Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7582 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 08/03/2022, (ud. 09/02/2022, dep. 08/03/2022), n.7582

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 653/2014 R.G. proposto da:

R.T., elettivamente domiciliata in Roma, via Timavo n.

22, presso lo studio dell’Avv. Tommaso Poliandri, con l’Avv.

Francesco Cirillo che la rappresenta e difende per procura speciale.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Calabria n. 77/01/2013, depositata il 10 maggio 2013.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. R.T. impugnò l’avviso, relativo all’anno d’imposta 2003, con il quale, come risulta dalla sentenza impugnata, l’Agenzia delle Entrate, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, commi 4 e 8, e art. 41, aveva rettificato, ai fini Irpef, il reddito dichiarato dalla stessa contribuente, che non era compatibile con la capacità contributiva effettiva di quest’ultima, come avevano evidenziato i conferimenti di denaro effettuati, per quanto qui rileva, nell’anno 2003 (oltre che nell’anno 2002), a favore della Publipark s.r.l., della quale era socia.

La contribuente impugnò altresì la cartella di pagamento nel frattempo notificatale da Equitalia Nomos s.p.a., a seguito di iscrizione a ruolo a titolo provvisorio della pretesa erariale oggetto del predetto avviso.

Riuniti i ricorsi, l’adita Commissione tributaria provinciale di Cosenza rigettò entrambi.

Avverso tale decisione la contribuente ha proposto appello di fronte alla Commissione tributaria regionale della Calabria che, con la sentenza n. 77/01/2013, depositata il 10 maggio 2013, lo ha respinto.

La società ha quindi proposto ricorso, affidato a cinque motivi, per la cassazione della sentenza della CTR.

L’Agenzia si è costituita con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e/o falsa applicazione delle regole sul contraddittorio, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, dello Statuto del contribuente, della L. n. 241 del 1990, art. 3 e degli artt. 2 e 97 Cost.”.

Come si ricava dalla sintesi del corpo del motivo, la contribuente assume che la CTR avrebbe errato nell’applicazione delle norme sul contraddittorio preventivo all’emissione dell’avviso d’accertamento, ritenendo la ricorrente che “Se è vero che l’Ufficio non è tenuto ad attivare il contraddittorio”, tuttavia, convocata la contribuente, “ha il dovere, legalmente imposto dalla normativa citata, di informarla” in ordine alla verifica in corso.

Il motivo è infondato.

Occorre premettere che, al fine di rilevare, come auspicato dalla contribuente, che pretese violazioni del contraddittorio preventivo (relative al suo espletamento, alle sue forme o ai suoi contenuti) possano incidere sulla legittimità dell’atto impositivo, occorre verificare che lo stesso contraddittorio endoprocedimentale fosse obbligatorio e che la sua violazione fosse sanzionata con la nullità.

Sebbene tale premessa sia espressamente negata dalla stessa ricorrente, è opportuno ricostruire i principi in materia.

Premesso che l’atto impositivo (come da ricorso e da sentenza impugnata) ha per oggetto l’Irpef, deve ricordarsi che, in materia di tributi “non armonizzati”, non sussiste un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporti l’invalidità dell’atto, ove esso non risulti specificamente sancito nella legislazione nazionale (Cass., S.U., 09/12/2015, n. 24823; Cass., 29/10/2018, n. 27421, ex multis).

Tale obbligo non potrebbe, nel caso di specie, ricavarsi dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, essendo principio consolidato che ” In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino”.” (Cass., S.U., 09/12/2015, n. 24823, cit.), e non essendo stato dedotto che, nel caso di specie, vi sia stato il previo accesso presso la contribuente di cui alla predetta norma.

Tanto meno è ipotizzabile, con riferimento al caso di specie, un obbligo di contraddittorio derivante dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, parametro normativo cui la sentenza impugnata e lo stesso ricorso (cfr. terzo motivo) correlano l’accertamento praticato.

