Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7577 del 17/03/2021

Cassazione civile sez. II, 17/03/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 17/03/2021), n.7577

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22216-2019 proposto da:

O.A., rappresentato e difeso dall’avvocato MAURIZIO

SOTTILE, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1251/2019, della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 12/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/11/2020 dal Consigliere GRASSO GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Bologna confermò la decisione della competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, con la quale era stata disattesa la domanda di protezione internazionale avanzata da O.A. e la Corte d’appello della stessa città rigettò l’impugnazione del richiedente;

ritenuto che quest’ultimo ricorre sulla base di tre motivi avverso la statuizione d’appello e che il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

ritenuto che con il primo e il secondo motivo, tra loro correlati, il ricorrente lamenta “violazione ex art. 360, n. 3 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,4,5,6,8,10,13 e 27, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e art. 2 e 3 CEDU, art. 16 della direttiva Europea n. 2013/32 UE oltre al difetto di motivazione, travisamento dei fatti e omesso esame dei fatti decisivi”, nonchè ancora “violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, – omessa valutazione di fatti decisivi”, assumendo, in sintesi, che il Giudice non aveva applicato il principio dell’onere della prova attenuato, nè valutato le dichiarazioni del ricorrente, in presenza di fatti narrati linearmente, che la Corte locale aveva interpretato erroneamente e prescindendo dalla situazione socio-politica della Nigeria; la decisione non aveva esaminato il fatto decisivo costituito dal danno grave derivante dalla situazione di violenza indiscriminata del Paese d’origine; non aveva ulteriormente approfondito i profili della narrazione, che non avrebbe potuto essere considerato contraddittorio; non aveva considerato l’integrazione raggiunta in Italia attraverso il lavoro;

considerato che il complesso censuratorio è inammissibile, valendo quanto segue:

a) il ricorrente ha raccontato di essere fuggito a seguito dell’attentato alla stazione degli autobus di Abuja, nel quale aveva perso la vita la di lui madre e di aver poi subito un sequestro di persona in Libia, rocambolescamente risoltosi; la Corte d’appello, con valutazione di merito in questa sede incensurabile, ha escluso in radice l’attendibilità del narrato, privo di appigli di attendibilità e gravemente contraddittorio (l’attentato, in effetti verificatosi, era evento ben noto per l’eco di stampa conseguenziale, ma il ricorrnte, che una tale notizia avrebbe potuto agevolmente conoscere, non fornisce elemnti utili ad affermare che, in effetti, vi resto coinvolta la madre, senza contare che la fuga repentina sarebbe avvenuta senza ancora consocere le sorti della genitrice, che ancora l’esponente non sapeva fosse morta; di poi, il deescritto sequstro di persona patito in Libia, per plurimi aspetti apapriva di pura fantasia); ciò solo fa escludere la ricorrenza di un dovere d’ulteriore approfondimento istruttorio sulla vicenda (senza contare che la narrazione, proprio a cagione della sua flagrante vacuità e irrisolvibile contraddittorietà non avrebbe comunque permesso attingimento di conferme di sorta) e il ricorrente, piuttosto che contrappore evidenze processuali tali da smentire le conclusioni della Corte d’appello, si limita a riportare i principi della materia e a insistere nella propria versione;

b) piuttosto palesemente le critiche sono rivolte al controllo motivazionale, in spregio al contenuto del vigente l’art. 360 c.p.c., n. 5, difatti, invece che porre in rilievo l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo o l’assenza di giustificazione argomentativa della decisione, con le stesse la ricorrente, contrappone al ragionato esame della Corte il proprio avverso convincimento;

c) quanto alla situazione in Nigeria la decisione ha preso in esame COI aggiornate, dalle quali è dato escludere la sussistenza di quella situazione di violenza diffusa e incontrollata evocata dal ricorrente; in definitiva risulta evidenziata una condizione di sottosviluppo e d’instabilità del Paese, diffusa, peraltro, purtroppo in molte regioni del mondo, ma non la situazione di particolare criticità dalla quale può conseguire il diritto alla protezione sussidiaria;

e) il Giudice del merito, quindi, ha deciso applicando il principio enunciato da questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

considerato che il terzo motivo, con il quale si deduce violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5, comma 6 e 19, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi in riferimento alla integrazione socio-lavorativa in Italia, è inammissibile, essendo diretto a un improprio riesame di merito della decisione, la quale ha evidenziato la mancata provadi una tale integrazione, in uno alla situazione del Paese di provenienza, vulnerabilità, nel mentre la documentazione prodotta in questa sede, al fine di dimostrare svolgimento di attività lavorativa, deve essere dichiarato inammissibile, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di cui all’art. 372 c.p.c.;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che il soccombente ricorrente deve essere condannata al rimborso delle spese in favore del costituito Ministero nella misura di cui in dispositivo, tenuto conto della qualità della causa, del suo valore e delle attività svolte;

considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese legali in favore del Ministero controricorrente, che liquida in Euro 2.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese anticipate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, (inserito dalla L. n. 228 del 2012), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2021

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