Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7562 del 01/04/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 7562 Anno 2014
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 24152-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2014

contro

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VIGLIOTTI FRANCESCO;
– intimato –

avverso la sentenza n. 928/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 01/04/2014

di

L’AQUILA,

depositata

il

04/10/2007

R.G.N.

177/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 16/01/2014 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;

ROBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega PESSI

R.G. 24152/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 88 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Teramo
rigettava la domanda proposta da Francesco Vigliotti nei confronti della s.p.a.

contratto di lavoro intercorso tra le parti, dal 1-7-2000 al 30-9-2000, per
“esigenze eccezionali” ex art. 8 cm’ 1994 come integrato dall’acc. 25-9-97 e
succ., con le pronunce consequenziali.
Il Vigliotti proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello degli Abruzzi — L’Aquila, con sentenza depositata il
4-10-2007, in accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine
apposto al contratto de quo, con la conseguente sussistenza di un rapporto a
tempo indeterminato dal 1-7-2000 “tuttora in essere”, e condannava la società
alla riammissione in servizio della lavoratrice e al pagamento in suo favore
delle retribuzioni maturate dalla messa in mora della datrice di lavoro, oltre
rivalutazione e interessi, “detratto quanto percepito in altre occupazioni”.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre
motivi.
Il Vigliotti ha resistito con controricorso.
La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Ciò posto, va rilevato che con il primo motivo la ricorrente censura (sotto i
profili della violazione di legge e del vizio di motivazione) la sentenza
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Poste Italiane diretta ad ottenere la declaratoria di nullità del termine apposto al

impugnata nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al
contratto de quo in quanto stipulato (per “esigenze eccezionali…”) oltre la
scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell’acc. az. 25-9-1997
ed all’uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente

Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia
dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al
ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
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ricognitiva dei detti accordi.

dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia

collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione
del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il detto primo motivo.
Con il secondo motivo (erroneamente indicato in ricorso come terzo, in
mancanza di un secondo) la ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte
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stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto

in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso
tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di interesse alla
funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di tempo anteriore
alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione di estinzione del

contrastare tale presunzione.
Anche tale motivo non merita accoglimento
Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni

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rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le circostanze atte a

rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).
Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente

comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara
manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del
rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto. Al
riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando
esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione
sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n.
14209), prescinde del tutto dal presupposto che la risoluzione per mutuo
consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale, anche se
tacita.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito, attenendosi a tali principi, ha
affermato che “il solo decorso del tempo non costituisce elemento sintomatico”
della “volontà tacita dell’appellante, espressa per fatti concludenti, di risolvere
il rapporto”, in mancanza di comportamenti significativi.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente, che
peraltro in questa sede richiama gli ulteriori elementi della breve durata del
contratto a termine e della percezione del t.f.r., comunque entrambi privi di
decisività (il primo del tutto irrilevante e il secondo per nulla univoco).

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ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei

Con il terzo motivo (erroneamente indicato in ricorso come quarto) la
società ricorrente, in ordine alle richieste economiche, deduce che nella
fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la prova dell’effettivo danno
subito, che comunque andrebbe ridotto in ragione dell’aliunde perceptum, e

conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.
Tale motivo risulta del tutto generico e astratto (così come, peraltro, il
relativo quesito conclusivo formulato ex art. 366 bis applicabile ratione
temporis, cfr. fra le altre Cass. 21-2-2012 n. 2499, 2615/2012, 12954/2012,
15461/2012, 1211/2013, 3819/2013, 18735/2013).
Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha condannato la società al
pagamento delle retribuzioni maturate dalla messa in mora (ravvisata nella
richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione), “detratto quanto percepito
in altre occupazioni”, la ricorrente censura tale decisione in modo
assolutamente generico, senza riportare il testo dell’atto che, secondo il suo
assunto, non avrebbe integrato la offerta della prestazione e la messa in mora
(contrariamente a quanto affermato dalla Corte di merito) e senza neppure
considerare che i giudici di merito hanno già espressamente limitato la
condanna con la detrazione dell’aliunde perceptum, di guisa che la censura
risulta altresì inconferente con il decisum.
Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze
economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche
modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32,
commi 5°, 6° e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183, invocato dalla società
con la memoria.
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che neppure vi sarebbe stata una effettiva offerta della prestazione con

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in

in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad
essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto.
Infine non deve provvedersi sulle spese non avendo l’intimato svolto
alcuna attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
Roma 16 gennaio 2014
IL CONSIGLIERE ESTENSORE

Il Funzionario Giudiziario
Dott.ssa Donate!!

qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,

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