Infatti, come questa Corte ha già affermato (Cass. 20/12/2019, n. 34209), l’invito a comparire di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7 è stato introdotto dalla L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, il cui comma 1 espressamente prevede che le modifiche che esso reca al testo del predetto art. 38 abbiano “effetto per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”, vale a dire per gli accertamenti del reddito relativi ai periodi d’imposta successivi al 2009, tra i quali non sono compresi quelli sub iudice.

Al riguardo questa Corte (Cass. 06/10/2014, n. 21041; Cass. 6/11/2015, n. 22744; Cass. 29.01.2016, n. 1772), nell’escludere l’applicazione retroattiva della novella in questione, ha già avuto modo di chiarire che:

a) non sono in questione i principi sulla retroattività, atteso che la giurisprudenza che afferma l’applicabilità degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e del 19 novembre 1992 ai periodi d’imposta precedenti alla loro adozione (da ultimo,ex plurimis, Cass. 26/02/2019, n. 556) si fonda piuttosto sulla natura procedimentale delle norme dei decreti, dalla quale soltanto (e non dalla retroattività) consegue la loro applicazione con riferimento al momento dell’accertamento;

b) neppure è in questione il principio del favor rei, la cui applicazione è predicabile unicamente rispetto a norme sanzionatorie, non invece in materia di poteri di accertamento o di formazione della prova, rilevanti in materia di redditometro;

c) l’individuazione della norma applicabile è questione di diritto intertemporale, che tuttavia necessariamente recede a fronte alla esplicita previsione di diritto transitorio, già richiamata, che inequivocabilmente identifica la norma applicabile.

Neppure è individuabile, infine, un obbligo di contraddittorio preventivo che derivi dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 (norma evocata nella rubrica del motivo e nella sentenza, con riferimento al “controllo bancario” effettuato sulle movimentazioni dei conti riferiti alla contribuente), in quanto “In tema di accertamento delle imposte, la legittimità della ricostruzione della base imponibile mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite non è subordinata al contraddittorio con il contribuente, anticipato alla fase amministrativa, in quanto l’invito a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari costituisce per l’Ufficio una mera facoltà, da esercitarsi in piena discrezionalità, e non un obbligo, sicché dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti.” (Cass. 20/12/2019, n. 34209, cit.; conforme Cass. 19/07/2021, n. 20436).

Non sussistendo, pertanto, l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, la sua pretesa violazione, quale che ne sia l’effettiva consistenza, non è comunque causa, ex se, di illegittimità dell’atto impositivo.

2. Con il secondo motivo di ricorso la contribuente denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e/p omessa motivazione su fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; omessa motivazione e violazione di legge in relazione all’eccepita nullità dell’accertamento per violazione dello Statuto del contribuente”.

Premessa tale rubrica, il corpo del motivo si sostanzia nella pedissequa riproduzione, per quattro pagine, di un paragrafo del ricorso di primo grado, seguita dalla conclusione che, riproposta l‘”eccezione” in appello, la CTR “ha omesso di esaminare la circostanza, concludendo semplicemente che” (segue trascrizione della motivazione del rigetto da parte della CTR)” e che ” l’omessa valutazione della questione-perché di tale si tratta- inficia tutta la sentenza”.

Il motivo è inammissibile per plurime ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.

Infatti è inammissibile la contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 5 e (come deve ritenersi in base al riferimento all’omessa “valutazione” dell'”eccezione”) n. 4, atteso che la lettura non solo della rubrica, ma dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (cfr. Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati e separabili la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie, i profili attinenti alla ricostruzione del fatto e pretesi errori in procedendo (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).

Invero, in tema di ricorso per cassazione, l’inammissibilità della censura per sovrapposizione di motivi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. 09/12/2021, n. 39169, ex plurimis). Ma, come già evidenziato, tale ipotesi non ricorre nel caso di specie.

