Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7575 del 27/03/2020

Cassazione civile sez. III, 27/03/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 27/03/2020), n.7575

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31361-2018 proposto da:

CURATELA DEL FALLIMENTO (OMISSIS) SRL in persona dei curatori,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORAZIO 3, presso lo studio

dell’avvocato VITO BELLINI, rappresentata e difesa dall’avvocato

ENZO PAOLINI;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI COSENZA, in persona del Direttore

Generale in carica e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TIZIANO, 3, presso lo

studio dell’avvocato GIOVANNI DORIA, rappresentata e difesa

dall’avvocato GIAMPAOLO RAIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 614/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 31/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/12/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI.

Fatto

RILEVATO

che:

Il Tribunale di Paola, con sentenza del 5 gennaio 2016, accoglieva l’opposizione proposta dalla Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza avverso decreto ingiuntivo che le aveva ordinato di pagare la somma di Euro 10.342.905,50 a Casa di Cura (OMISSIS) S.r.l. quale differenza tra quanto da quest’ultima ricevuto e quanto le sarebbe spettato per le prestazioni di assistenza ospedaliera fornite nel 1995, differenza che sarebbe derivata da un giudicato amministrativo – maturatosi in forza di decreto di perenzione emesso dal Consiglio di Stato il 22 giugno 2006 – di annullamento di delibere della regione Calabria che avevano decurtato le tariffe ministeriali. L’opposizione veniva accolta per decorso della prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 c.c., n. 4.

Casa di Cura (OMISSIS) S.r.l. proponeva appello, cui resisteva controparte, e che la Corte d’appello di Catanzaro rigettava con sentenza del 31 marzo 2018.

Il Fallimento di Casa di Cura (OMISSIS) S.r.l. ha proposto ricorso, da cui si è difesa con controricorso l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. La parte ricorrente ha depositato anche memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso è fondato su un unico motivo, denunciante violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362 ss. e 2946 c.c. e art. 2948 c.c., n. 4, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dà atto che il giudice d’appello (come già il giudice di prime cure) ha ritenuto applicabile alla fattispecie la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., anzichè quella decennale di cui all’art. 2946 c.c., e si lamenta che ciò sarebbe avvenuto perchè il giudice “ha erroneamente qualificato” il rapporto di cui è causa “come rapporto di durata, avente ad oggetto prestazioni periodiche”. Quindi il giudice sarebbe incorso in una violazione o falsa applicazione dei criteri di ermeneutica contrattuale, da cui sarebbe conseguita l’applicazione erronea della normativa prescrizionale.

La qualificazione del rapporto come rapporto di durata discenderebbe, anzitutto, dal fatto che esso deriva da una convenzione stipulata il 22 maggio 1979 tra la regione Calabria e la casa cura, convenzione che avrebbe avuto validità fino al 1995 e sarebbe stata poi applicata anche per il biennio 1995-1996, in forza della L. n. 724 del 1994, art. 6. Tale “interpretazione del rapporto tra strutture private (prima convenzionate e poi accreditate) e P.A.” sarebbe errata. Richiamata la vicenda del passaggio dal regime di convenzionamento in quello di accreditamento, e in particolare l’interpretazione della L. n. 724 del 1994, appena citato art. 6 effettuata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 416/1995 nel senso che l’accreditamento provvisorio avvenisse automaticamente “come forma di conversione del rapporto in atto, ma sempre a seguito di procedimento regionale comportante ricognizione e verifica” e previa accettazione del nuovo sistema di remunerazione in base a tariffe, il motivo adduce che la regione Calabria, attuando tale norma, aveva accreditato la casa di cura, la quale a sua volta aveva accettato il nuovo sistema di remunerazione in base a tariffe: “La convenzione stipulata nel 1979 era destinata pertanto a regolare i rapporti tra le parti”. Il fatto, poi, che questa convenzione, nonostante fosse risalente nel tempo, “avesse avuto efficacia sino al 1995 e fosse destinata a regolare i rapporti tra le parti anche per quell’anno” non potrebbe rendere il rapporto da essa nascente un rapporto di durata, “per come erroneamente ritiene il giudice di merito” confondendo “il periodo temporale di efficacia della convenzione in cui questa era destinata a produrre i suoi effetti con la natura del rapporto nascente dalla suddetta convenzione”.

La corte territoriale avrebbe ritenuto trattarsi di un rapporto di durata “in quanto la convenzione era destinata a regolare nel tempo i rapporti tra le parti”, e ciò anche per l’anno 1995, per una espressa norma di legge. Invece “l’efficacia temporale di un contratto che indica il contesto temporale in cui il contratto è destinato a produrre i suoi effetti è nozione indistinta rispetto alla natura periodica del rapporto che nasce dal contratto. La durata non attiene al negozio come fonte del rapporto ma al rapporto come effetto del negozio”. Quindi l’applicazione ripetuta nel tempo dello stesso regolamento negoziale non sarebbe sufficiente a giustificare la disciplina delle obbligazioni di durata, inclusa quella prescrizionale, se nel regolamento negoziale non si riscontrano elementi concreti che valgano a qualificare il rapporto come di durata. E questa indagine deve avvenire secondo gli artt. 1362 ss. c.c..

