Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7557 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. VI, 08/03/2022, (ud. 27/01/2022, dep. 08/03/2022), n.7557

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9094-2021 proposto da:

T.M., in proprio e, unitamente a M.F., nella

qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sulla

minore T.G., rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRO

CAPONE;

– ricorrenti –

contro

C.B., rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanni

D’Abramo;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 171/2021 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 27/01/2021;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

27/01/2022 dal Consigliere Dott. TEDESCO GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La vicenda riguarda l’impugnazione della rinuncia da parte di creditrice del chiamato, ai sensi dell’art. 524 c.c. (la lite è stata promossa da C.B. nei confronti del rinunciante T.M. e nei confronti della minore T.G., subentrata per rappresentazione al rinunciante, rappresentata nel giudizio dai genitori, il medesimo T.M. e M.F.).

La domanda è stata accolta dal tribunale, con sentenza confermata in grado d’appello. La Corte d’appello ha riconosciuto la legittimazione della C., in quanto creditrice in possesso di cambiale rilasciata dal rinunciante il 1 febbraio 2010, con scadenza 31 marzo 2013. Secondo la Corte d’appello, ai fini di valutare se il credito fosse già “sorto” anteriormente alla rinuncia, avvenuta il 17 gennaio 2012, occorreva riferirsi alla data di emissione del titolo, mentre la scadenza identificava solo il momento di esigibilità del credito. La Corte d’appello ha poi ritenuto che ci fosse la prova dell’insufficienza del patrimonio personale del debitore a soddisfare le ragioni della creditrice. In proposito essa ha posto l’accento sul fatto che il solo bene del rinunciante, sottoposto a procedura esecutiva, aveva un valore largamente inferiore rispetto al credito assistito da ipoteca di primo grado, potendosi quindi ragionevolmente ritenere l’incapienza del bene a soddisfare la ragioni della C., titolare di ipoteca di secondo grado.

Il ricorso è proposto sulla base di due motivi: il primo volto a censurare la decisione, positiva per il creditore, sulla impugnazione della rinuncia, mentre il secondo motivo censura la conferma, da parte della corte d’appello, della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, disposta dal primo giudice.

C.B. ha resistito con controricorso.

La causa è stata fissata dinanzi alla Sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore di inammissibilità del ricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Il primo motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c.: la soluzione data dalla Corte d’appello sui presupposti e requisiti della impugnazione della rinuncia è conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame del motivo non offre elementi per mutare orientamento.

Vengono in considerazione i seguenti principi:

a) il rimedio apprestato dall’art. 524 c.c. a favore del creditore, e cioè l’azione per ottenere l’autorizzazione ad accettare l’eredita in nome ed in luogo del debitore rinunziante, ha una mera funzione strumentale per il soddisfacimento del credito, e non è perciò necessario che il credito stesso si presenti con le caratteristiche dell’esigibilità e della liquidita, ma è sufficiente che, analogamente a quanto avviene per l’azione surrogatoria, e per la revocatoria, sussista una ragione di credito anche se non ancora accertata nel suo preciso ammontare, e persino eventuale e condizionata (Cass. n. 1470/1964);

b) per l’impugnazione della rinunzia ereditaria ai sensi dell’art. 524 c.c., è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, fondate ragioni facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori (Cass. n. 8519/2016; conf. n. 5994/2020; n. 2394/1974).

Le considerazioni della Corte d’appello, sia quelle con cui si pone l’accento sul momento di emissione del titolo, sia quelle fondate sul confronto fra il valore del bene oggetto di espropriazione e il credito oggetto di ipoteca di primo grado, sono del tutto in linea con tali principi; esse sono perciò incensurabili in questa sede.

E’ inammissibile anche il secondo motivo: viene in considerazione il principio secondo cui la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2, e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente (Cass. n. 3830/2021; n. 20018/2020).

La Corte d’appello ha riconosciuto, in considerazione della palese infondatezza dell’azione e del correlativo ritardo nella soddisfazione delle ragioni dei creditori, la sussistenza di tali requisiti. Il relativo accertamento, in quanto condotto alla stregua di parametri corretti, è perciò incensurabile in questa sede. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, ci sono le condizioni per dare atto della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Seconda Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 27 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

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