Pertanto, i distinti motivi di ricorso, già cumulati formalmente nella rubrica del primo motivo di ricorso, risultano, anche nel contenuto di quest’ultimo, censure non ontologicamente distinte dalla stessa ricorrente e quindi non autonomamente individuabili, se non ipotizzando un inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.

Ulteriore profilo di inammissibilità del mezzo deriva dalla circostanza che, nella sostanza, il nucleo delle plurime indistinte censure si esaurisce nella riproduzione integrale di un lungo paragrafo del ricorso introduttivo di primo grado e nel mero richiamo astratto ai motivi d’appello, limitandosi pertanto la parte a riproporre le tesi difensive svolte nel merito e dando luogo ad una mera contrapposizione della sua valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata sostanza, che non integra la proposizione di uno dei motivi tassativi per i quali si può ricorrere in sede di legittimità (cfr. Cass. 24/09/2018, n. 22478).

Del tutto generica, poi, è l’individuazione dell'”eccezione” (al singolare) della contribuente sulla quale sarebbero concentrati i vizi in questione. Infatti l’ampiezza e la generalità del paragrafo del ricorso introduttivo trascritto, esteso ai principi generali dello statuto del contribuente, non consente di ricondurre univocamente la censura ad una specifica violazione che sia stata denunciata.

Inoltre, inammissibile è la denuncia del preteso vizio di “omessa motivazione su fatto decisivo”, sia perché tale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è applicabile al caso di specie ratione temporis, vista la data di deposito della sentenza impugnata (con conseguente applicabilità della novella di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134); sia perché non è individuato il “fatto”, da intendersi in senso storico-naturalistico (Cass. 06/09/2019, n. 22397), al quale la censura si riferisca, non potendo esso coincidere con le argomentazioni difensive o con l’eccezione”, che non può essere qualificata come una “circostanza”, come invece si legge nel ricorso.

Resta infine da evidenziare la contraddittorietà interna del motivo, non solo perché l’omessa pronuncia non può essere logicamente conciliabile con la violazione di legge, ma anche perché la stessa ricorrente contemporaneamente lamenta che l'”eccezione” non sarebbe stata esaminata dalla CTR, che tuttavia l’avrebbe decisa giungendo ad una conclusione, la quale sarebbe stata “ben altra” se il giudice d’appello avesse “correttamente” esaminato la questione. La tassatività dei motivi del ricorso per cassazione non è compatibile con tale ambiguità insanabile del mezzo sub iudice.

3. Con il terzo motivo di ricorso la contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, vigente ratione temporis, il quale dispone che ” Qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione

alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti.”. Il motivo è fondato.

Infatti, “In tema di accertamento dei redditi con metodo sintetico, costituiscono “spesa per incrementi patrimoniali”, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, anche i finanziamenti soci e tutte le altre forme di capitalizzazione, ove comportino un esborso effettuato a tale scopo da parte del contribuente.” (Cass. 24/07/2018, n. 19613).

Tanto premesso, secondo questa Corte, ” In tema di accertamento con metodo cd. sintetico, è legittima l’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5 (nel testo antecedente alla modifica apportata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, conv. in L. n. 122 del 2010) il quale reca una presunzione “iuris tantum” di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’Ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai cinque anni precedenti, in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.” (Cass. 06/02/2019, n. 3403).

Ha quindi errato la CTR che, a fronte di esborsi per conferimenti che, per quanto interessa l’anno d’imposta sub iudice, ha collocato cronologicamente nel 2003, ha ritenuto di non applicare, peraltro integralmente, la norma in questione sulla base di considerazioni (relative all’entità dei redditi dichiarati negli anni 2000 e 2001) che esulano dalla predetta norma e dall’interpretazione, in termini di presunzione legale relativa favorevole al contribuente, che ne ha dato la giurisprudenza di legittimità.

Inoltre la CTR pare aver confuso i due termini cronologici ai quali si riferisce la norma, ovvero l’anno in cui è stata effettuata la spesa e gli anni (lo stesso della spesa ed i cinque precedenti), nei quali si presume conseguito, per quote costanti, il reddito per affrontarla.

