Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 759 del 13/01/2017

Cassazione civile, sez. un., 13/01/2017, (ud. 25/10/2016, dep.13/01/2017),  n. 759

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Pres. f. f. –

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente Sezione –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11114-2015 proposto da:

MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

E.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

MAGNAGRECIA 95, presso lo STUDIO LEGALE ASSOCIATO GUERRA,

rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO GUERRA, MAURIZIO MARIA

GUERRA, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 62/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 20/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. FRASCA RAFFAELE;

uditi gli avvocati RAGO Vincenzo per l’Avvocatura Generale dello

Stato e Maurizio Maria GUERRA in proprio e per delega dell’avvocato

Paolo Guerra;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO RICCARDO,

che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, giurisdizione del

giudice amministrativo.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

p.1. Il Ministero della Difesa ha proposto ricorso per cassazione contro E.S. avverso la sentenza del 20 marzo 2015, con cui la Corte d’Appello di Ancona ha rigettato il suo appello contro la sentenza del 30 agosto 2014, con la quale il Tribunale di Macerata, in funzione di giudice del lavoro, dopo aver disatteso fra l’altro un’eccezione di difetto di giurisdizione dell’a.g.o., proposta da esso ricorrente, aveva accolto il ricorso, introdotto nel giugno 2013 dall’ E. ed inteso ad ottenere il riconoscimento, ai fini dell’attribuzione dei benefici conseguenti, dello status di “vittima del dovere” o di soggetto equiparato, ai sensi della L. n. 266 del 2005, art. 1, commi 563 e 564.

Tale riconoscimento era stato richiesto dall’ E., in relazione alle gravi invalidità permanenti, riportate nell’espletamento del servizio militare obbligatorio di leva, durante un’esercitazione notturna svoltasi nel giugno 1962, e il Tribunale maceratese, previa disapplicazione del provvedimento ministeriale dell’11 aprile del 2013, che aveva disatteso la richiesta di attribuzione del beneficio, aveva dichiarato il Ministero tenuto a riconoscerlo e ad inserire il nominativo dell’ E. nella graduatoria unica nazionale di cui al D.P.R. n. 243 del 2006, art. 3 comma 3, con conseguente concessione dei relativi benefici.

p.2. Al ricorso del Ministero, affidato a due motivi, il primo dei quali inerisce alla giurisdizione, ha resistito con controricorso l’ E..

p.3. Entrambe le parti hanno depositato memoria e l’ E. ha anche nominato un difensore in aggiunta a quello che sottoscrisse il ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.1. Con il primo motivo si deduce “difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo, in relazione all’art. 360 c.p.c.” n. 1″.

Il motivo – articolato in due gradate prospettazioni – non è fondato.

La prima prospettazione, imperniata sulla qualificazione della provvidenza come oggetto di un interesse legittimo e non di un diritto soggettivo, è priva di fondamento, atteso che – non diversamente da come accade per altre pregresse fattispecie normative similari – l’Amministrazione deve solo procedere in subiecta materia ad una attività esplicativa di mera discrezionalità tecnica, mentre le modalità del suo agire sono regolate dalla fonte regolamentare.

La seconda prospettazione – imperniata sulla qualificazione come diritto soggettivo, ma accompagnata dalla pretesa riconducibilità dello stesso al rapporto di leva militare, le controversie sul quale sono soggette alla giurisdizione esclusiva del g.a. – è a sua volta priva di fondamento, perchè la fonte del diritto è qui direttamente la legge e non l’esistenza del detto rapporto.

Entrambe le prospettazioni, di cui al motivo, sono state, comunque, ampiamente esaminate dalle Sezioni Unite e risolte nel senso dell’affermazione della giurisdizione ordinaria in due decisioni, adottate all’esito dell’udienza del 13 settembre 2016.

Ad esse, che frattanto sono state pubblicate, va fatto rinvio senza ripetere le argomentazioni che vi sono state esposte.

