente fissata, tanto che il ricorrente vi aveva personalmente presenziato non consegue automaticamente anche quello di procedere all’audizione del richiedente, purchè sia garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni, o davanti alla Commissione territoriale o, se necessario, innanzi al Tribunale. Ne deriva che il Giudice può respingere una domanda di protezione internazionale solo se risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione o la videoregistrazione svoltesi nella fase amministrativa, senza che sia necessario rinnovare l’audizione dello

straniero (Sez. 1, n. 3029 del 31/01/2019, Rv. 652410-01; Sez. 6-1, n. 2817 del 31/01/2019, Rv. 652463-01; Sez. 6-1, n. 32073 del 12/12/2018, Rv. 652088-01).

1.7. In secondo luogo, il ricorrente non si confronta criticamente in modo specifico con la ratio decidendi esposta a pagina 6, p. 6.5. e pagina 7, p. 7.2., laddove il Tribunale ha esposto le ragioni che ostavano alla riconduzione della vicenda una persecuzione o a un rischio di danno grave alla persona meritevoli del riconoscimento delle forme maggiori di protezione internazionale.

1.8. In terzo luogo, il Tribunale ha esaminato alla luce di informazioni attualizzate, debitamente illustrate e citate nelle loro fonti, circa l’attuale situazione economico-sociale del Senegal e del Casamance, escludendo la sussistenza di apprezzabili rischi a carico del richiedente asilo e la sussistenza attuale di una situazione di rischio indifferenziato per i civili scaturente da conflitto armato interno, rilevante D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c).

2. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente denuncia errores in iudicando e in procedendo e violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

2.1. Erano stati dimostrati dal richiedente la conoscenza ottima della lingua italiana, il grado di integrazione raggiunto sul territorio nazionale, i significativi legami familiari in Italia, l’acquisizione della patente di guida italiana, l’esistenza di un contratto di lavoro di apprendistato personalizzante dal 5/6/2017 al 4/6/2021: quanto sopra avrebbe giustificato la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2.2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684-01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto D.L..

Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01, in tema di protezione umanitaria, ha affermato il principio secondo cui l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4455).

2.3. Il Tribunale ha motivatamente escluso la sussistenza di una personale condizione di vulnerabilità soggettiva del richiedente asilo; ha quindi osservato che la proclamata buona integrazione economica e sociale in Italia non era elemento sufficiente alla concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, nel citato regime transitorio, e che la frequenza di corsi formativi e linguistici o la mera promessa di un impiego, comunque condizionata o l’assunzione a tempi ridotti con salario inferiore all’assegno sociale erano di per sè elementi insufficienti a tali fini.

2.4. Tali considerazioni sono del tutto corrette.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Sez. 6-1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01; Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01).

D’altra parte, a prescindere dal livello di integrazione e della presenza di significativi legami familiari e relazioni personali nel nostro Paese, è necessaria e ineludibile una significativa esposizione alla violazione dei diritti umani del richiedente asilo, ove fosse costretto a tornare al proprio Paese, sotto la soglia della tollerabilità: infatti pur sempre si discute di una misura integrativa, di diritto nazionale, di protezione di uno straniero che richiede asilo sulla base dei pericoli corsi nel Paese di origine e non già dei benefici auspicati dal suo inserimento in Italia.

Al proposito le deduzioni critiche del ricorso non superano la soglia della assoluta genericità.

3. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese in difetto di rituale costituzione dell’Amministrazione.

P.Q.M.

La Corte

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2020

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