Non risulta inoltre comprensibile la ragione per la quale considerazioni relative a due degli anni precedenti dovrebbero precludere l’applicazione della presunzione con riferimento anche agli altri cui la norma si riferisce.

Nella sostanza, la CTR, come da motivazione sul punto, pare aver ritenuto a priori “non applicabile” la disposizione in questione al caso di specie, con la conseguenza che la sentenza impugnata va cassata, con rinvio al giudice a quo per i necessari accertamenti in fatto e per l’applicazione dei principi evidenziati.

4. Con il quarto motivo di ricorso la contribuente denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; violazione e/o falsa applicazione delle regole sulla presunzione e sull’onere della prova e violazione e/o falsa applicazione della normativa sull’accertamento e in particolare del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 e/o violazione dell’art. 2,97 e 53 Cost. e del TUIRD.P.R. n. 917 del 1986, art. 163″.

Il motivo è redatto sostanzialmente secondo la medesima modalità di cui al secondo, tuttavia dalla lettura del corpo dello stesso, ed in particolare dalla sua sintesi finale, è possibile estrarre, secondo i criteri già indicati al punto 2, la denuncia univoca di una pretesa violazione di legge, consistente nell’asserito divieto della doppia imposizione.

Secondo la contribuente, infatti, nell’avviso d’accertamento emesso nei confronti della Publipark s.r.l. i finanziamenti infruttiferi erogati dai soci, tra cui la stessa R., erano stati considerati dall’Amministrazione fittizi, in quanto strumenti utilizzati dalla società per eliminare contabilmente il debito nei confronti del fornitore con il quale la stessa s.r.l. aveva concluso operazioni ritenute dall’Ufficio inesistenti, con conseguente recupero a tassazione del maggior imponibile societario. Poiché gli stessi finanziamenti erano stati invece posti a fondamento dell’accertamento emesso nei confronti della socia e qui sub iudice, vi sarebbe stata doppia imposizione, in violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 163, per il quale ” La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi.”.

Il motivo è infondato.

Deve, innanzitutto, rilevarsi che dal ricorso non è dato evincere con la necessaria specificità la fonte documentale dalla quale sarebbe ricavabile la totale coincidenza oggettiva dei movimenti di denaro, provenienti dalla ricorrente e diretti alla predetta s.r.l., rispettivamente considerati nei due atti impositivi.

In ogni caso, deve comunque considerarsi che, nella stessa ricostruzione prospettata dalla ricorrente, i predetti “finanziamenti” o “conferimenti”, come vengono alternativamente definiti, non costituiscono, in nessuno dei due casi, il “presupposto” delle imposte applicate, ma solo elementi indiziari.

Infatti, nei confronti della s.r.l., il maggior imponibile sarebbe stato determinato, secondo la stessa ricorrente, dall’inesistenza di operazioni d’acquisto concluse dalla società con terzi, in quanto “gonfiate o fittizie”, con ogni conseguenza in termini di deducibilità e di detraibilità dei relativi costi, rispetto al reddito d’impresa societario, al volume della produzione ed all’imposta sul valore aggiunto. Nei confronti della ricorrente, il maggior reddito (non di partecipazione, ma) accertato sinteticamente deriva da una maggiore capacità contributiva personale, della quale le spese e gli incrementi patrimoniali (compresi, ma non solo, i versamenti in questione) sono indici sintomatici, con conseguente maggior imponibile Irpef.

Tra le due fattispecie impositive vi è quindi differenza di soggetti passivi, di imposte e di presupposti d’imposizione. Non ricorrono pertanto i presupposti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163, in quanto ” In tema di imposte sui redditi, la doppia imposizione si verifica soltanto nell’ipotesi di due avvisi di accertamento che assoggettino a tassazione il medesimo presupposto, non quando l’imposta venga chiesta in pagamento a fronte di due diversi titoli a due soggetti diversi.” (Cass. 30/10/2018, n. 27625).

