Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7591 del 18/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 18/03/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 18/03/2021), n.7591

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 30429-2019 proposto da:

V.T., elettivamente domiciliata presso la cancelleria

della CORTE di CASSAZIONE, alla piazza CAVOUR, ROMA, rappresentata e

difesa dall’Avvocato VITO TASSONE;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA del CONSIGLIO dei MINISTRI, in persona del Presidente in

carica, elettivamente domiciliato in ROMA, alla via dei PORTOGHESI

n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta

e difende, per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 427/2019 della CORTE d’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 27/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 26/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. Cristiano

Valle, osserva quanto segue.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

V.T., medico specializzata, presso l’Università degli Studi di Catania, in chirurgia plastica e ricostruttiva, con titolo di specializzazione conseguito nel 2001, ha agito in giudizio al fine di ottenere, a titolo risarcitorio, la somma di oltre ottantamila Euro, quale differenza tra l’importo della borsa di studio percepita senza alcun adeguamento ISTAT e l’importo di oltre centotrentamila Euro che avrebbe dovuto percepire se lo Stato italiano si fosse adeguato alla Direttiva n. 93/16 CEE del 05/04/1993, attuata con il D.Lgs. n. 368 del 1999, ma di fatto differita per ragioni finanziarie al 2007 e sol per gli iscritti dall’anno accademico 2006-2007.

La domanda è stata rigettata dal Tribunale di Catanzaro e la Corte di Appello territoriale, con sentenza n. 427 del 27/02/2019, ha confermato la pronuncia del primo giudice.

Avverso la sentenza d’appello ricorre, con atto affidato a plurime censure, V.T..

Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. La proposta di definizione in sede camerale, non partecipata, è stata ritualmente comunicata alle parti.

La ricorrente ha depositato memoria.

Il ricorso non presenta un momento di sintesi dei motivi di impugnazione.

Le censure sono così esposte, dalla fine della pag. 75 in poi: “omesso esame circa il fatto decisivo per il giudkio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè il fatto la domanda risarcitoria proposta in primo grado dall’odierna appellante non si fonda sulla contesta ione della scelta discrezionale con la quale lo Stato italiano ha rideterminato l’adeguata remunerazione da corrispondere in fora delle citate direttive CEE ai medici specialivandi, bensì:

a) sul fatto che essa rideterminata adeguata remunerazione, che ha avuto luogo con il D.Lgs. n. 368 del 1999 in attuazione della direttiva 93/16/CEE, non è stata corrisposta all’avente diritto-odierna appellante; e b) sul fatto che allo Stato italiano, in fora del diritto primario comunitario, non era consentito far decorrere l’obbligo di corresponsione della rideterminata adeguata remunerazione ai medici specializzandi dall’anno accademico 20052006, anzichè dal 1 gennaio 1995 entro la quale data lo Stato italiano era obbligato di recepire la citata direttiva 93/16/CEE. E quindi con conseguente violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato prescritto dall’art. 112 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”.

Il motivo, o i motivi, sono infondati, oltre che inammissibili.

Inammissibili in quanto la censura di non corrispondenza tra chiesto e pronunciato è adeguatamente sussumibile nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Infondato per le ragioni che seguono, esposte compiutamente da questa Corte, nei propri specifici precedenti (Cass. n. 06355 del 14 03 2018 Rv. 648407 – 01 e n. 17051 del 28/06/2018), la cui motivazione è in questa sede in gran parte richiamata ed ai quali il Collegio presta adesione ed intende dare continuità.

Con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6 il legislatore italiano, dando attuazione, sia pure tardivamente, al disposto della direttiva n. 82/76/CEE del Consiglio, stabili in favore dei medici ammessi alle scuole di specializzazione una borsa di studio determinata per l’anno 1991 nella somma di lire 21.500.000. Tale somma era destinata ad un incremento annuale, a decorrere dal 1 gennaio 1992, sulla base del tasso programmato di inflazione, incremento fissato ogni triennio con decreto interministeriale. Il meccanismo di adeguamento venne peraltro bloccato successivamente, con effetto retroattivo, dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 432 del 23/12/1997), e da altre leggi successive (v. sul punto, ampiamente, Cass. n. 4449 del 23/02/2018).

