Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7565 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. VI, 08/03/2022, (ud. 28/01/2022, dep. 08/03/2022), n.7565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.W., elettivamente domiciliato in Lecce, via Carlo Urbani n.

3, presso lo studio dell’avv. Daniela De Lorenzis (p.e.c.

delorenzis.daniela.ordavvle.it) che lo rappresenta e difende per

procura speciale in calce al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

nei confronti di:

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Lecce emesso in data 13 maggio

2021, R.G. n. 5744/2020;

sentita la relazione in Camera di Consiglio del relatore cons.

IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008 ex art. 35-bis, A.W., cittadino Pakistano, ha adito il Tribunale di Lecce impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, e di protezione umanitaria. Nel richiedere la protezione internazionale il ricorrente dichiarava di essere scappato dal proprio paese nel 2016 per problemi economici, poiché il padre, lavorando come agricoltore, veniva sfruttato dai propri datori di lavoro, mentre lui aveva iniziato a lavorare con il padre già fin da bambino. Aggiungeva, inoltre, di temere, in caso di rimpatrio, di essere rintracciato dalle stesse persone e di essere costretto a lavorare per tutta la vita per ripagare un debito contratto dal padre a casa sua.

Il Tribunale di Lecce con decreto del 2018 non riconosceva al ricorrente alcuna forma di protezione.

Questa Corte, con ordinanza n. 6879/20, accoglieva il ricorso presentato dal medesimo richiedente avverso il decreto di rigetto. Questa Corte, nella citata ordinanza, ha riconosciuto che “Il tribunale ha quindi violato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c, atteso che non ha valutato adeguatamente la situazione individuale e le circostanze personali del richiedente, “in particolare, la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave”. Ha altresì disatteso il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, considerato che il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzione o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi”.

Il Tribunale, all’esito del giudizio di rinvio, ha nuovamente ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione. In particolare, il Tribunale, dopo aver riportato numerose informazioni attestanti il fenomeno del debt bondage (o lavoro vincolato) in Pakistan (peshgi), ha ritenuto che il caso di specie non fosse sussumibile nell’ipotesi di status di rifugiato. Difatti, a parere del Tribunale “il richiedente, dopo aver rappresentato di aver prestato attività lavorativa in qualità di agricoltore al fianco del padre, ha lasciato il lavoro ed il suo Paese senza particolari difficoltà, tanto che ha dichiarato espressamente, in sede di audizione dinanzi alla Commissione, di non temere di subire alcuna persecuzione o pregiudizio nel caso di rientro, bensì di avere paura, meramente, di non avere i mezzi economici per aiutare i suoi familiari al di là della propria forza lavoro, essendo il fratello minore troppo giovane per lavorare – a dire delle sue sorelle – ed il padre ormai anziano”. Il Tribunale ha del pari escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), in considerazione del fatto che tutto il racconto sarebbe basato sull’abbandono del paese per motivi economici e che la minaccia di morte proverrebbe da un ente non statuale, laddove il ricorrente non avrebbe fornito alcun elemento da cui desumere l’incapacità o la non volontà delle autorità locali di offrire protezione. Ancora, il Tribunale ha escluso che il Pakistan presentasse una situazione di violenza generalizzata, basandosi sulle specifiche COI acquisite d’ufficio. Infine, il Tribunale ha escluso la sussistenza dei presupporti per il riconoscimento della protezione umanitaria ritenendo insussistenti situazioni legate alla violazione dei diritti fondamentali, avendo il ricorrente dichiarato di aver cambiato lavoro rispetta al padre, divenendo taxista, e pertanto non sussistente una situazione di sfruttamento lavorativo. Inoltre il ricorrente non avrebbe prodotto documentazione lavorativa ulteriore rispetto alla “situazione già valutata in sede di merito” e non potendo, ad ogni modo, l’integrazione lavorativa costituire unico parametro sulla base del quale riconoscere la protezione umanitaria, occorrendo compiere un giudizio di comparazione: nella specie, il richiedente ha conservato legami con i familiari che vivono tutti nel paese di origine e può ricollocarsi nel mondo del lavoro (avendo egli dichiarato di avere lavorato in passato come agricoltore e taxista).

Avverso il predetto decreto, emesso il 13/5/2021 e notificato il 20/5/2021 (manca in atti relata di comunicazione o notifica) A.W. ha proposto ricorso per tre 3 motivi. L’intimata Amministrazione non svolge difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: “1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2 – Violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5; 2) Violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 1 e art. 8 – Violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, in rapporto alla violazione, omessa/falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 – tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; 3) Violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; mancata valutazione dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

2. Con il primo motivo di ricorso si censura il provvedimento impugnato per non essersi il Tribunale, nel giudizio di rinvio, attenuto ai principi di diritto, né ai presupposti di fatto, enunciati dalla Corte di legittimità. In particolare il Tribunale avrebbe omesso di valutare la condizione di “sfruttamento da parte dei datori di lavoro, la costrizione ad abbandonare la scuola in tenera età nonostante l’opposizione del genitore, la costrizione personale del richiedente a lavorare nelle medesime condizioni del padre per ripagare un debito da questi contratto”, malgrado le dichiarazioni del ricorrente fossero coerenti con le fonti analizzate dallo stesso Tribunale. A parere del ricorrente, il Tribunale avrebbe dovuto far corretta applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, che definisce atti persecutori, tra gli altri, quelli diretti contro l’infanzia, in considerazione della costrizione da lui subita ad abbandonare gli studi a nove anni per aiutare il padre. Inoltre, le persecuzioni precedentemente subite dal ricorrente (lavoro forzato in età minorile, sfruttamento della condizione di povertà e di ignoranza del ricorrente e l’impossibilità di ricorrere a tutele giuridiche) avrebbero dovuto costituire un serio indizio della fondatezza del timore del ricorrente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi.

