Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7564 del 01/04/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 7564 Anno 2014
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: MAROTTA CATERINA

SENTENZA
sul ricorso 26900-2008 proposto da:
ALABISO CARLO C.F. LBSCRL61M01G92A,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA SALARIA 242, presso lo
studio dell’avvocato DE PAOLIS ANTONIO, che lo
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

2014
275

– I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA
SOCIALE C.F. 80078750587, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato

h

in ROMA,

VIA CESARE BECCARIA n.

29 presso

Data pubblicazione: 01/04/2014

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e
difeso dagli avvocati RICCIO ALESSANDRO, LANZETTA
ELISABETTA, giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 29/2008 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 23/01/2014 dal Consigliere Dott. CATERINA
MAROTTA;
udito l’Avvocato CARUSO SEBASTIANO per delega
LANZETTA ELISABETTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

di BRESCIA, depositata il 08/05/2008 R.G.N. 241/2007;

R. Gen. N. 26900/2008
Udienza 23/1/2014
Carlo Alabiso cl I.N.P.S.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di appello, giudice del lavoro, di Brescia, con sentenza n. 29/2008 del
8/5/2008, in riforma della decisione di primo grado del Tribunale di Bergamo,

ad ottenere, sul presupposto di aver svolto dall’1/7/1998 al 31/3/2000, presso il
reparto pensioni, compiti connotati da assoluta autonomia operativa decisionale ed
esecutiva con responsabilità dei risultati, l’accertamento del diritto al superiore
inquadramento (area Cl posizione economica VII) e la condanna dell’Istituto al
pagamento delle corrispondenti differenze economiche. Riteneva la Corte territoriale
che l’Alabiso, inquadrato dal 14 aprile 1989 nella IV qualifica (operatore),
riclassificato, a norma del nuovo c.c.n.l., in area A pos. A2 ed ancora in Area B
posizione Bl, a far data dal 24 settembre 1999, quindi, a seguito di selezione interna,
in Area B posizione B2, a far data dal 29 settembre 1999 ed infine (dall’ l aprile
2000) in Area C posizione Cl, e cioè nella qualifica pretesa, non potesse rivendicare,
per il periodo precedente l’ultimo inquadramento, alcuna differenza retributiva atteso
che, per scelta delle parti contrattuali, a seguito dell’introduzione del lavoro per
processi ed in particolare della sperimentazione organizzativa e dei crescenti compiti
che ne erano scaturiti, al personale di VI qualifica era stata riconosciuta una doppia
indennità – e cioè il salario di professionalità (correlato al percorso di accrescimento
professionale di ogni dipendente rispetto alla qualifica di appartenenza) e l’indennità
ex art. 41 del c.c.n.l. 1995 (collegata a sperimentazione e formazione del personale di
IV e VI livello) – che compensava la maggiore professionalità richiesta rispetto ai
contenuti di ciascuna qualifica ed il cui complessivo ammontare determinava
addirittura il superamento delle differenze tabellari rivendicate. In ogni caso rilevava

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respingeva la domanda proposta da Carlo Alabiso nei confronti dell’I.N.P.S. intesa

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che nessuna prova fosse stata fornita, per il periodo in questione, dello svolgimento
di mansioni tali da rientrare nel profilo professionale reclamato.
Di questa decisione Carlo Alabiso domanda la cassazione con ricorso affidato a

L’I.N.P.S. resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia: “Omessa (apparente),
insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Si
duole della ritenuta insussistenza di differenze retributive nel periodo rivendicato sulla
base del raffronto laddove le differenze tra il trattamento tabellare della VII qualifica
(C1) rivendicata e quelli corrispondenti ai vari livelli di inquadramento emergevano
dallo stesso dato contabile fornito dall’I.N.P.S..
2. Il motivo è sotto vari profili inammissibile.
Innanzitutto si rileva che, essendo stato il motivo formulato in relazione all’art.
360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., ex art. 366 bis cod. proc. civ. (applicabile ratione
temporis

vista la data di deposito dell’impugnata sentenza), per costante

giurisprudenza di questa S.C. si sarebbe dovuto concludere – il che non è avvenuto con un momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, per circoscriverne
puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione
del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. Sez. un. 1°
ottobre 2007, n. 20603; Cass. 25 febbraio 2008, n. 4719; Cass. 30 dicembre 2009, n.
27680). Qualora tale momento di sintesi, omologo al quesito di diritto, manchi, anche
se l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della

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quattro articolati motivi.