Si tratta di:

a) Cass. sez. un. n. 23300 del 2016, che ha affermato il seguente principio di diritto: “In relazione ai benefici di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 565, in favore delle vittime del dovere, il legislatore ha configurato un diritto soggettivo, e non un interesse legittimo, in quanto, sussistendo i requisiti previsti, i soggetti di cui al comma 563, dell’art. 1 di quella legge, o i loro familiari superstiti, hanno una posizione giuridica soggettiva nei confronti di una P.A. priva di discrezionalità, sia in ordine alla decisione di erogare, o meno, le provvidenze che alla misura di esse. Tale diritto non rientra nell’ambito di quelli inerenti il rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici, potendo esso riguardare anche coloro che non abbiano con l’amministrazione un siffatto rapporto, ma abbiano in qualsiasi modo svolto un servizio, ed ha, inoltre, natura prevalentemente assistenziale, sicchè la competenza a conoscerne è regolata dall’art. 442 c.p.c., e la giurisdizione è del giudice ordinario, quale giudice del lavoro e dell’assistenza sociale”;

b) e di Cass. sez. un. n. 23390 del 2016, che ha ribadito tale principio di diritto.

p.1.1. Il primo motivo è, pertanto, rigettato sussistendo e dovendosi dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario.

p.3. Con il secondo motivo si denuncia “Violazione e falsa applicazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, commi 563 e 564 e del D.P.R. n. 243 del 2006 in relazione all’art. 360 c.c., n. 3). Insussistenza dei requisiti per la concessione dei benefici in parola”.

Il motivo si articola con due distinte e gradate censure.

p.3.1. La prima censura addebita alla corte territoriale di avere erroneamente interpretato il concetto di “missione”, di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 564 e, quindi, di avere, sulla base di questa erronea esegesi, sussunto a torto la fattispecie concreta sotto la previsione normativa.

p.3.2. La seconda censura, che ha carattere oggettivamente subordinato rispetto alla prima, si appunta invece sull’esegesi che la sentenza ha fatto dell’espressione con cui lo stesso comma 564 esige che l’evento per cui è previsto la provvidenza, oltre ad essersi verificato in una “missione”, discenda da “particolari condizioni ambientali od operative”. Anche in questo caso l’espressione di cui al disposto normativo sarebbe stata male interpretata e l’errore avrebbe determinato la sussunzione della fattispecie sotto la disciplina della normativa di previsione della provvidenza.

p.4. Entrambe le censure sono prive di fondamento.

p.4.1. Per darne conto è necessario rilevare che la vicenda, riguardo alla quale è stata chiesta dall’ E. la provvidenza di cui trattasi, si è svolta nei seguenti termini fattuali, che sono stati descritti dalla sentenza impugnata e qui quali nel ricorso non vi è stata contestazione:

a) all’ E., allora in servizio come sergente di complemento dell’Esercizio Italiano era stato comandato di partecipare ad una esercitazione a fuoco, classificata dall’autorità di comando come “tipo 23” e consistente in una simulazione di assalto notturno, da parte di un plotone di fucilieri, con utilizzo di munizioni convenzionali e di proiettili traccianti;

b) l’esercitazione rappresentava una “attività speciale rispetto alla normale attività addestrativa fino ad allora compiuta dal militare” e comprendeva, per come progettata, “anche l’esplosione (il cui compito era affidato all’ E. in coppia con un commilitone) di una carica di tritolo da 200 grammi ciascuno con miccia a lenta combustione e relativo detonatore, precedentemente preparata da specialisti artificieri”;

c) ancorchè nel piano dell’esercitazione l’esplosione delle due cariche dovesse avvenire contemporaneamente, era accaduto che, nonostante la contemporanea accensione delle due micce, esplodesse solo quella del commilitone dell’ E., mentre quella affidata a costui restava inesplosa ed il suddetto, temendo che la carica esplosiva si innescasse in un secondo tempo e potesse colpire i fucilieri che, di lì a poco, dovevano passare sul posto, dopo aver verificato che la miccia non era accesa, aveva raccolto l’ordigno, che in quel momento era esploso, cagionandogli le lesioni poi valutate dipendenti da causa di servizio.

