Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7587 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. lav., 08/03/2022, (ud. 26/01/2022, dep. 08/03/2022), n.7587

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24305-2020 proposto da:

L.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE

MILIZIE n. 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GHERA,

rappresentato e difeso dagli avvocati DOMENICO GAROFALO e ANDREA

CUDINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, UNIVERSITA’ E RICERCA, in persona del

Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia

in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 164/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 07/01/2020 R.G.N. 258/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/01/2022 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato STEFANO SALVATO per delega verbale Avvocato DOMENICO

GAROFALO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Trieste ha respinto l’appello di L.S. avverso la sentenza del Tribunale di Udine che aveva rigettato il ricorso, proposto nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, volto ad ottenere: l’accertamento dell’illegittimità delle sanzioni disciplinari inflitte negli anni 2011, 2012 e 2013 e la “conseguente reintegra nei diritti retributivi e contributivi”; la dichiarazione di “illegittimità, nullità, annullabilità, inefficacia” dei decreti del Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Codroipo di non superamento dell’anno di prova 2012/2013 o, in subordine, dell’anno di prova 2013/2014, con pronuncia dichiarativa dell’avvenuta conferma a far tempo dal 1 settembre 2013 o dal 1 settembre 2014 e con condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perse sino alla data della reintegrazione; l’accertamento dell’illegittimità dei richiamati decreti, aventi natura di licenziamento disciplinare, e la condanna del Ministero alla reintegrazione risarcimento del danno.

2. La Corte territoriale, riassunti i fatti di causa, ha escluso che la valutazione negativa degli anni di prova fosse dipesa da una finalità discriminatoria ed ha evidenziato che l’unico fattore di rischio allegato dall’appellante, in termini generici ed ipotetici, non aveva trovato alcun riscontro all’esito dell’istruttoria disposta in grado d’appello, dalla quale non era emerso l’asserito collegamento fra le maldicenze ed i giudizi negativi manifestati a priori da alcuni genitori e la decisione dell’amministrazione di recedere dal rapporto. Ha precisato al riguardo che le valutazioni espresse dal tutor, dai dirigenti scolastici e dal comitato di valutazione si fondavano su episodi concreti o su dati documentali e, quanto alle sanzioni disciplinari delle quali era stata contestata la legittimità, l’incidenza nella formulazione del giudizio era stata limitata ai profili fattuali delle contestazioni, accertati e riconosciuti dallo stesso appellante.

3. Il giudice d’appello ha, poi, sottolineato la natura discrezionale del giudizio espresso dal datore di lavoro ex art. 2096 c.c., che non può essere sindacato nel merito ove non risulti allegato e provato un motivo illecito o, almeno, estraneo alla funzione dell’esperimento. Detta prova non era emersa nella fattispecie in quanto le valutazioni positive espresse da alcuni allievi non erano sufficienti ad elidere le difficoltà e le criticità evidenziate nelle relazioni, nelle quali il giudizio negativo era stato espresso, non sul contenuto dell’attività didattica, bensì sulle capacità relazionali, che si erano rivelate carenti in tutti i casi in cui si trattava di affrontare e gestire situazioni o classi o alunni problematici.

4. Quanto, poi, all’asserito inadempimento del Ministero ai doveri di formazione e di collaborazione la Corte territoriale ha escluso che lo stesso integrasse un vizio funzionale della prova ed ha aggiunto che la mancata corretta esecuzione della prova non determina automaticamente la conversione del rapporto, perché legittima solo la richiesta di esecuzione del patto o di risarcimento del danno, domande, queste, non formulate dal ricorrente.

5. Infine il giudice d’appello, una volta ritenuto validamente risolto il rapporto di lavoro, ha escluso l’interesse dell’appellante all’accertamento dell’illegittimità delle sanzioni disciplinari, in quanto le stesse nessuna incidenza avrebbero potuto spiegare sul rapporto, diverso e distinto, intercorrente fra il Ministero ed il L., restituito al ruolo del personale ATA.