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formulata censura, il motivo medesimo, attesa la “ratio” che sottende la disposizione
indicata, associata alle esigenze defiattive del filtro di accesso alla S.C., la quale deve
essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia

del 18/11/2011).
A ciò si aggiunga, quale ulteriore ragione di inammissibilità, che il motivo, in
violazione del principio di autosufficienza, non indica le parti relative ai conteggi
dell’I.N.P.S. dalle quali sarebbe dato riscontare che la misura dell’assegno di garanzia
non superasse le differenze retributive in questione.
3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione
degli artt. 1361 e ss. cod. civ. in relazione alle disposizioni di cui agli artt. 35 e ss. e 41
c.c.n.l. Enti pubblici non economici e 19 c.c.n.l. Enti pubblici non economici 1998
nonché omessa (apparente), insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
decisivo per il giudizio ed ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 56 d.lgs. n.
29/1993 e successive modificazioni”. Si duole del fatto che la Corte territoriale non
abbia tenuto conto della previsione di cui al contratto collettivo decentrato di ente,
valido per il periodo di vigenza del c.c.n.l. 1998-2001, dunque per il periodo per cui è
causa, secondo la quale l’assegno di garanzia sarebbe stato riassorbibile solo entro un
preciso limite percentuale dell’incremento della retribuzione tabellare.
4. Il motivo presenta profili di inammissibilità ed è comunque infondato.
Gli assunti del ricorrente muovono da una interpretazione del contratto collettivo
decentrato di ente, valido per il periodo di vigenza del c.c.n.l. 1998-2001,
asseritamente dimostrativa del fatto che l’assegno di garanzia sarebbe stato corrisposto,

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l’errore commesso dal giudice di merito, è inammissibile (cfr. ex multis Cass. n. 24255

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a decorrere dal 1998, a prescindere da ogni da ogni processo di valorizzazione e non
sarebbe stato riassorbito che per il 70%.
Si osserva, al riguardo, che è inammissibile la denuncia, con ricorso per cassazione,

febbraio 2006, n. 40, della violazione o falsa applicazione del contratto collettivo
decentrato di ente, posto che detta disposizione si riferisce ai soli contratti collettivi
nazionali di lavoro, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle
singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con
le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio
nazionale in ragione dell’amministrazione interessata, hanno una dimensione di
carattere decentrato rispetto al comparto, e per essi non è previsto, a differenza dei
contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui all’art. 47, comma
8, del d.lgs. n. 165 del 2001. Ne consegue che l’interpretazione di tali contratti è
censurabile, in sede di legittimità, soltanto per violazione dei criteri legali di
ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione – cfr. in tal senso Cass. 19
marzo 2010, n. 6748; id. 3 dicembre 2013, n. 27062 -.
Va, poi, osservato che, in materia di interpretazione del contratto, l’accertamento
della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in una
indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, onde la possibilità di
censurare tale accertamento in sede di legittimità, a parte l’ipotesi in cui la motivazione
sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione del percorso logico seguito da
quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, è
limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche, violazione da dedursi,
peraltro, con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il

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ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., come modificato dal d.lgs. 2

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ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poiché, in caso contrario, la critica
alla ricostruzione del contenuto della comune volontà si sostanzia nella proposta di una
interpretazione diversa. In altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in