p.4.2. La sentenza impugnata, così ricostruito il fatto, ha, poi, espressamente escluso – e si tratta di affermazione che non è stata censurata e su cui si è formato giudicato interno – che il gesto dell’ E. fosse da considerare abnorme, in quanto si era trattato di “gesto istintivo del militare di allontanare il pericolo imminente per un gruppo di commilitoni, tanto più che, trattandosi di situazione di chiara emergenza, non era dato far riferimento ed affidamento ad una precisa direttiva o ordine superiore”.

p.4.3. Di seguito, riguardo alla riconducibilità dell’accaduto ad una “missione” espletata dal militare, la sentenza – dopo avere richiamato il disposto dell’art. 1, comma 564, e quello, relativo alla definizioni rilevanti ai fini dell’applicazione della normativa, del D.P.R. n. 243 del 2006, art. 1, lett. b), – ha affermato, evocando un parere del 4 maggio – 1 giugno 2010 del Consiglio di Stato, che al termine “missione” “va attribuito il significato di “attività istituzionali di servizio proprie delle Forze Armate” riferite ad “un’ampia gamma di ipotesi di impiego che hanno riguardo a tutti i compiti e le attività istituzionali svolte dal personale militare, che si attuano nello svolgimento di compiti operativi, addestrativi o logistici sui mezzi o nell’ambito di strutture, stabilimenti e siti militari, nell’area tecnico – operativa come i quella tecnico-industriale entro e fuori i confini nazionali””. Ne ha tratto, quindi, la conseguenza che “in tale accezione estensiva del termine missione, indipendentemente dagli scopi della missione (operativi, addestrativi o logistici), il requisito richiesto è quello dell’autorizzazione dell’autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata al dipendente, sicchè nella fattispecie in esame si tratta senz’altro di “missione comandata”.”.

p.5. Questa motivazione, con una certa singolarità, viene riprodotta dopo la critica che il ricorso, svolgendo la prima censura, muove alla sentenza impugnata quanto alla ricostruzione del concetto di “missione”.

La critica si concreta nell’assunto che “il concetto di missione implica di per sè una prestazione che esuli dalla normale ordinarietà dei compiti lavorativi che il dipendente in forza delle proprie mansioni è tenuto ad espletare”, sicchè per missione dovrebbe intendersi “una operazione limitata nel tempo avente natura di incarico operativo a scopo specifico, nell’ambito di speciali iniziative di difesa, di polizia, di ordine pubblico, di sostegno sociale, a scopo specifico, e come tali limitate ad obiettivi specifici che, in quanto tali, esulano dalla ordinarietà delle mansioni che il dipendente è chiamato a svolgere nell’esercizio della propria attività lavorativa”, perchè altrimenti si “approderebbe alla equivalenza fra ordinaria causa di servizio e vittima del dovere”.

Poichè l’infortunio sofferto dall’ E. si sarebbe verificato “nel corso dello svolgimento di un ordinario servizio istituzionale svolto (…) quale sottoufficiale di complemento dell’Esercito”, esso si collocherebbe al di fuori di una “missione”.

p.6. La tesi del ricorrente, che non trova certamente corrispondenza nella motivazione della sentenza impugnata, non può essere seguita.

Queste le ragioni.

p.6.1. Mette conto di rilevare in primo luogo che il concetto di missione, nel comma 564 più volte citato, non risulta individuato quanto alla sua intrinseca natura. La norma, senza farne la definizione intrinseca, si preoccupa di stabilirne semmai l’ampiezza, sia sotto il profilo del luogo di espletamento, sia sotto quello della modalità di espletamento.

Ciò è stato già rilevato dalla citata sentenza n. 23390 del 2016 (come dalla n. 23300 del 2016), là dove ha osservato che, quando la norma parla di “missioni di qualunque natura, effettuate dentro e fuori dai confini nazionali”, vuole esprimere l’intenzione del legislatore di “intendere il concetto di missione in senso estensivo, tanto con riferimento ai luoghi (dentro e fuori dai confini nazionali), quanto, e soprattutto, con riferimento alle tipologie e modalità (“missioni di qualunque natura”)”.