6. Per la cassazione della sentenza L.S. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

La Procura Generale ha depositato memoria ed ha concluso per l’infondatezza del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è dedotta, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la “nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. sub specie di omessa pronuncia” perché la Corte territoriale, erroneamente, ha ritenuto l’insussistenza dell’interesse ad agire, quanto alle domande di nullità e/o illegittimità delle sanzioni disciplinari, interesse che doveva essere valutato sulla base della prospettazione operata dalla parte e non poteva essere escluso sul solo presupposto che le conseguenze sarebbero state diverse rispetto a quelle sostenute dal ricorrente. Il L. evidenzia che negli atti introduttivi di entrambi i gradi del giudizio si era fatto leva sull’illegittimità delle sanzioni per dimostrare la sussistenza di un motivo illecito, sicché la Corte non poteva esimersi dall’esaminare i vizi dedotti, non solo di natura procedurale ma anche di merito e riguardanti la fondatezza e la rilevanza disciplinare degli addebiti. Rileva, infine, che quanto meno con riferimento alla sanzione della sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio per giorni due, l’interesse non poteva essere escluso giacché era stata domandata la “reintegra dei diritti retributivi e contributivi”.

2. La seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 437 e 440 e dell’art. 68 del CCNL 29.11.2007 per il personale del comparto della scuola e addebita al giudice del merito di avere erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie l’art. 2096 c.c.. Il ricorrente richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che nell’impiego pubblico contrattualizzato la prova è imposta per legge e la violazione da parte dell’amministrazione degli obblighi che sulla stessa gravano o delle formalità imposte dal legislatore determina la nullità dell’atto di recesso, dalla quale deriva la prosecuzione del rapporto senza soluzione di continuità.

3. Infine con il terzo motivo è dedotta, ex art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. e si sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare sull’adeguatezza delle modalità dell’esperimento perché la domanda di svolgimento ex novo del periodo di prova si doveva intendere ricompresa in quelle espressamente formulate, posto che una pretesa più ampia contiene in sé quella di minore portata.

4. Nel rispetto dell’ordine logico e giuridico delle questioni, devono essere esaminati con priorità il secondo ed il terzo motivo, formulati avverso il capo della sentenza impugnata che ha escluso i denunciati profili di illegittimità degli atti con i quali l’amministrazione scolastica aveva, dapprima, disposto la proroga della prova e successivamente restituito il docente al ruolo tecnico di provenienza, del D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 439, in ragione dell’esito negativo dell’esperimento.

4.1. Il secondo motivo, seppure fondato nella parte in cui denuncia l’errata applicazione dell’art. 2096 c.c., non può essere accolto perché, a fronte di un dispositivo della sentenza conforme a diritto, la Corte di legittimità, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, è tenuta solo a correggere la motivazione errata.

Il reclutamento del personale docente della scuola è tuttora disciplinato dal D.Lgs. n. 297 del 1994, richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 8, che, agli artt. 437 e s.s., nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis, prevede l’obbligatorietà dell’assunzione in prova, obbligatorietà che caratterizza l’impiego pubblico contrattualizzato, distinguendolo, sotto questo profilo, da quello privato (si rinvia a Cass. n. 32877/2018 ed alla giurisprudenza ivi richiamata).

La stabile immissione nei ruoli del personale scolastico presuppone la valutazione positiva espressa all’esito dell’esperimento, che è condizione necessaria per la conferma in ruolo (art. 440), ed in difetto della quale il docente può essere dispensato dal servizio o restituito al diverso ruolo di provenienza (art. 439).