Non ha quindi errato la CTR nel rigettare il relativo motivo d’appello, con motivazione che, per quanto sintetica, applica i predetti principi.

5. Con il quinto motivo di ricorso la contribuente denuncia “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e/o omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n 5; violazione e/o falsa applicazione delle regole sulla presunzione e sull’onere della prova e violazione e/o falsa applicazione della normativa sull’accertamento e in particolare del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38. Omessa motivazione in relazione alla prova e all’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38”.

Il motivo è inammissibile per plurime ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.

Infatti, come già rilevato a proposito del secondo motivo (alla cui

trattazione si rimanda per i relativi richiami giurisprudenziali), è inammissibile la contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, n. 5 e (come deve ritenersi in base al riferimento all’omessa “pronuncia”) n. 4, poiché l’intero corpo del mezzo evidenzia una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che comporta l’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili, non consentendo di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, onde consentirne l’esame separato.

Giova peraltro aggiungere che comunque il coacervo del motivo evidenzia la finalità, che lo rende ulteriormente inammissibile, di attingere il merito della controversia, ovvero la valutazione del materiale istruttorio effettuata dalla CTR, in ordine alla prova, da parte dell’Amministrazione, della sussistenza di elementi (i cospicui prestiti infruttiferi effettuati dalla ricorrente, a fronte di redditi dichiarati di gran lunga inferiori) che dimostravano la divergenza tra il reddito dichiarato e quello determinato in via presuntiva; nonché riguardo alla prova contraria, della quale era onerata di conseguenza la contribuente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, che i relativi esborsi fossero stati in realtà finanziati mediante redditi legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile (cfr. Cass. 08/03/2019, n. 6770, ex plurimis).

Premesso quindi che la CTR ha distribuito l’onere della prova secondo il predetto criterio, va ricordato che ” In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (Cass. 23/10/2018, n. 26769).

Inoltre è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione (Cass. 17/01/2019, n. 1234).

Il mezzo è poi ulteriormente inammissibile perché, denunciando l'”omessa motivazione”, si riferisce ad un vizio non compreso nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile al caso di specie ratione temporis, come già rilevato.

Infine, i due unici documenti indicati specificamente nel corpo del mezzo dalla contribuente a sostegno delle proprie difese evidenziano l’ulteriore inammissibilità del motivo.

Per quanto riguarda infatti la restituzione del prestito infruttifero, che la contribuente avrebbe ricevuto dalla Magic s.r.l., la CTR ha rilevato che “non vi è traccia di documenti della ditta Magic”, cosicché la contribuente avrebbe dovuto eventualmente proporre revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per contraddire tale assunto, in quanto ” Il vizio di omesso esame di un documento decisivo non è deducibile in cassazione se il giudice di merito ha accertato che quel documento non è stato prodotto in giudizio, non essendo configurabile un difetto di attività del giudice circa l’efficacia determinante, ai fini della decisione della causa, di un documento non portato alla cognizione del giudice stesso. Se la parte assume, invece, che il giudice abbia errato nel ritenere non prodotto in giudizio il documento decisivo, può far valere tale preteso errore soltanto in sede di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, sempre che ne ricorrano le condizioni.” (Cass. 11/06/2018, n. 15043). Rispetto poi al prestito che la contribuente avrebbe ricevuto dal terzo M., il quale avrebbe effettuato direttamente alla predetta s.r.l. l’importo di Euro 4.5000,00 si tratta di fatto collocato dalla stessa ricorrente in un’annualità (2002) diversa da quella del 2003, qui sub iudice, quindi non decisivo al fine, pur dichiarato espressamente nel mezzo, di dimostrare che le somme erogate dalla contribuente alla Publipark s.r.l. nel corso del 2003 non avrebbero natura reddituale.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il quarto e dichiara inammissibili il secondo ed il quinto;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Calabria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

 

 

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