A sua volta, nemmeno la fonte regolamentare, al D.P.R. n. 243 del 2006, art. 1, lett. b), si preoccupa di fornire una definizione dell’espressione legislativa “missioni di qualunque natura”, provvedendo a definire intrinsecamente il concetto di missione, ma si muove anch’essa su un piano estrinseco, identificandole nelle “missioni, quale che ne siano gli scopi, autorizzate dall’autorità gerarchicamente o funzionalmente sopraordinata al dipendente”.

p.6.2. Ebbene in assenza di una definizione del concetto di missione in senso intrinseco, da parte delle fonti normative, l’interprete è, evidentemente, obbligato a far ricorso ai significati del concetto di “missione, in senso comune, con il limite che il significato dev’essere compatibile con la funzione e lo scopo della provvidenza prevista dalla normativa di cui trattasi, che, ai sensi del comma 562 è quella di estendere i benefici previsti le vittime della criminalità e del terrorismo “alle vittime del dovere”. Il che implica che la “missione” di cui parla il comma 564 dev’essere comunque esplicazione di un “dovere”, che grava sui soggetti cui fa riferimento lo stesso comma.

p.6.3. Il termine “missione” è certamente polisenso, come si ricava (ma l’indicazione è esemplificativa) dai significati riportati nel Dizionario dei sinonimi e contrari (OMISSIS).

Un primo significato è quello di “attività particolare e di una certa importanza di cui si viene incaricati”, “compito”, “funzione”, “incarico”, “incombenza”, “mandato”, “mansione”.

Un secondo significato, più ristretto e qualificato come di natura amministrativa, è quello di: “spostamento compiuto da un funzionario o da un dipendente di enti pubblici o aziende private per scopi di lavoro”, “trasferta”.

Vi sono, poi, altri significati più specifici: quello di “complesso delle funzioni che un agente diplomatico deve svolgere”, “ambasceria”, “delegazione”, “deputazione”, “legazione”, quello di “compito che si carica di un particolare valore morale, quasi religioso”, quello di “insieme dei servizi e dei compiti svolti da un’attività produttiva, un’azienda e simili”, quello, correlato alla storia delle religioni, di “incarico di diffondere il messaggio religioso”, di “apostolato”, di “evangelizzazione”.

p.6.4. La funzione e lo scopo della normativa di cui si discorre inducono, in via immediata ad escludere che si sia voluto alludere alla “missione”, evocando questi ultimi significati, e restringono l’alternativa ai primi due significati.

Senonchè, tale alternativa si deve sciogliere a favore del primo significato, perchè, se il secondo potrebbe apparire evocato dal riferimento spaziale presente nel comma 564 all’effettuazione della missione “dentro o fuori dai confini nazionale”, cui si potrebbe attribuire una volontà del legislatore di alludere ad un’attività comportante uno spostamento dal luogo in cui il soggetto, nell’adempimento del dovere, operava (data la retroattività della normativa) od opera ordinariamente, tuttavia, la specificazione che la missione può essere di “qualsiasi natura”, una volta coniugata con il fatto che comunque la missione nel primo generalissimo significato suppone comunque una localizzazione dell’attività, impongono di ritenere che proprio a tale significato generalissimo si sia inteso fare riferimento.

La disposizione del regolamento, a sua volta, nel definire le missioni riferendosi ad esse “quale che ne siano gli scopi” non fa che confermare il risultato esegetico desunto dalla norma di legge e lo fa – lo si osserva in relazione a quanto si dirà di seguito a proposito della fonte regolamentare – in piena sintonia con esso.

p.6.5. Poichè il concetto di missione risulta, dunque, corrispondere al primo generalissimo significato su indicato, la prima censura proposta con il motivo in esame dev’essere disattesa, perchè quel significato implica che la “missione” possa essere sia correlata ad un’attività di particolare importanza, connotata da caratteri di straordinarietà o di specialità, sia ad un’attività che tale non sia e risulti del tutto “ordinaria” e “normale”, cioè, in definitiva, rappresenti un “compito”, l’espletamento di una “funzione”, di un “incarico”, di una “incombenza”, di un “mandato”, di una “mansione”, che siano dovuti dal soggetto nel quadro dell’attività espletata.