il giudice d’appello, allora, avrebbe interpretato la convenzione “in termini non conformi ai principi di ermeneutica contrattuale”. Il motivo invoca gli artt. 1362 e 1363 c.c. per sostenere che “già sotto tale aspetto emerge l’erroneità dell’esegesi” effettuata dalla corte territoriale, che si sarebbe basata soltanto su una singola clausola, “astratta dal resto delle altre clausole della convenzione”: la corte territoriale, in effetti, avrebbe affermato “la natura del rapporto per cui è causa come rapporto di durata, muovendo dalla sola previsione relativa alla liquidazione delle competenze… contenuta nell’art. 9 della Convenzione”, senza tener conto del “resto della convenzione medesima”. Viene riportata un’argomentazione svolta dalla corte territoriale per esternare l’interpretazione della natura della convenzione (ricorso, pagine 18-19), ribadendo che non ha tenuto conto “del tenore complessivo della convenzione”, nutrendosi solo dell’art. 9 e pertanto violando o comunque incorrendo in erronea interpretazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. A ciò segue un riassunto del contenuto degli artt. 1 e 6 della convenzione, per giungere a trarne un preteso contrasto con l’interpretazione dell’art. 9 effettuata dal giudice d’appello. Si argomenta in seguito sul concetto di rapporto di durata, richiamando altresì giurisprudenza di questa Suprema Corte in ordine alla prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c., n. 4, e in particolare asserendo che, “laddove il corrispettivo sia solo apparentemente periodico, nel senso che consiste in una prestazione unitaria, pur eseguibile nel tempo in modo frazionato, il termine di prescrizione è quello decennale”. Tutto ciò renderebbe “ancora più evidente come la convenzione destinata a regolare il rapporto per cui è causa non possa configurarsi come contratto avente ad oggetto prestazioni periodiche”. Si prosegue ulteriormente argomentando sulla convenzione stessa, incluso l’interesse della regione o della azienda sanitaria, che non sarebbe stato “soddisfatto attraverso l’erogazione periodica o continuativa delle prestazioni, ma semplicemente attraverso l’erogazione delle prestazioni ogni qualvolta l’utenza ne faccia richiesta”. Dunque la natura periodica non sarebbe compatibile con la variabilità delle “richieste dei pazienti”.

Si ritorna, a questo punto, a negare che il giudice d’appello abbia applicato correttamente i criteri che devono governare l’interpretazione del contratto, sottolineando la necessità di ricercare la ratio di quest’ultimo, la sua “ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare”, perseguendo una conferma pure nella riforma del sistema sanitario nonchè nell’invocazione di giurisprudenza di merito.

2. L’ampia descrizione del motivo che si è fin qui svolta dimostra, ictu oculi, che, pur tentando di strutturarsi sul richiamo alle norme ermeneutiche, esso non riesce a svincolarsi, nella sua gran parte, da una sostanza di merito, in quanto cerca di offrire una valutazione della natura del contratto/convenzione, così come concretamente conformata dalle parti in tutela delle rispettive esigenze e dei rispettivi interessi, alternativa a quella adottata dal giudice d’appello. Non è, quindi, una violazione di legge quel che maggiormente il motivo riesce a veicolare, bensì, appunto, un’alternativa – rispetto a quella della sentenza impugnata – interpretazione del contenuto della convenzione di cui si tratta, come presupposto, si ripete fattuale, all’applicazione della prescrizione decennale, così da sostituire la interpretazione, parimenti fattuale, che ha condotto la corte territoriale ad applicare la prescrizione quinquennale.

3. Peraltro, quanto effettivamente attiene alla denuncia, come rubricata, di violazione dei canoni ermeneutici dettate dagli artt. 1362 ss. c.c. non ha consistenza. Infatti non si può non rilevare che il riferimento all’art. 9 della convenzione dal giudice d’appello viene inserito in un affresco complessivo della volontà delle parti e quindi nella identificazione della ratio sinallagmatica da esse imposta al negozio, così da effettuare una ricostruzione per nulla divergente dai dettami delle norme ermeneutiche del codice civile.

La Corte d’appello, invero, senza violarle disattende il secondo motivo del gravame per cui l’art. 2948 c.c., n. 4 “si applicava unicamente ai crediti da pagarsi con cadenza annuale o infra annuale afferenti a rapporti di durata e non a quello dedotto in giudizio, nel quale il corrispettivo contrattuale era costituito da una prestazione unitaria, sebbene eseguibile frazionatamente nel tempo, per cui il termine di prescrizione era quello decennale” considerato che “non necessariamente” l’attuale ricorrente “erogava mensilmente le prestazioni sanitarie, poichè ciò dipendeva dalla domanda dell’utenza, per cui il corrispettivo non era ancorato alla

durata del rapporto nè al semplice decorso del tempo” (cfr. motivazione della sentenza impugnata, pagina 4). Confutazione svolta accuratamente nelle pagine 6-8 della motivazione, tutt’altro che strutturata con estrapolazioni artificiose, decontestualizzazioni e pretermissioni, bensì diretta a individuare la volontà delle parti in modo conforme alle regole ermeneutiche.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo. Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art., comma 1 bis.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 16.000, oltre a Euro 200 per gli esborsi, al 15% per spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2020

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