4.2. Questa Corte da tempo (Cass. n. 21586/2008) ha chiarito che dall’inapplicabilità dell’art. 2096 c.c., che discende dalla doverosità nell’impiego pubblico contrattualizzato dell’assunzione in prova, deriva solo l’irrilevanza di vizi genetici del patto inserito nel regolamento contrattuale, atteso che il contratto individuale sottoscritto dal dipendente e dalla P.A. non può validamente stabilire i contenuti della prova, determinati dalla legge e dalla contrattazione collettiva, nei limiti in cui il legislatore ne consenta l’intervento.

Per il resto, quanto alla natura del potere che il datore di lavoro pubblico esercita ed ai limiti del sindacato giudiziale, valgono i medesimi principi affermati per l’impiego privato e, pertanto, il giudizio discrezionale che l’amministrazione esprime, una volta decorso il periodo di prova, non è sindacabile nel merito né è necessario provarne in sede giudiziale le ragioni, poiché l’illegittimità del recesso è predicabile solo qualora il potere venga esercitato per finalità diverse da quelle che la prova tende ad assicurare o senza il necessario rispetto delle regole formali e procedimentali imposte dalla legge e dalla contrattazione collettiva (Cass. n. 6334/2019).

Anche l’obbligo di motivare il recesso non esclude né attenua la discrezionalità dell’ente nella valutazione dell’esperimento, non incide sulla ripartizione degli oneri probatori, né porta ad omologare il mancato superamento della prova al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, essendo finalizzato solo a consentire la “verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa”, fermo restando che grava sul lavoratore l’onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell’esperimento medesimo (Cass. n. 21586/2008 e Cass. n. 19558/2006).

4.3. La sentenza impugnata, pur richiamando erroneamente l’art. 2096 c.c., non si è discostata dai richiamati principi perché, come evidenziato nello storico di lite, all’esito di un puntuale e approfondito esame delle risultanze istruttorie, ha escluso qualsiasi intento discriminatorio o illecito del datore di lavoro pubblico ed ha sottolineato anche che le valutazioni positive espresse da alcuni alunni e genitori non erano sufficienti “ad elidere le notevoli criticità ed i limiti manifestati dal Prof. L. durante gli anni di prova (e anche in precedenza) evidenziati dalla tutor Prof.ssa Z. e dalle Dirigenti B. e P. nelle loro relazioni” (pag. 27 della motivazione).

Si tratta di un accertamento di fatto non censurabile in questa sede e che, quanto alla rilevanza attribuita agli episodi oggetto di contestazione disciplinare, resiste alla critica mossa dal ricorrente, perché la Corte territoriale non ha valorizzato le sanzioni in sé, senza prima accertarne la legittimità, bensì, come affermato con chiarezza nella motivazione, ai fini della valutazione sulla legittimità del provvedimento finale adottato dall’amministrazione scolastica, ha tenuto conto delle sole circostanze di fatto richiamate nelle relazioni in atti (in alcuni casi ammesse dall’interessato) e le ha apprezzate perché confermative del giudizio negativo espresso all’esito della prova, che è ontologicamente diverso da quello attinente alla responsabilità disciplinare (cfr. sul punto Cass. n. 22396/2018).

4.4. E’ corretta la statuizione impugnata anche nella parte in cui sottolinea l’irrilevanza delle deduzioni formulate dall’appellante in merito all’inadeguatezza della prova, per assenza della necessaria attività formativa.

Questa Corte ha già affermato, in relazione al rapporto di lavoro alle dipendenze di privati, che il vizio funzionale, non genetico, del patto di prova “svolgendo i suoi effetti sul piano dell’inadempimento senza generare una nullità non prevista, non determina automaticamente la “conversione” in un rapporto a tempo indeterminato bensì, come ogni altro inadempimento, la richiesta del creditore di esecuzione del patto – ove possibile – ovvero di risarcimento del danno” (Cass. n. 31159/2018).

Erroneamente il ricorrente sostiene che quel principio non potrebbe operare per l’impiego pubblico contrattualizzato nel quale, essendo la prova imposta per legge, che ne stabilisce anche le modalità, ogni vizio dell’esperimento, secondo l’assunto difensivo, determinerebbe nullità dell’atto di recesso con conseguente stabilizzazione del rapporto di lavoro.