Ne riesce, pertanto, esclusa la possibilità di distinguere, all’interno dell’attività espletata dal soggetto ciò che rappresenterebbe un “ordinario servizio istituzionale”, secondo la formulazione proposta dalla difesa erariale, da ciò che non lo rappresenterebbe e, dunque, sia “straordinario”.

Nel caso di specie, se anche l’esercitazione rappresentava un tipo di addestramento speciale, ma comunque ordinario, cioè da espletarsi durante il servizio militare in allora prestato dall’ E., tale ordinarietà non nel escludeva la qualificazione su specie di missione agli effetti della citata L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 564.

La prima censura è, pertanto, rigettata, dovendosi ribadire con le precisazioni qui svolte l’esegesi estensiva del concetto di missione già affermata da Cass. sez. un. n. 23390 del 2016.

p.7. Anche la seconda censura prospettata con il primo motivo è priva di fondamento.

Essa, per la verità, piuttosto che su specifici riferimenti alla concreta modalità di svolgimento dell’accaduto, si risolve nella riproposizione che l’attività, cui partecipava l’ E., ineriva ad un’ordinaria attività di addestramento, e pretende di attribuire alla definizione, che il D.P.R. n. 243 del 2006, art. 1, lett. c), ha dato delle “particolari condizioni ambientali od operative”, cui allude il comma 564, un significato che non è quello corretto.

p.7.1. Mette conto di rilevare, in primo luogo che la già citata Cass. sez. un. n. 23396 del 2016 ha ritenuto che “la particolarità delle condizioni ambientali ed operative, può sicuramente consistere anche in una situazione venutasi a creare nel corso della missione e non preventivamente determinata” ed ha soggiunto che “questa interpretazione trova conferma nel regolamento di attuazione (D.P.R. n. 243 del 2006), il cui art. 1, lett. c), specifica che per particolari condizioni ambientali ed operative si intendono le condizioni comunque implicanti l’esistenza “o anche il sopravvenire di circostanze straordinarie” che hanno esposto il dipendente a maggiori rischi o fatiche, in rapporto alle ordinarie condizioni di svolgimento dei compiti di istituto.”.

In tal modo si è voluto evidenziare che le “particolari condizioni ambientali ed operative” cui fa riferimento il comma 564, esigendo che l’evento dannoso sia riconosciuto derivare da “causa di servizio” in quanto da esse dipendenti, avrebbero potuto essere esistenti e potrebbero esserlo, sia prima dell’inizio della “missione”, per essere ricollegabili al suo contenuto e/o all’ambiente di svolgimento, sia manifestarsi durante il suo stesso svolgimento, per il sopravvenire di circostanze straordinarie, cioè esulanti sia dal modo sia dall’ambiente di svolgimento della missione, supposti all’atto del suo affidamento.

p.7. 2. La disposizione regolamentare, per la verità, nel definire le circostanze straordinarie, potrebbe apparire esorbitante dai limiti indicati dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 565, che demandavano alla fonte regolamentare il compito di disciplinare “i termini e le modalità per la corresponsione delle provvidenze” e non di precisare tramite attività definitoria i concetti espressi dalla legge nel comma 564: l’attività regolamentare delegata – indipendentemente dalla sua collocazione sotto la L. n. 400 del 1988, art. 17, comma 1, lett. a, (richiamato dal comma 565 senza individuazione della lettera), o sotto la lett. b) del detto comma – risultava, infatti, limitata ai “termini” e alle “modalità di corresponsione delle provvidenze”, nozioni nelle quali si potrebbe ritenere non compresa un’attività definitoria come quella di cui al D.P.R. n. 243 del 2006, art. 1.