In seguito, dando attuazione alla direttiva n. 93/16/CE, il legislatore nazionale intervenne sulla materia con il D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, che raccolse in un testo unico le precedenti direttive n. 75/362 e n. 75/363 CEE, con le relative successive modificazioni. Tale decreto – in seguito ampiamente modificato dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 300, – riorganizzò l’ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, istituendo e disciplinando un vero e proprio contratto di formazione (inizialmente denominato “contratto di formazione-lavoro” e poi “contratto di formazione-specialistica”, art. 37 del D.Lgs. cit.), da stipulare e rinnovare annualmente tra Università (e Regioni) e medici specializzandi, con un meccanismo di retribuzione articolato in una quota fissa ed in una quota variabile, in concreto periodicamente determinate da successivi decreti ministeriali (art. 39 D.Lgs. cit.). Questo contratto, peraltro, come la Sezione Lavoro di questa Corte ha ribadito in plurime occasioni, non dà luogo ad un rapporto inquadrabile nell’ambito del lavoro subordinato, nè è riconducibile alle ipotesi di parasubordinazione, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra l’attività degli specializzandi e gli emolumenti previsti dalla legge, restando conseguentemente inapplicabili l’art. 36 Cost. ed il principio di adeguatezza della retribuzione ivi contenuto (v. in tal senso, Cass. n. 18670 del 27 luglio 2017, sulla scia di un consolidato orientamento, richiamata dalla citata n. 06355 del 2018).

In realtà, però, il nuovo meccanismo retributivo di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999 divenne operativo solo a decorrere dall’anno accademico 2006/2007 (art. 46, comma 2, D.Lgs. cit., nel testo risultante dalle modifiche introdotte prima dal D.Lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, art. 8 e poi dalla L. n. 266 del 2005, già citato art. 1, comma 300); mentre le disposizioni del D.Lgs. n. 257 del 1991 rimasero applicabili fino all’anno accademico 2005/2006. Il trattamento economico spettante ai medici specializzandi in base al contratto di formazione specialistica fu poi in concreto fissato con i D.P.C.M. 7 marzo, 6 luglio e 2 novembre 2007.

Compiuta questa premessa normativa, il cuore della questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire 1) se la direttiva n. 93/16/CE abbia avuto o meno una portata innovativa rispetto a quanto stabilito dalle precedenti direttive n. 75/362/CEE, n. 75/363/CEE e n. 82/76/CEE; 2) se il concetto di retribuzione adeguata sia mutato nel passaggio dalle precedenti alla più recente direttiva; 3) se e quando lo Stato italiano abbia adempiuto all’obbligo di garantire ai medici specializzandi una retribuzione adeguata.

Le pronunce di questa Corte in precedenza richiamate hanno già risposto a tali domande nei termini che la pronuncia odierna intende ulteriormente confermare.

Ed invero la direttiva n. 93/16/CE, come risulta dalla sua stessa formulazione (si veda, in proposito, il primo Considerando), non ha una portata innovativa, prefiggendosi soltanto l’obiettivo, “per motivi di razionalità e per maggiore chiarezza”, di procedere alla codificazione delle tre suindicate direttive “riunendole in un testo unico”; il che risulta ancor più evidente per il fatto che la direttiva in questione lascia “impregiudicati gli obblighi degli Stati membri relativi ai termini per il recepimento delle direttive” di cui all’allegato III, parte B (così l’ultimo dei Considerando).

E’ opportuno ricordare, del resto, che il termine adeguata rimunerazione compare per la prima volta nell’Allegato alla direttiva n. 82/76/CEE e si ritrova, senza alcuna modificazione, nell’Allegato I alla direttiva n. 93/16/CE, per cui è dalla scadenza del termine di adempimento della direttiva del 1982 che l’esigenza di tale adeguatezza divenne regola di obbligatorio recepimento nel diritto interno. Tuttavia, lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 8; la normativa dell’Unione Europea, infatti, non contiene, nè potrebbe essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 04449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, “nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute negli artt. da 37 a 42 (del D.Lgs. n. 368 del 1999) e la sostanziale conferma del contenuto del D.Lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. n. 1536212014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico nè ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Nè vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova normativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione”. In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 06355 del 2018, va affermato che il “nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il D.Lgs. n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla L. n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi”.

Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 – causa C-131/97, Carbonari, e 3 ottobre 2000 – causa C-371/97, Gozza); e il D.Lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale.

Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione Europea e che la causa promossa dall’odierna ricorrente, come correttamente ha osservato l’Avvocatura di Stato, è finalizzata in realtà ad ottenere l’applicazione retroattiva del D.Lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare “esclusivamente l’ordinamento interno” (Cass. n. 06355 del 2018, cit.). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al D.Lgs. n. 368 del 1999 – che è una normativa più favorevole – rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicchè il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno. Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate come da dispositivo

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 2.800,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA e IVA per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione, sezione VI civile 3, il 26 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2021

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