Al contrario, poiché la costituzione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni richiede necessariamente l’esito positivo della prova, sia in via generale (D.P.R. n. 487 del 1994, art. 17) sia per lo speciale regime del reclutamento scolastico (D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 437 e 440), è solo a seguito della valutazione favorevole che si produce l’effetto della stabilizzazione del rapporto, e pertanto quell’effetto non può essere conseguito né in presenza di vizi genetici del contratto individuale, irrilevanti per le ragioni già esposte, né in conseguenza di vizi formali dell’atto di recesso o del procedimento (cfr., in motivazione, Cass. n. 31091/2018) né, infine, per l’asserita inadeguatezza delle modalità dell’esperimento.

4.5. In dette ultime ipotesi, così come accade per il vizio funzionale della prova nell’impiego alle dipendenze di privati, non è utilmente esperibile un’azione volta ad ottenere l’accertamento della costituzione del rapporto a tempo indeterminato, e la tutela del dipendente resta limitata a quella risarcitoria, alla quale si affianca la possibilità di richiedere, a seconda del vizio denunciato, o la rinnovazione del procedimento e del giudizio, oppure un nuovo esperimento, da svolgere nel rispetto delle modalità previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

Si tratta di azioni che, seppure fondate sulla stessa causa petendi, si caratterizzano per l’assoluta diversità del petitum, mediato e immediato, perché diverso è il risultato utile che la parte intende conseguire, così come diversa è la natura della pronuncia che si sollecita, dichiarativa in un caso, di condanna nell’altro.

4.6. La sentenza impugnata è dunque corretta anche nella parte in cui ha escluso di poter pronunciare su domande che non erano stato formulate ed ha di conseguenza ritenuto irrilevante l’accertamento inerente alla denunciata mancanza di attività formativa.

Ne’ si può sostenere che la domanda risarcitoria e quella di rinnovazione della prova fossero ricomprese in quelle formulate, perché le conclusioni dell’atto introduttivo, che il ricorrente ha provveduto a trascrivere alle pagine 2 e 3 del ricorso, erano chiaramente finalizzate ad ottenere la dichiarazione dell’avvenuta conferma in ruolo, quale effetto dell’asserita illegittimità degli atti adottati dall’amministrazione, e le domande di reintegrazione e di condanna al risarcimento del danno, non a caso commisurato alle retribuzioni non percepite dalla data del recesso sino a quella della riammissione in giudizio, erano state formulate, non in via autonoma e subordinata, bensì in stretta correlazione e con vincolo di dipendenza dal richiesto accertamento dell’avvenuta costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

4.7. Dalle considerazioni sopra esposte discende, pertanto, l’infondatezza anche del terzo motivo, che va rigettato perché il vizio di omessa pronuncia ricorre solo qualora risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, e non è configurabile nel caso in cui, anche in mancanza di una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (cfr., fra le tante, Cass. n. 12652/2020 e Cass. n. 2151/2021).

La Corte territoriale ha espressamente esaminato il motivo con il quale era stata riproposta in appello la questione della mancata formazione e l’ha ritenuto non fondato, a prescindere da ogni accertamento di fatto, per le ragioni sopra indicate, ragioni, come si è detto, conformi a diritto.

5. Merita, invece, parziale accoglimento il primo motivo con il quale il ricorrente, pur denunciando nella rubrica la nullità della sentenza per omessa pronuncia, nel corpo della censura fa espresso riferimento alla violazione dell’art. 100 c.p.c. ed addebita al giudice d’appello di avere erroneamente ritenuto che, una volta accertata la legittimità del recesso per esito negativo della prova, fosse venuto meno l’interesse all’accertamento dell’illegittimità delle sanzioni disciplinari irrogate nel corso del periodo di esperimento.