Tuttavia, senza che meriti approfondire il problema, si deve rilevare che la definizione di cui alla citata lett. c) non si è comunque collocata al di fuori di quanto corrisponde ad una corretta lettura della formulazione del comma 564, quando parla di eventi riconosciuti “dipendenti da causa di servizio per le particolari condizioni ambientali od operative”, atteso che sia le une che le altre possono bene ricollegarsi, attesa la genericità dell’espressione, tanto ad una situazione sussistente ex ante rispetto all’attività e connaturata al suo modo di essere, quanto ad una situazione manifestasi durante lo svolgimento dell’attività.

Nel caso di specie, ancorchè l’esercitazione in cui era impegnato il militare potesse corrispondere ad un’attività prevista come ordinaria nell’addestramento, sebbene speciale, e considerato che, per quanto prima osservato, era, ciononostante, una missione rilevante agli effetti del disposto normativo, la verificazione di una “particolare condizione ambientale ed operativa” e – secondo il disposto regolamentare – “il sopravvenire di una circostanza straordinaria e di un fatto di servizio che espose il militare a maggiori rischi o fatiche”, risulta essersi avuta per il fatto, considerato esattamente dalla motivazione della sentenza impugnata, che, nonostante l’accensione della miccia, la carica esplosiva affidata al militare non esplose e che l’esistenza dello stato conseguente della carica era idonea a cagionare pericolo per i fucilieri che stavano sopraggiungendo.

La situazione così creatasi integrò senza dubbio una condizione ambientale ed operativa “particolare”, cioè collocantesi al di fuori del modo di svolgimento dell’attività “generale”, id est “normale” (che era di esplosione della carica a seguito dell’accensione della miccia), in quanto corrispondente a come l’attività addestrativa era previsto si svolgesse.

L’evenienza che fronteggiò il militare, invece, non era contemplata dalla previsione della pur speciale attività addestrativa.

Considerazioni non dissimili possono farsi a proposito della riconducibilità della vicenda alla formulazione del regolamento, atteso che, come s’è detto, essa non esorbita ed ha un significato corrispondente a quello della legge.

Ne segue il rigetto della seconda censura.

I principi qui affermati non sono dissonanti (come ha già riconosciuto anche Cass. sez. un. n. 23390 del 2016) da quanto affermato dall’unico precedente emesso dalla Corte a sezione semplice, cioè da Cass. n. 13114 del 2015, là dove si è affermato che “per il riconoscimento dei benefici previsti per i soggetti equiparati alle vittime del dovere è (…) necessario (…) che i compiti rientranti nella normale attività d’istituto, svolti in occasione o a seguito di missioni di qualunque natura, si siano complicati per l’esistenza o per il sopravvenire di circostanze o eventi straordinari, ulteriori rispetto al rischio tipico sopra indicato”, escludendosi che ciò potesse ravvisarsi nel caso di specie, in cui “l’esplosione anche accidentale di un proiettile nel corso della normale attività di addestramento all’utilizzo delle armi” era stata “il frutto della sottoposizione al rischio che l’ambiente militare comporta”, senza che si fossero “verificati fattori legati alle persone, ai luoghi o alle armi utilizzate, che abbiano determinato in concreto un maggiore rischio rispetto a quello insito nell’attività ordinaria cui il militare era addetto”. E ciò, in quanto “il militare stava assistendo ad un’esercitazione alla quale era stato comandato, che doveva addestrarlo all’uso dell’arma, e (…) la sua presenza nel raggio di azione del proiettile era giustificata dalla necessità di assistere alle spiegazioni che il sottotenente stava fornendo di fronte ad uno dei suoi commilitoni, e dunque nel corso di una tipica attività addestrativa comandata.”.

p.8. Il ricorso, previa declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario, è, conclusivamente, rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione possono compensarsi atteso che le questioni proposte sono state decise per la prima volta dalle Sezioni Unite in questa sede e nelle di poco precedenti due decisioni sopra ricordate, mentre – per quanto attiene alle questioni poste dal secondo motivo – Cass. n. 13114 del 2015 è stata pubblicata dopo la notificazione del ricorso in esame.

PQM

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario e rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2017

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