Con la prima parte del secondo motivo di ricorso, logicamente connesso al primo, il ricorrente lamenta che il Tribunale non avrebbe debitamente tenuto conto dei principi espressi dalla Suprema Corte neppure con riferimento alla verifica della sussistenza dei presupposti di cui alla lettera a) e b), ai fini della protezione sussidiaria, anche in considerazione del fatto che lo stesso Tribunale, nel decreto impugnato, riportava fonti di informazioni attestanti l’incapacità delle autorità di fornire un’effettiva protezione nelle ipotesi di schiavitù per debiti. Inoltre, non sarebbe ricaduto in capo al ricorrente l’onere della prova circa la mancata possibilità di ottenere protezione dalle autorità, prevedendo la normativa un generale dovere di cooperazione tra il richiedente e l’autorità procedente.

Con il terzo motivo di ricorso, ci si duole poi della mancata valutazione degli elementi addotti dal ricorrente, ovverosia la privazione del diritto allo studio e il più generale vincolo fisico e psicologico cui erano soggetti il ricorrente e suo padre rispetto al datore di lavoro, quali profili di vulnerabilità tali da consentire il riconoscimento della protezione umanitaria. Del pari, la doglianza in esame mira a sottolineare come un eventuale rimpatrio del ricorrente durante l’attuale epidemia da covid-19 costituisca una violazione dei diritti umanitari sanciti a livello Europeo.

3. Il primo motivo di ricorso è fondato sotto il profilo della violazione del principio di diritto, ex art. 384 c.p.c., comma 2, e del vizio motivazionale pure dedotto.

Esso è esaminabile assieme alla prima doglianza contenuta nel secondo mezzo e a quella contenuta nel terzo mezzo di ricorso.

Questa Corte, nell’ordinanza n. 6879/2020, ha accolto il primo motivo di ricorso, contenente violazione di legge in merito al diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, rilevando che l’assunto del Tribunale, in ordine al fatto che il narrato non integrava atti persecutori per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, era errato, avendo il giudice di merito trascurato di considerare “l’esatta portata delle dichiarazioni del richiedente”, il quale aveva “narrato una storia concernente la riduzione in schiavitù, essendo stato privato del diritto allo studio e costretto sin da giovane età a lavorare nel terreno, dove lavorava il padre”, con conseguente violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. c, stante la mancata adeguata valutazione della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, nonché del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, considerato che il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzione o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi.

Ora, come chiarito da questa Corte (da utimo Cass. 448/2020) “I limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua “potestas iudicandi”, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione “ex novo” dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità.”

Nella specie, si verteva nella prima ipotesi e quindi il giudice di rinvio era tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo. In ipotesi di annullamento con rinvio per violazione di norme di diritto, la pronuncia della Corte di cassazione vincola, infatti, al principio affermato e ai relativi presupposti di fatto, onde il giudice del rinvio “deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata, ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza, in contrasto col principio di intangibilità” (Cass. 20887/2018). Ora il decreto del Tribunale, emesso a seguito di giudizio di rinvio, risulta invece deliberato e motivato in violazione del principio di diritto e del contraddittorio, sotto diversi profili. Il Tribunale ha ritenuto che non apparisse “ventilata alcuna paura di essere “ridotto in schiavitù”, in caso di rientro, da parte di autorità statuali o meno, ma solo la consapevolezza di avere problemi di natura economica”.

Innanzitutto, le conclusioni assunte risultano in contrasto con le informazioni reperite dallo stesso Tribunale in merito al fenomeno della schiavitù per debiti in Pakistan. Difatti, il Tribunale ha escluso l’esistenza di presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato sull’assunto che il ricorrente non avrebbe manifestato, dinnanzi alla Commissione, alcun timore in caso di rientro, se non quello prettamente legato alle difficoltà economiche. Tuttavia, il decreto, nel riportare le dichiarazioni del ricorrente (vedasi p. 2 del decreto impugnato), menziona proprio come il ricorrente avesse dichiarato “di avere timore, in caso di rimpatrio, di essere rintracciato dalle stesse persone e di essere costretto a lavorare per tutta la vita per ripagare un debito contratto dal padre a causa sua”. Inoltre, il ricorso, riporta ulteriori dichiarazioni del ricorrente circa i personali timori in caso di rimpatrio, chiarendo come nel verbale di audizione fosse riportato quanto segue: “mio padre ha sempre lavorato per loro e hanno sempre pagato tanti soldi giusto per mangiare, non abbiamo la casa nostra, volevano che lavorassi per loro tutta la vita come mio padre” (vedasi p. 6 del ricorso in cassazione) e “chiederanno a me essendo il più grande della famiglia (..) mio padre è anziano per lavorare in campagna”, e ancora “dovrò lavorare io per restituire i soldi così come mio padre è stato uno schiavo tutta la sua vita così dovrò fare io” (vedasi p. 8 del ricorso in cassazione).

E questa Corte, nell’ordinanza del 2020, aveva già rilevato che il Tribunale, nella prima pronuncia impugnata, non avesse considerato l’esatta portata delle dichiarazioni del richiedente, il quale aveva narrato una storia concernente una riduzione in schiavitù ed il timore di subire nuove persecuzioni o danni gravi.

3. Le ulteriori doglianze sono assorbite.

4. Per tutto quanto sopra esposto, va accolto il primo motivo, assorbite le restanti, con cassazione con rinvio al

Tribunale di Bari, tenuto conto del pregresso esito del giudizio di rinvio. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbite le restanti censure, cassa il decreto impugnato, con rinvio al Tribunale di Bari, anche in punto di liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

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