5.1. Il vizio denunciato nella rubrica non è configurabile nella fattispecie per le medesime ragioni già indicate nel punto che precede, perché anche in tal caso la Corte ha statuito sul motivo, sicché la pronuncia può essere ritenuta erronea, ma non mancante.

Va detto, peraltro, che le Sezioni Unite di questa Corte, in recente decisione (Cass. S.U. n. 5669/2022), hanno ribadito che la natura del giudizio di cassazione, a critica vincolata, non impedisce di accedere ad una lettura non formalistica del ricorso, che tenga conto della sostanza della censura, ed hanno richiamato l’orientamento, già espresso dalle stesse Sezioni Unite, secondo cui il requisito di specificità, imposto dall’art. 366 n. 4 c.p.c., comporta solo l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocabilmente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c. (Cass. S.U. n. 17931/2013).

Sulla scorta del richiamato principio occorre quindi valutare, al di là dell’errata formulazione della rubrica, se sussista la denunciata violazione dell’art. 100 c.p.c..

5.2. Così riqualificato, il motivo è solo parzialmente fondato.

La ritenuta validità del recesso, affermata a prescindere dalla legittimità o meno delle sanzioni disciplinari (si rimanda al punto 4.3.), fa venir meno l’interesse alla pronuncia limitatamente ai procedimenti disciplinari conclusisi con l’irrogazione della censura del D.Lgs. n. 297 del 1994, ex art. 493 (che consiste “in una dichiarazione di biasimo scritta e motivata”) perché, da un lato, una volta risolto il rapporto, quella sanzione non è più idonea a produrre alcun effetto, dall’altro il ricorrente si era limitato a domandare, oltre all’accertamento dell’illegittimità dei provvedimenti disciplinari, la sola “reintegra nei diritti retributivi e contributivi”, senza formulare una domanda di risarcimento dei danni subiti per effetto dell’irrogazione.

Da tempo questa Corte ha affermato che, poiché l’interesse ad agire è condizione che deve sussistere al momento della decisione (cfr., fra le tante, Cass. n. 6130/2018 e Cass. n. 11204/2017), vanno apprezzati anche i fatti sopravvenuti all’esercizio dell’azione o alla proposizione del gravame, che possono determinare il venir meno dell’interesse, pur originariamente sussistente, ogniqualvolta, a fronte del mutato contesto fattuale e giuridico, la pronuncia o la sua rimozione sarebbero improduttive di conseguenze.

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie, quanto ai rimproveri verbali, una volta affermata la legittimità del recesso, perché nessuna utilità potrebbe trarre il ricorrente da una pronuncia di annullamento.

5.3. A diverse conclusioni si perviene, invece, per la sanzione della sospensione dal servizio giacché la stessa, ai sensi del D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 494, comporta anche la perdita del trattamento economico correlato al periodo di sospensione e di quel trattamento il ricorrente aveva espressamente chiesto il ristoro, sicché trova applicazione l’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui permane l’interesse ad agire, pur a fronte dell’intervenuta cessazione del rapporto, allorquando la domanda formulata non sia di mero accertamento dell’illegittimità dell’atto datoriale e sia diretta a far valere anche una pretesa retributiva o risarcitoria (cfr., fra le tante, Cass. n. 6749/2012; Cass. n. 3927/2015).

6. In via conclusiva, rigettati il secondo ed il terzo motivo di ricorso, deve essere accolto il primo motivo, nei limiti sopra indicati, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che, ferma la formazione del giudicato sulla legittimità del recesso per mancato superamento della prova (conseguente al rigetto del secondo e del terzo motivo di ricorso), procederà ad un nuovo esame limitato alla legittimità delle sanzioni disciplinari, attenendosi, quanto all’interesse ad agire, al principio enunciato ai punti 5.2. e 5.3..

Alla Corte territoriale è anche demandato il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono le condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Venezia, alla quale demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 26 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

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