censuri l’interpretazione del contratto accolta dalla sentenza impugnata, non può
assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad
evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con
relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti
presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (pur implicite)
che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece,
affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati
asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più
congrue (cfr. in termini, Cass. 17 luglio 2007, n. 15890; id. n. 18 aprile 2007, n. 9245;
23 agosto 2006, n. 18375).
Orbene, la sentenza impugnata, valutata con tale criterio, sfugge alle critiche del
ricorrente che, invero, denuncia una falsa applicazione del criterio di interpretazione
letterale del quale, al contrario, la Corte ha fatto corretta applicazione laddove ha
ritenuto che proprio la testuale previsione del riassorbimento quasi integrale della
quota prima riconosciuta “rafforza la tesi sostenuta dall’Istituto ossia che le differenze
fossero proprio destinate a compensare il quid pluris richiesto dalla fase sperimentale
in attesa che all’esito …. l’accrescimento professionale comportasse il formale
riconoscimento della qualifica”. In conseguenza non può certo affermarsi che il
ragionamento della Corte territoriale sia così palesemente inadeguato da far ravvisare
nello stesso una violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale.

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linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove

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Per il resto, il ricorrente si limita a richiamare le regole poste dagli artt. 1361 e SS.
cod. civ. solo per prospettare una diversa (e più favorevole) interpretazione rispetto a
quella adottata dal giudicante, il che non è ammissibile (cfr. anche Cass. 25 febbraio

Per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal
giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicché, quando di
una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che
aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del
fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (si veda, tra le altre, Cass. n. 4178 del 22
febbraio 2007).
5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione
dell’art. 97 della Cost., dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 (già artt. 56 e 57 del d.lgs. n.
29/1993 e successive modificazioni) nonché violazione e falsa applicazione degli artt.
1361 e ss. cod. civ. in relazione alle disposizioni di cui agli artt. 35 e ss. e 41 c.c.n.l.
Enti pubblici non economici e 19 c.c.n.l. Enti pubblici non economici 1998 previsto”.
Si duole del fatto che la Corte territoriale abbia fondato la propria decisione sulla scelta
operata dalle parti contrattuali cui però non poteva certo riconoscersi il potere
organizzativo di adibire i lavoratori all’espletamento di mansioni superiori rispetto a

2004 n. 3772).

quelle di formale inquadramento.
6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia: “Omessa (apparente), insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio”. Si duole della
valutazione delle risultanze istruttorie evidenziando che non era stata attribuita alcuna
rilevanza a deposizioni testimoniali quale quella del teste Arrigo in ordine all’identità

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i

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delle mansioni svolte dall’Alabiso dall’1/7/1998 al 31/3/2000 rispetto al periodo
successivo e circa l’espletamento di polivalenti funzioni ed attività.
7. I suddetti terzo e quarto motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente in ragione

Occorre innanzitutto rilevare un profilo di ammissibilità laddove, pur a fronte di
denunciate violazioni di legge, in realtà il ricorrente lamenta principalmente una
erronea valutazione delle circostanze fattuali che, se rettamente apprezzate, avrebbero
dovuto condurre a ritenere provata l’adibizione alle superiori mansioni e, dunque, un
vizio motivazionale.
Va, al riguardo, ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio
di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il
potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di
controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte
dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad
una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il
vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle emergenze
processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 20
aprile 2011, n. 9043; id. 13 gennaio 2011, n. 313; 3 gennaio 2011, n. 37; 3 ottobre
2007, n. 20731; 21 agosto 2006, n. 18214; 16 febbraio 2006, n. 3436; 27 aprile 2005,
n. 8718).
Il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza e
contraddittorietà della medesima, può, dunque, dirsi sussistente solo qualora, nel
ragionamento del giudice di merito, siano rinvenibile tracce evidenti del mancato o
insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o

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della intrinseca connessione, sono infondati.

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rilevabili d’ufficio, ovvero qualora esista un insanabile contrasto tra le argomentazioni
complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento
logico giuridico posto a base della decisione; per conseguenza le censure concernenti i

illogicità che rendano dei tutto irrazionali le argomentazioni del giudice del merito e
non possono risolversi nella richiesta di una lettura dette risultanze processuali diversa
da quella operata nella sentenza impugnata (cfr., ex multis, Cass. 14 gennaio 2011, n.
8; id. 22 dicembre 2006, n. 27464; 7 marzo 2006, n. 4842; 27 aprile 2005, n. 8718).
Al contempo va considerato che, affinché la motivazione adottata dal giudice di
merito possa essere considerata adeguata e sufficiente, non è necessario che essa
prenda in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni svolte
dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento,
dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni
logicamente incompatibili con esse (cfr., ex plurimis, Cass. 2 luglio 2004, n. 12121).
Né è possibile far valere con il vizio di motivazione la rispondenza della
ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della
parte e, in particolare, prospettare un preteso migliore e più appagante coordinamento
dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità
di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al
libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale
convincimento (così Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
In buona sostanza, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art.
360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento
decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata

IO

vizi di motivazione devono indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o

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soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non
sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua
nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al

La valutazione, poi, delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio
sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta,
tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la
motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale
nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di
altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare
tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e
circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente
incompatibili con la decisione adottata (Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412; id. 26 febbraio
2007, n. 4391; 27 luglio 2007, n. 16346).
Tanto precisato, va osservato che, nella specie, le valutazioni delle risultanze
probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l’iter logicoargomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando
alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
La Corte territoriale, sulla base dell’istruttoria svolta, ha evidenziato che “non è
stata comunque fornita la prova che, per il periodo rivendicato, le mansioni svolte e le
modalità delle stesse fossero tali da integrare il profilo professionale richiesto”. A tale
conclusione è pervenuta dopo aver individuato, sulla base del raffronto tra le
declaratorie ritualmente effettuato, l’elemento discriminante fra la categoria C e quelle

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giudice di legittimità.

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inferiori nella “polivalenza delle funzioni e delle attività svolte” e dopo aver ritenuto
che il ricorrente, così come riferito dai testi D’Arrigo e Pippia, lungi dall’essersi
occupato, in totale autonomia, di più fasi nel ciclo completo del processo produttivo,

pensioni per passare, poi, alla istruttoria delle pratiche di liquidazione delle pensioni e
delle ricostruzioni contributive rispetto alle quali la gestione dei dati e la verifica della
sussistenza dei requisiti avveniva in modo informatizzato, senza rilevanti momenti di
discrezionalità e con il mero attenersi del dipendente alla normativa ed alle circolari
dell’ I.N.P.S..
Nell’iter logico suddetto non si evidenza alcuna aporia, né incongruenza; la
sentenza, ampiamente e logicamente argomentata, risulta immune da qualsiasi vizio
motivazionale. Del resto, il ricorrente si limita a prospettare la propria lettura delle
risultanze istruttorie riportando, peraltro, neppure integralmente ma solo per stralci
alcuni passaggi delle deposizioni testimoniali su cui incentra le proprie critiche ed
invocando una inammissibile revisione del “ragionamento decisorio”, non sussumibile
nel controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, n. 5, cod. proc.
civ..
Né vale opporre che i giudici di merito avrebbero trascurato di considerare alcuni
passaggi delle deposizioni testimoniali (pure per altri aspetti valorizzate) di segno
asseritamente favorevole al ricorrente sia per le ragioni sopra evidenziate sia perché si
tratta di deposizioni (egualmente non trascritte nella loro interezza) che non offrono
precisi elementi inferirne la decisività ai fini della dimostrazione, per il circoscritto
periodo dall’1/7/1998 al 31/3/2000 (pressoché coincidente, come si rileva dalla
sentenza impugnata, con l’introduzione del lavoro per processi e con la

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era stato addetto dapprima alla istruttoria e liquidazione dei soli assegni familiari sulle

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Carlo Alabiso c/ I.N.P.S.

sperimentazione organizzativa che ne era scaturita e, dunque, con un quadro di
formazione in fieri che, nel caso dell’Alabiso, aveva visto un dipendente, partito da una
professionalità minore e da una fase di incertezza nella risoluzione dei problemi,

svolgere un processo in totale autonomia).
8. Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali tutte le altre eccezioni o
obiezioni devono considerarsi assorbite, in conclusione, il ricorso deve essere
respinto.
9. La regolamentazione delle spese, liquidate come in dispositivo, segue la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore
dell’I.N.P.S., delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00
per esborsi ed euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma,i123 gennaio 2014.

pervenire gradualmente ad una qualificazione professionale tale da consentirgli di

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